«È inutile che io adesso venga a dare delle date. Non abbiamo date perché dobbiamo mettere a punto le procedure e le piattaforme». Il generale Francesco Paolo Figliuolo, commissario per l’alluvione in Emilia- Romagna, a un certo punto si innervosisce davanti alle domande dei cronisti arrivati a Bologna per il punto stampa dopo l’incontro tra il commissario, il governatore Bonaccini, gli enti locali e le parti sociali.
Il nodo irrisolto è soprattutto quello degli indennizzi per famiglie e imprese che hanno visto distrutte dal fango le loro case, capannoni, terreni agricoli. Dei 4,5 miliardi (sulla carta) stanziati finora del governo, non ci sono soldi per queste voci. Figliuolo ieri ha portato 289 milioni ricevuti dal governo per le somme urgenze, e cioè per mettere le prime toppe a fiumi, argini e ponti disastrati. Soldi anticipati dai Comuni, che ora vengono rimborsati.
Il commissario spiega di dover «mettere a punto le piattaforme e le procedure» per far sì che i danni siano certificati in modo meticoloso, per poi procedere con i rimborsi. Ma se non si accelerano le procedure le famiglie rischiano di vedere questo soldi tra due anni», spiega il sindaco di Ravenna Michele De Pascale che in queste ore sta tuonando contro Meloni: «Deve tornare in Romagna e ascoltare le nostre proposte».
I sindaci e Bonaccini chiedono con forza di dirottare i fondi non spesi del primo decreto alluvione, circa 1,2 miliardi, sugli indennizzi. Dei soldi stanziati dal governo per cassa integrazione e sostegno alle imprese a forte export, infatti, sono stati utilizzati circa 50 milioni. Gli altri non possono essere dirottati senza un intervento del governo. E Figliuolo non può dirottarli da solo.
L’altra richiesta degli enti locali è il credito d’imposta, come è accaduto per il terremoto del 2012: le banche anticipano i soldi, poi lo Stato le ristora con detrazioni fiscali. «Ha funzionato allora, bisogna ripetere quel modello», dice Bonaccini, che ancora non ha ricevuto risposte dal governo. «Nei territori sta crescendo un po’ di tensione», ha detto il governatore. «Non c’è certezza, per le famiglie le uniche risorse arrivate finora sono i 3.000 euro che la Regione ha erogato subito dopo il disastro».
L’alluvione ha prodotto danni per circa 9 miliardi. «Ne mancano ancora parecchi», dice il governatore che ribadisce fiducia e collaborazione con Figliuolo. «Non dobbiamo litigare col governo su chi ha torto e chi ha ragione, sarebbe meschino: l’interesse che dobbiamo fare è verso i cittadini».
Non c’è solo il nodo degli indennizzi. Ma anche la messa in sicurezza del territorio: «I cantieri sugli non vanno aperti, ma completati entro l’inverno: bisogna agire subito sulle infrastrutture idrauliche e per rimuovere tutti i detriti che ancora limitano il deflusso delle acque. Se non sarà così, un fenomeno ordinario di pioggia rischia di produrre danni straordinari». Per il 2023 il governo ha stanziato circa 800 milioni, stessa cifra per i due anni successivi. Per fare questo serve personale. «Abbiamo chiesto un tempestivo e forte irrobustimento delle strutture tecniche, perché c’è una mole di lavori a cui non si è abituati in tempi così stretti», insiste Bonaccini.
Figliuolo promette, rassicura. «A brevissimo ci sarà un’ordinanza per interventi urgenti per la messa in sicurezza del territorio. Vogliamo perimetrare bene i danni da ristorare e stiamo lavorando per rimborsare il 100%». Quando non è chiaro. Di fatto, a oggi, per cittadini e imprese ci sono circa 270 milioni. «Ne servono dieci volte tanti», dice Bonaccini. E la senatrice del Pd Sandra Zampa: «Non è accettabile sentire il commissario dire che non sa dare una data perché devono essere ancora messe a punto piattaforme e procedure»
Treni, binari e stazioni che spesso sono associati a vacanze, viaggi, lavoro e paesaggi che scorrono sotto i nostri occhi, la notte scorsa si sono trasformati in un incubo per i cinque operai investiti dal treno e per i loro familiari, i compagni di lavoro che si sono salvati, i due macchinisti, incolpevoli protagonisti della tragedia, e per tutti i ferrovieri.
