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«Rinviare il 2% del pil per le spese militari, come Scholz? Sono d’accordo». Un passetto più lontano dalla guerra. Non è la prima volta che la segretaria chiede limiti alle armi. Ma i dem sono tutt’altro che uniti

Elly Schlein allenta l’elmetto al Pd 

Che sia davvero un punto di svolta è ancora tutto da dimostrare, ma di certo la risposta data da Elly Schlein alla domanda se condividesse o meno la posizione del cancelliere tedesco Scholz sul rinvio dell’obiettivo di raggiungere il 2% del Pil di spesa militare, così come concordato con la Nato, ha il pregio dell’estrema chiarezza: «Sì».

Il monosillabo pronunciato dalla segretaria a Vicenza, durante la festa di Fornaci Rosse (appuntamento più unico che raro che vede i dem condividere gli spazi con M5s, sinistra, verdi, Rifondazione, radicali, Cgil, Anpi, Mediterranea e altri), non significa certo che il Pd si sia finalmente tolto l’elmetto dalla testa, anche perché non è nemmeno la prima volta che Schlein solleva qualche obiezione sulla disinvoltura con cui si parla di armamenti e sulla facilità con cui si decide di spendere sempre di più per implementarli.

ERA LA FINE di marzo quando, con un’intervista a Repubblica, la da poco segretaria del Pd aveva sostenuto di provenire dalla «cultura del disarmo» e aveva parlato di «assoluto dilemma etico» sull’invio di armi a Kiev per poi aggiungere anche di essere «contraria da sempre» all’aumento delle spese militari, invitando il governo a fare casomai di più per l’accoglienza familiare degli ucraini. La posizione era stata poi ribadita un mese dopo durante una conferenza stampa in cui aveva sì ribadito il sostegno alla resistenza all’invasione della Russia ma aveva anche rilanciato l’idea di Mattarella sulla difesa comune europea, argomentando che «se questo deve essere l’obiettivo, non vuol dire che fino ad allora bisogna aumentare le spese militari nazionali. Anzi, la condivisione dovrebbe portare ad un risparmio».

La linea in effetti molto chiara della segretaria non sembra però essere condivisa anche dal resto del Pd, o quantomeno dai suoi eletti. Nonostante la posizione contraria di Schlein – che spingeva per l’astensione -, quando a metà luglio l’europarlamento si è trovato a votare il piano Asap sulla possibilità dei governi di usare il Pnrr per comprare armi all’Ucraina, la delegazione del Pd ha votato compatta a favore con due sole eccezioni: Massimiliano Smeriglio e Pietro Bartolo. Consapevole che il cortocircuito sarebbe arrivato, però, la segretaria aveva in precedenza preparato il terreno in Italia con una mozione che impegnava il governo a usare i fondi del Recovery per la guerra. La Camera approvò all’unanimità e il Pd si è evitato sia l’imbarazzo europeo sia la guerriglia interna.

AD OGNI MODO, l’uscita di Vicenza segna un ulteriore passo avanti del Pd di Schlein verso una posizione più critica verso la guerra rispetto al passato, anche recentissimo, del partito: in discussione non c’è il sostegno all’Ucraina aggredita, ma allo stesso tempo è necessario sforzarsi sul fronte della diplomazia e delle trattative per arrivare alla pace. O, come ha detto in primavera la segretaria, «trovo assurdo che si stia tentando di fare un negoziato con le bombe».

VA DA SÉ che la posizione di Schlein continui a tirarsi dietro le critiche di chi invece vorrebbe sempre più guerra fino alla resa totale e definitiva della Russia, che in fondo era esattamente la posizione con cui l’ex segretario Enrico Letta ha affrontato le prime fasi della guerra e la non brillantissima campagna elettorale dell’anno scorso. L’eurodeputato renziano Nicola Danti, ad esempio, ritiene molto grave la proposta di venir meno a un impegno preso con la Nato: «Un traguardo rispettato da tutti i governi a cui il Pd ha partecipato con i suoi ministri della difesa». Posizione condivisa anche dal Libdem Andrea Marcucci, che dal Pd è andato via sbattendo la porta dopo aver perso l’ultimo congresso: «È poco serio il ripensamento di Elly Schlein»

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«No all’odio e ai muri, più ingressi regolari di migranti, le diversità sono un valore». Al Meeting di Rimini, Mattarella indica un orizzonte opposto a quello della destra. Quasi un’agenda, fondata sulla Costituzione, che sbatte contro le politiche del governo

POLITICA. Il Capo dello Stato al meeting di Rimini: più ingressi regolari, rispetto per tutte le diversità, stop a nazionalismi anacronistici

L’agenda Mattarella: sì ai migranti, no all’odio Sergio Mattarella al Meeting di Rimini per l’amicizia fra i popoli - foto di Francesco Ammendola/Ufficio stampa/LaPresse

L’agenda Mattarella si materializza, quasi a sorpresa, in una torrida mattina di fine agosto davanti al popolo di Cl. E delinea non solo una politica migratoria del tutto opposta a quella di Meloni e Salvini, ma anche uno spirito pubblico depurato da discorsi e sentimenti d’odio, intolleranza e discriminazione delle diversità. Discorsi d’odio, così frequenti in queste settimane, che il presidente colloca in aperto contrasto con la Costituzione.

RIMINI, NEL GRANDE auditorium della fiera il Capo dello Stato arriva tra gli applausi e gli incitamenti dei ragazzi del Meeting, con cui il rapporto è consolidato. A quella platea presenta subito un concetto molto familiare: l’«amicizia» come «carattere dell’esistenza umana», come «vocazione incomprimibile dell’uomo» e condizione imprescindibile per il «progresso dell’umanità». Un ingrediente fondamentale anche per la nascita della Costituzione, una risorsa cui attingere «per espellere l’odio », per facilitare la convivenza e il rispetto tra diversi, per superare lo stato di natura di

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POZZO NERO. Colpi di mortaio, esecuzioni, fosse comuni. Rapporto-choc di Human Rights Watch: centinaia di migranti etiopi uccisi dai soldati sauditi di Mohammed bin Salman. Mentre i leader del mondo fanno la fila alla corte dell’ex pariah e del suo petrolio

GOLFO. Uno scioccante rapporto di Human Rights Watch documenta le violenze: mortai, fosse comuni, corpi impilati l’uno sull’altro. A sparare le guardie del regno, in un luogo che doveva restare impenetrabile alle denunce internazionali. Dietro, il "prima i sauditi" di Mohammed bin Salman: altre latitudini, stessi nazionalismi

Migliaia di etiopi massacrati al confine saudita Luglio 2023, migranti etiopi al confine tra Yemen e Arabia saudita - Ap/Nariman El-Mofty

Cambia la latitudine, non cambia il nazionalismo di frontiera: politiche-specchio dal confine tra Usa e Messico al Mediterraneo, dall’Europa che esternalizza i confini sempre più in profondità nel continente africano al Golfo dei ricchi che fanno profitto sui poveri.

Succede così che nelle economie rette dalla subordinazione di altri esseri umani, quando questi non servono ai neoliberismi nazionalisti, diventano letteralmente carne da macello in confini sempre più militarizzati, confini tra «noi e loro». Questo dicono le 73 pagine in cui Human Rights Watch raccoglie il rapporto They fired on us like rain prodotto di un monitoraggio lungo più di un anno, dal marzo 2022 al giugno 2023, oltre 350 foto e video visionati, immagini satellitari e interviste ai sopravvissuti. L’esito: non iniziative personali ed estemporanee di qualche soldato saudita di frontiera, ma una politica mirata, di Stato, di uccisioni e detenzioni di massa di migranti etiopi.

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Il Golfo si libera dei migranti

IERI ERA la notizia di apertura dei più importanti quotidiani internazionali e, scorrendo un po’ a lungo le homepage, notizia anche in quelli italiani. Eppure, a ieri sera, non erano pervenuti commenti da parte di quegli esponenti della politica italiana ed europea impegnati da anni nel rafforzamento di relazioni commerciali e diplomatiche con uno dei regimi più feroci e segregazionisti della regione mediorientale. Da parte sua il Dipartimento di Stato Usa ha chiesto all’alleato saudita l’avvio di un’inchiesta.

I numeri sono impressionati, centinaia e centinaia di uccisioni stimate. Come impressionanti sono le immagini catturate dai satelliti (fosse comuni, campi di prigionia, crescenti infrastrutture per la detenzione e l’espulsione) e le testimonianze di chi è scampato a una macchina di morte sistematica e diffusa lungo il confine tra Arabia saudita e Yemen: il fuoco di esplosivi e mortai per ore consecutive, vere e proprie esecuzioni sul posto, corpi senza vita ammassati l’uno sull’altro che «parevano dormire, poi ho capito che non stavano dormendo intorno a me, erano cadaveri. Mi sono svegliato ed ero solo», il racconto del piccolo Hamdiya, 14 anni.