Resta da spiegare perché sette persone specializzate in quel tipo di manutenzioni si siano trovate a lavorare sul binario con la circolazione ancora attiva. Sarebbe stato chiuso al traffico solo pochi minuti dopo.
Le regole sulla carta sono chiare, prima di accedere al binario la squadra di lavoro deve ricevere una comunicazione formale per il nulla osta, che può arrivare solo dopo una complessa procedura che inizia dal gestore della circolazione, il capostazione locale o dirigente operativo che governa il traffico. Questo la trasmette a un dipendente di Rfi sul posto che assume il ruolo di titolare dell’interruzione del traffico che a sua volta la gira ad un’altra figura che funge da scorta alla squadra di lavori; una sorta di “accompagnatore” che funge da anello di congiunzione tra Rfi e la ditta appaltatrice. Alla fine dei lavori, attestata formalmente sul posto, il flusso di comunicazioni viaggia al contrario attraverso la scorta, i titolare dell’interruzione per arrivare al capostazione che solo allora potrà riaprire la linea al traffico e lasciar passare di nuovo i treni. Ma la realtà del lavoro è ben diversa da quanto scritto sui documenti aziendali.
NON SAPPIAMO con esattezza dove e come questo schema non abbia funzionato. Servirà l’inchiesta della procura e dei servizi ispettivi della Asl che si occupano di infortuni sul lavoro. Sappiamo però con certezza che vi è una frequenza inaccettabile di questa tipologia di infortuni gravi e mortali che accadono sui nostri binari, sempre uguali a se stessi e sappiamo anche che né Rfi, datrice di lavoro, né sindacati, né le altre istituzioni preposte hanno affrontato efficacemente la grave questione.
Certo è che lavorare col traffico aperto è una modalità ad altissimo rischio. Sul punto è in atto da anni un braccio di ferro, tra lavoratori, Rls, sindacati, ora sostenuti anche dall’Agenzia per la sicurezza ferroviaria Asfisa, contro Rfi, proprio per sospendere obbligatoriamente la circolazione durante le manutenzioni.
Resta infatti pericoloso non solo lavorare sul binario sui cui passa il treno, per poi spostarsi «su avvistamento» al suo passaggio, metodo ormai quasi in disuso, ma è pericoloso anche lavorare sul binario attiguo, tenendo conto che il treno passa a pochi centimetri da chi lavora, della complessità delle attività, della presenza di mezzi e macchinari rumorosi e del fatto che le lavorazioni oramai si svolgono prevalentemente di notte.
VISTI I PRECEDENTI procedimenti giudiziari in casi analoghi di investimenti sui binari, temo che sarà ricercato soltanto l’errore umano dell’ultimo anello della catena di comando, senza che la giustizia si interroghi sulla frequenze e prevedibilità di queste morti, senza nessuna riflessione sulle dinamiche e le conseguenze del sistema degli appalti, sul peso abnorme che svolge la ricerca del profitto, sul peso della precarietà contrattuale nelle prassi lavorative irregolari, ignorate o anche solo tollerate.
A spingere la magistratura a cercare verso i piani più bassi della scala gerarchica delle ferrovie c’è oltretutto una normativa sulla sicurezza del lavoro obsoleta e autoreferenziale che avvantaggia le imprese del settore ferroviario ed Rfi in particolare rispetto al resto del mondo produttivo e industriale. Caso forse unico di impresa che emana da se stessa la normativa di sicurezza mediante le sue «Istruzioni». Infatti, il settore ferroviario gode di una vecchia normativa dal sapore borbonico risalente al 1974, oggi assolutamente inadeguata e di difficile interpretazione e applicazione. L’armonizzazione necessaria con il resto dell’ordinamento, per garantire a chi lavora con le ferrovie le medesime tutele degli altri lavoratori, prevista dal Testo Unico 81/08, dopo innumerevoli rinvi viaggia con oltre 15 anni di ritardo.
QUELLA DI IERI è stata una immane tragedia, balzata giustamente all’attenzione dell’opinione pubblica per il numero delle persone coinvolte contemporaneamente, e per l’inspiegabile arretratezza dei sistemi di protezione. Tra i ferrovieri viene già chiamata la «nostra Thyssen». Siamo nel 2023, circondati da tecnologie avanzatissime che vediamo in azione dappertutto, anche nelle stesse ferrovie. Basta guardare ai sistemi informatici che fanno viaggiare i treni a grande velocità, le stazioni connesse col mondo, le biglietterie online: ma per la sicurezza degli operai che lavorano per consentire tutto questo, siamo ancora ai dispacci telefonici e alle regole del secolo scorso.
Ci dobbiamo interrogare tutti sul da farsi tralasciando l’ipocrisia dei comunicai di solidarietà, per primi impresa e sindacati, ma anche governo, magistratura, Ispettorato del lavoro e Regioni, titolari del potere e dovere di vigilanza sulla salute e sicurezza dei lavoratori. Ma l’unico rimedio veramente efficace non può che trovarsi in una rinnovata consapevolezza dei lavoratori e una loro mobilitazione. Per mettere in discussione tutte le fasi critiche e pericolose delle lavorazioni, iniziando dalle manutenzioni.
* macchinista e Rls, licenziato due volte (e due volte reintegrato dai giudici) per le denunce sulla sicurezza
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Da qualche giorno il caos regna sovrano sul Piemonte, dove la Regione, governata dal centrodestra, ha deciso di anticipare di due anni il blocco dei veicoli diesel Euro 5 rispetto alle altre regioni del bacino padano, facendolo partire dal 15 settembre.
Sebbene la giunta regionale guidata da Alberto Cirio abbia preso questa decisione a febbraio del 2021, i dettagli della sua messa in pratica sono stati decisi solo a fine giugno 2023, e la comunicazione è partita ancora dopo, facendo ovviamente infuriare gli oltre 140mila possessori di veicoli bloccati nonché le associazioni di artigiani e commercianti. In un interessante cortocircuito, il più infuriato per la decisione è stato il ministro dei trasporti, che ha chiesto un intervento del governo per rimandare o addirittura annullare il blocco, intervento promesso prima per martedì, poi per ieri, ma che per ora non si è ancora tradotto in decisioni ufficiali. Ci sono alcune questioni di fondo che vanno messe in evidenza di questa faccenda.
La speranza esige pensieri pessimisti
La prima è che l’Italia è il Paese europeo con le più gravi violazioni della direttiva europea sulla qualità dell’aria, con ben tre condanne ed una indagine in corso e rischia di pagare centinaia di milioni di euro di multe. Oltre a questo, è anche il Paese con più morti per smog, oltre 60mila all’anno. La seconda è che, a differenza di quanto dice Salvini, il blocco degli Euro5 non è stato «imposto da Bruxelles» ma deciso a Torino in piena autonomia. E qui viene da chiedersi se la Regione Piemonte abbia confrontato questa soluzione con altre meno discriminatorie di una categoria di cittadini.
Una delle soluzioni che potrebbero dare un contributo forse anche maggiore alla riduzione delle emissioni del traffico potrebbe ad esempio essere la riduzione della velocità su tutte le strade ed autostrade se non d’Italia almeno del bacino padano, una misura che colpirebbe i possessori di Porsche e di Panda in modo egualitario. La terza e più generale questione riguarda però la vera genesi del problema, ovvero l’opposizione ideologica alla transizione ecologica di chi oggi governa sia la Regione Piemonte che la Repubblica Italiana.