Dopo gli attacchi con l’artiglieria (che Hrw ha potuto confermare facendo valutare le ferite dei sopravvissuti e dei morti all’Independent Forensic Expert Group), le guardie di frontiera catturano i migranti e li detengono in campi di prigionia.

Detengono tutti: feriti lievi, mutilati, anche i cadaveri. Secondo le stime dell’organizzazione basate sulle testimonianze orali, su undici tentativi di attraversamento della frontiera gli etiopi uccisi nell’ultimo anno sarebbero almeno 655. In altri nove casi di attraversamento, i sopravvissuti non hanno saputo dare stime precise delle vittime. Conoscono però il numero di chi è rimasto in vita ed è stato poi detenuto: 281 persone su 1.630.

C’è anche chi ha provato a tornare indietro per recuperare i propri morti: ha trovato i resti «sopra una pila di venti corpi, è impossibile contarli, è qualcosa che va oltre l’immaginazione». C’è chi racconta di essere stato costretto ad abbandonare i feriti perché doveva correre per la propria vita. E chi di persone uccise da colpi di mortaio ma anche da esecuzioni sul posto, con i fucili. Tantissimi i feriti da colpi ravvicinati da arma da fuoco, da lastre di metallo, da pietre.

E poi i pestaggi, gli stupri. Infine, le fosse comuni: una decina quelle individuate tra la provincia saudita di Jizan e quella yemenita di Saada. Una zona montagnosa, piccoli sentieri tra le rocce, luogo che non doveva essere penetrato dalle denunce internazionali: nei video si vedono gruppi di migranti camminare uno in fila all’altro prima delle raffiche.

Le fosse comuni identificate nelle immagini satellitari (2023 Maxar Technologies/Human Rights Watch)

LA CARNEFICINA rientra nella politica lanciata dal principe ereditario saudita, e reggente de facto, Mohammed bin Salman, un «prima i sauditi» che richiama altri lidi ma identici nazionalismi. Da almeno cinque-sei anni Riyadh ha avviato campagne di deportazione di migliaia di migranti, accusati di togliere lavoro ai cittadini sauditi pur essendo da sempre sfruttati come manodopera a poco costo e zero diritti. Tantissimi arrivano dal Corno d’Africa: è la cosiddetta rotta orientale, collega – via mar Rosso – l’Etiopia e la Somalia allo Yemen.

Gli etiopi si imbarcano a Gibuti, la tratta fino a qualche tempo fa non era nemmeno troppo costosa se paragonata al Mediterraneo: 150 euro per 20 chilometri in barca sul Golfo di Aden. Più cara, almeno il doppio, quella dai porti somali di Berbera e Lughaya, direzione le città yemenite di Hodeidah e Aden.

Nel tempo i numeri sono lievitati. Se nel 2017 e nel 2018 l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) stimava 100mila arrivi annui in Yemen (di cui il 73% somali e il 25% etiopi), tra gennaio e ottobre del 2022 per la rotta orientale sono transitate 206mila persone. Il doppio: migranti economici, climatici, rifugiati in fuga dalla guerra in Tigray e le violenze jihadiste in Somalia. Un terzo sono donne, scrive l’Oim, il 6% bambini con i genitori e il 18% minori non accompagnati.

Di questi 206mila, 120mila sono entrati in Gibuti prima di tentare la via del mare. E la «bilancia» si è ribaltata: cinque anni fa la maggior parte dei migranti verso il Golfo erano somali, ora il 90% sono etiopi. Scappano dalla guerra tigrina ma anche dalla siccità che ha colpito vaste zone del paese riducendo al lumicino la possibilità di entrate economiche sufficienti a sfamare le famiglie.

Quasi nello stesso periodo, tra il primo marzo e il 25 novembre 2022, l’Arabia saudita ha deportato con la forza 73.697 migranti etiopi, per un totale di 500mila dal 2017. Nella monarchia ne restano comunque molti, se ne stimano 750mila (che si aggiungono ad altri milioni di lavoratori stranieri, quasi il 40% della popolazione totale).

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Migranti in trappola tra Yemen e Arabia saudita

PER ARRIVARCI, nel regno dei Saud, c’è da attraversare una lingua di mare pericolosa ma soprattutto una guerra, quella yemenita, oggi a bassa intensità ma che continua a frammentare il paese in autorità diverse che nei rifugiati vedono possibilità di lucro. E abuso: decine di migliaia di migranti, secondo i racconti degli stessi a Hrw, sono detenuti in campi di prigionia, torturati, affamati e costretti a pagare per proseguire il loro viaggio, con l’aiuto di trafficanti in affari con quelle stesse autorità.

Lo fa il governo ufficiale in auto esilio ad Aden e lo fa il movimento Ansar Allah, espressione politica degli Houthi, a Saada e Sana’a. Da lì in poi c’è solo la frontiera saudita

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ALLUVIONATI, L’ALLARME DI BONACCINI: “NON CI SONO I SOLDI”. COSÌ IL GOVERNO STA PRENDENDO IN GIRO GLI EMILIANI. A metterlo ancora una volta nero su bianco, dopo l’allarme degli amministratori locali e quello dei comitati che avevano scritto a Mattarella, è stato ieri sera il presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini: “Nove miliardi di danni, ci sono circa la metà delle risorse e già questo è un primo problema ma, soprattutto in questo momento, non ci sono le risorse per rimborsare, come il governo ha promesso, il 100% dei danni a cittadini e imprese”.

Il governatore ha spiegato di avere ottimi rapporti col commissario Figliuolo, il quale però, dopo aver indetto la riunione che si terrà tra due giorni, a quel tavolo non si presenterà. L’assenza è stata giustificata in anticipo perché si tratta di un incontro “tecnico”; eppure servirà per elaborare i primi interventi di messa in sicurezza del territorio e un piano generale post-alluvione, come si legge nell’invito ufficiale. Il punto, però, è quello che ha sottolineato Bonaccini: gli stanziamenti. 

Lo ha scritto Marco Palombi nella sua rubrica di qualche giorno fa: il governo e il suo commissario non stanno facendo quel che devono. I soldi non ci sono, non arrivano e quei pochi che arriveranno, chissà quando, non basteranno alla ricostruzione delle opere pubbliche né tanto meno a far ripartire i cittadini.

Sul Fatto di domani faremo il punto della situazione e analizzeremo i conti, che il governo sta facendo però sulla pelle degli alluvionati.

 

MIGRANTI, IL GOVERNATORE ZAIA: “ABBIAMO 9.000 PERSONE, NON C’È PIU SPAZIO”. MA LA LEGA HA LE SUE RESPONSABILITÀ. Il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, rilancia la preoccupazione sulla gestione dell’enorme flusso di migranti, soprattutto nelle regioni del Nord Italia, e le polemiche non arrivano solo dai sindaci del Partito democratico: “Abbiamo quasi 9 mila persone ospitate rispetto a questo flusso migratorio.

Non abbiamo mai rifiutato nessuno, ma siamo preoccupati perché non ci sono più spazi e la situazione rischia di diventare inquietante”. Zaia sostiene che non deve mancare la solidarietà ma “c’è un livello oltre il quale non possiamo garantire dignità. Dobbiamo scongiurare tendopoli e mega assembramenti, tipo Cona”. Per il presidente Zaia l’Europa non è esente da responsabilità: “È totalmente assente in questa partita. Non può essere latitante, bisogna chiedere che scenda in campo. L’Italia non può diventare il ventre molle del continente”.

Di certo la questione è un boomerang per la maggioranza di destra di cui la Lega fa parte. Il governo Meloni in campagna elettorale aveva sbandierato ricette magiche per fermare i flussi, ma i numeri, certificati dal Viminale, parlano chiaro: il 2023 potrebbe essere l’anno dei numeri record, nei primi 7 mesi dell’anno, emerge che gli sbarchi sono stati 89.158, rispetto ai 41.435 nello stesso periodo del 2022. Zaia accusa, eppure la Lega non è esente da responsabilità: sul Fatto di domani leggeremo come proprio il Carroccio negli anni passati abbia avuto un ruolo importante nel cambiamento della gestione dei centri di accoglienza

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CHIESA. In attesa dei giudici vaticani nel processo di appello contro Ultima generazione, Bergoglio lavora alla redazione di una «seconda parte» dell’enciclica del giugno 2015

Papa Bergoglio foto Ap Papa Bergoglio - foto Ap

Di fronte al perdurare e al peggiorare della crisi ambientale e climatica globale, papa Francesco sta lavorando alla redazione di una «seconda parte» della Laudato si’, l’enciclica eco-sociale del giugno 2015.