Il furore con il quale viene attaccata l’Europa sul Green Deal, l’acrimonia con la quale si bollano come “gretini” tutti gli ambientalisti, il disprezzo per gli appelli della scienza sul clima, il ricorso alle soluzioni più fantasiose pur di non affrontare i problemi ambientali con gli strumenti noti e utilizzati da tutti i Paesi avanzati sono tutti figli di questo atteggiamento ideologico. Non è un caso quindi che il Piemonte si trovi oggi ad affrontare questa tempesta; si tratta del risultato ovvio di quattro anni di un governo regionale che ha fatto di tutto per nascondere le vere cause dello smog, che sono soprattutto le emissioni del traffico e dell’agricoltura, e ha quindi perso tempo prezioso dirottando risorse economiche su iniziative con effetti marginali. Il combinato disposto delle procedure di infrazione e delle inchieste della magistratura torinese hanno però finalmente ridotto spazio alle finzioni e messo tutti di fronte alle proprie responsabilità e mancanze
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Elly Schlein con Maurizio Landini - LaPresse
Ci sarà un’altra raccolta firme per un referendum per abolire il Jobs Act e reintrodurre l’articolo 18? Per ora il punto interrogativo è necessario. Il segretario della Cgil Maurizio Landini ne ha parlato alcuni giorni fa in un’intervista al Qn. «Le leggi che hanno favorito la precarietà vanno cambiate. Se governo e Parlamento non intervengono siamo pronti nei prossimi mesi a prendere in considerazione anche il referendum per abrogare leggi folli, compreso il Jobs Act», ha spiegato Landini.
Nel 2017 la Cgil provò una prima volta la strada referendaria per reintrodurre l’articolo 18 (con reintegro del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa). Ma la Corte costituzionale guidata da Paolo Grossi accolse la tesi dell’inammissibilità difesa da Giuliano Amato. Mentre la relatrice Silvana Sciarra, attuale presidente della Consulta, si era schierata per ammettere il referendum.
Ad oggi, la Cgil non ha ancora fatto partire la macchina organizzativa: non c’è un quesito su cui raccogliere le firme, e del resto la legge prevede che la raccolta possa iniziare, eventualmente, solo a gennaio. Per ora quello referendario è solo uno strumento di pressione politica di Landini, un’ipotesi. Sull’articolo 18 infatti il quesito dovrebbe essere modificato. Inoltre il Jobs Act è una legge delega, molto complessa, e non è ancora chiaro su quali altri punti si potrebbe intervenire. In ogni caso, gli italiani non sarebbero chiamati al voto prima della primavera 2025.
Nonostante tutto, la polemica politica è già scoppiata. È bastato che Schlein, intervistata martedì alla Versiliana, non bocciasse l’ipotesi, per scatenare l’offensiva di Renzi e Calenda. «Condividiamo la forte preoccupazione sulla precarietà del lavoro in Italia, che ha toccato livelli assurdi. Seguiremo con grande attenzione le iniziative del sindacato in questa direzione», le parole della leader Pd sulla battaglia annunciata da Landini. Un atteggiamento prudente, che non impegna il partito direttamente nella battaglia referendaria, se mai ci sarà.
E tuttavia questo è bastato, ad alcuni protagonisti di quella stagione di cosiddette riforme, per salire sulle barricate. «Appoggiare il referendum contro il Jobs act è un grave errore del Pd», tuona Calenda. «Non bisogna ingessare il mercato del lavoro». Renzi, che fu l’autore di quella riforma, chiama in causa i suoi ex ministri che sono rimasti nel Pd. «Cari Paolo Gentiloni, Roberta Pinotti, Beatrice Lorenzin, Marianna Madia, Dario Franceschini, Graziano Delrio: vi ricordate che voi eravate in consiglio dei ministri in quei giorni? Cari Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani, vi ricordate che voi eravate i vicesegretari di quella squadra? Quale faccia indosserete per recarvi al seggio? Io un referendum l’ho perso, ma meglio quello che perdere la dignità». «Così Schlein corbynizza il Pd», il gridfo di dolore di Enrico Borghi, che pochi mei fa ha lasciato i dem per Iv.