Lo ha annunciato lo stesso pontefice ieri mattina, al termine dell’udienza in Vaticano, a una delegazione di avvocati di Paesi membri del Consiglio d’Europa firmatari dell’Appello di Vienna (giugno 2022), che invita le nazioni a impegnarsi in favore dello Stato di diritto come garante della dignità di tutte le persone.

«SONO SENSIBILE alla cura che voi rivolgete alla casa comune e al vostro impegno per partecipare all’elaborazione di un quadro normativo in favore della protezione dell’ambiente», ha detto Bergoglio rivolgendosi “a braccio” agli avvocati, in un passaggio non contenuto nel testo del discorso consegnato prima dell’udienza. «Non dobbiamo mai dimenticare che le giovani generazioni hanno diritto a ricevere da noi un mondo bello e vivibile, e che questo ci investe di gravi doveri nei confronti del creato che abbiamo ricevuto dalle mani generose di Dio. Grazie per questo contributo. Io sto scrivendo una seconda parte della Laudato si’ per aggiornare i problemi attuali».

LE PAROLE DEL PAPA nei confronti dei giovani e del loro diritto a «un mondo bello e vivibile» stridono con quanto accaduto poco più di due mesi fa, quando il Tribunale dello Stato pontificio ha condannato a nove mesi di reclusione (pena sospesa) e al pagamento di una multa di 1.620 euro e a 28.148 euro di risarcimento due attivisti di Ultima Generazione che, come gesto dimostrativo per sensibilizzare le autorità sui temi del cambiamento climatico, si erano incollati alla base in marmo della statua di Laocoonte nei Musei vaticani, senza peraltro danneggiarla in alcun modo (una terza attivista è stata condannata “solo” a 120 euro di multa per aver ripreso e diffuso l’azione sui media).

«Il Vaticano, una delle ultime monarchie assolute del mondo, dimostra tutta la propria ipocrisia con questa condanna spropositata e assurda per due persone che hanno semplicemente voluto accendere i riflettori su quello che il papa scrive e predica», dichiarò allora in una nota il movimento. E in un certo senso Bergoglio ora dà loro ragione – chissà se lo faranno anche i giudici vaticani nel processo di appello – con l’annuncio della prossima uscita della Laudato si’ “numero due” che, precisa il direttore della sala stampa della Santa sede, Matteo Bruni, sarà «una lettera che vuole affrontare in particolare le recenti crisi climatiche». Anche se non è ancora chiaro se si tratterà di un “aggiornamento” della Laudato si’ oppure di una nuova enciclica sui temi eco-ambientali.

NELL’UDIENZA agli avvocati dei Paesi del Consiglio d’Europa, il pontefice è tornato ancora una volta a denunciare la «guerra insensata» che si combatte in Ucraina. E domenica il cardinal Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e inviato da papa Francesco a Kiev, Mosca, Washington e prossimamente Pechino per tentare di aprire una via per la pace, intervistato dal Sussidiario a margine del Meeting di Comunione e liberazione a Rimini, ha continuato a manifestare ottimismo per una soluzione al conflitto («dobbiamo credere che ci sia un modo per arrivare a una pace giusta e sicura non con le armi ma con il dialogo, questo non è mai una sconfitta e richiede garanzie e responsabilità da parte di tutti»), criticando però l’Unione europea: «Fa troppo poco, dovrebbe fare molto di più – ha detto Zuppi -. Deve cercare in tutti i modi di aiutare iniziative per la pace, seguendo l’invito di papa Francesco a una pace creativa»

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CARI CARBURANTI. Urso: «Non taglieremo le accise». La premier tace imbarazzata, le opposizioni accusano, i consumatori insorgono: raccolte 100mila firme. Il ministro delle Imprese: «Uno sconto ci costerebbe 12 miliardi l’anno» . Magi (+Europa): sui carburanti dalle destre una colossale truffa politica

 Giorgia Meloni in un video del 2019 quando chiedeva il taglio delle accise sulla benzina

Il ministro di Fdi Adolfo Urso chiude la porta a qualsiasi ipotesi di taglio delle accise sulla benzina. Il governo dunque smentisce l’impegno preso solennemente pochi mesi fa (da Meloni, Salvini e Giorgetti) di intervenire nel caso di impennate dei prezzi. Ieri mattina, ospite di Raitre, Urso ha detto che «il governo preferisce usare le risorse dalle accise sui carburanti per tagliare il cuneo fiscale».

«Il taglio sulle accise costa 1 miliardo al mese. Se riproponessimo la misura fatta dal governo Draghi, dovremmo trovare con altre tasse 12 miliardi di euro l’anno, ovvero più di quello che costava il Reddito di cittadinanza», le parole del ministro delle Imprese, non smentite dalla premier e neppure dai suoi vice Salvini e Tajani. E neppure dal titolare dell’Economia Giorgetti. «Il ministero dell’Economia sta preparando la manovra che sarà destinata al taglio strutturale del cuneo fiscale», ha ribadito Urso.

DUNQUE È LECITO DIRE che, per fare cassa alla vigilia di una manovra in cui il governo non sa come trovare i miliardi necessari, Meloni e Salvini si sono rimangiati le promesse fatte quando, a gennaio, tentarono di scongiurare lo sciopero dei benzinai e di placare le ire dei consumatori, furiosi per l’abolizione dello sconto di 30 centesimi al litro voluto da Draghi. Gli automobilisti, e cioè la gran parte dei cittadini italiani, si arrangino, il messaggio che arriva da palazzo Chigi.

URSO TENTA DI ADDOSSARE le responsabilità degli aumenti solo all’Opec+, il cartello dei paesi arabi alleati con la Russia che ha cominciato a tagliare la produzione per far salire i prezzi. E spiega che Draghi è intervenuto quando la benzina era a 2,20 euro al litro, «mentre ora la media è 1.945» e «stabile da tre giorni». Come dire: non c’è nessun problema. E ribadisce che «il prezzo industriale del carburante in Italia è il più basso in Europa», naturalmente «al netto delle accise» che il governo non intende diminuire.

ALL’OPPOSIZIONE non costa molti sforzi ricordare le promesse fatte dalle destre in campagna elettorale. Debora Serracchiani del Pd accusa Urso di «contorsionismo politico», un gioco delle tre carte in cui le odiate accise sono diventate per Fdi e alleati «una tassa buona». «Il ministro non si nasconda dietro l’Opec o agli speculatori e intervenga subito perché le conseguenze del caro-carburanti si riflettono sui prezzi di tutte le filiere dei beni essenziali». «Suggeriamo al ministro di scendere dalla sua auto blu, andare a fare benzina e chiedere agli altri automobilisti…», rincara Antonio Misiani.

Silvio Lai propone di tassare le multinazionali «che hanno fatto extraprofitti miliardari con la crisi energetica» per finanziare il taglio delle accise. «Ma la destra ha deciso di stare dalla parte dei grandi interessi e non certo delle famiglie e delle piccole imprese». «Non sappiamo in quale mondo viva il ministro ma in quello in cui vivono gli italiani la benzina costa sempre più cara», dice Raffaella Paita di Iv. «Negando di aver tagliato le accise, Urso si addossa finalmente la responsabilità degli aumenti».

«Delle due, l’una: o Meloni e Salvini hanno preso in giro gli italiani in tutti questi anni, oppure Urso ha il mandato chiaro da parte del governo di fare cassa in vista della finanziaria mettendo direttamente le mani nelle tasche degli italiani. In entrambi i casi siamo davanti a una delle più grandi truffe politiche e ideologiche d’Italia», l’attacco di Riccardo Magi di +Europa.

SULLE BARRICATE ANCHE le associazioni dei consumatori. «Il governo, con un ribaltamento completo della realtà, adesso rivendica la scelta di non tagliare le accise, dopo aver promesso di farlo», accusa il Codacons, che ha presentato decine di esposti contro il Mef in varie procure d’Italia «con diffida a congelare i 2,2 miliardi di euro di accise incamerati solo nell’ultima settimana». «Meloni deve spiegare agli italiani perché le accise andavano tagliate solo in campagna elettorale». Altroconsumo annuncia di aver superato quota 100mila firme per una petizione che chiede che venga immediatamente reintrodotto il taglio delle accise e che «si proceda quanto prima all’azzeramento dell’Iva» sui carburanti

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