Tra i dem c’è grande prudenza. Non solo nell’ala destra che sostenne le riforme di Renzi. Cecilia Guerra, responsabile lavoro della segreteria, spiega che i dem potranno pronunciarsi solo se e quando ci sarà un quesito depositato. «Sui temi della precarietà, dei salari e della rappresentanza ci sono molti punti di contatto tra noi e la Cgil e siamo molto interessati ad una battaglia comune», mette a verbale. «Le firme che stiamo raccogliendo sono per il salario minimo, siamo concentrati su questo». Sulla stessa linea il responsabile economico Antonio Misiani. Tra i sostenitori della segretaria c’è chi ammette , a microfoni spenti, che se la Cgil dovesse davvero lanciare una battaglia referendaria «per noi sarebbe complicato dire di no». Anche a costo di una spaccatura
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Abolito il Reddito di cittadinanza, la ministra Calderone presenta la complicata piattaforma, attiva da domani, su cui gli «occupabili» dovrebbero trovare lavoro. Ma sarà un’impresa. E i corsi di formazione che permettono di ottenere 350 euro per 12 mesi non ci sono. Specie al Sud
DESTRA ASOCIALE. Presentata la piattaforma per gli «occupabili»: due patti da firmare solo per registrarsi. La Siisl parte domani ma per avere i 350 euro (per un solo anno) servirà partecipare a corsi che non ci sono
La ministra del Lavoro Marina Calderone - Foto LaPresse
Tre quarti d’ora di ringraziamenti – a partire da Giorgia Meloni, s’intende – e tre quarti d’ora per provare a spiegare come funziona – senza minimamente riuscirci. La presentazione della nuova piattaforma «Sistema informativo di inclusione sociale e lavorativa» – felicissima locuzione che ha come acronimo il simpatico Siisl – si è tramutata in un patetico tentativo della ministra Marina Calderone di sostenere che la cancellazione del Reddito di cittadinanza porterà solo benefici ai poveri e ai disoccupati del Belpaese che domani primo settembre dovranno avere a che fare con uno strumento informatico assai complesso e con un numero senza precedenti di nuovi acronimi impronuciabili.
«Abolito il Reddito di cittadinanza ci sarà una bomba sociale? Assolutamente no, i numeri sono totalmente gestibili. Ma di numeri oggi non ne do nessuno»
PER RISPONDERE ALLE PIAZZE del sud che ribollono di proteste, Calderone ha dedicato il momento più pregnante del suo lungo sproloquio: «A chi parla di bomba sociale io rispondo: no, assolutamente no. I numeri ci dicono che la situazione è assolutamente gestibile».
Quali numeri? «Oggi non daremo nessun numero», si corregge
Leggi tutto: Per Calderone va tutto bene: «I poveri ci ringrazieranno» - di Massimo Franchi
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La sede di Eni - Foto LaPresse
Per un governo che si autoproclama sovranista e in buona parte statalista, la risposta con cui il ministro Giancarlo Giorgetti ha annunciato di nuove «privatizzazioni» «disinvestendo nelle partecipazioni dello stato» è un bel controsenso. Reso ancor più paradossale dal fatto che l’annuncio è arrivato mentre lo stesso Giorgetti faceva passare per «interventismo» lo stanziamento solo «fino al 20%» del Mef nella rete Tim, svenduta agli americani di Kkr.
La coerenza non è certo la caratteristica precipua del ministro dell’Economia: uno a cui tocca parlare di cancellazione della riforma delle pensioni Fornero dopo che ha deciso di tagliare le rivalutazioni a 4,3 milioni di persone con assegni da 1.200 euro netti (anche per l’anno prossimo) o che poche ore dopo aver disertato la conferenza stampa sulla tassazione degli extraprofitti deve partecipare ad una riunione della sua Lega per far vedere di essere d’accordo.
Detto questo, Giorgetti sta diventando un vero equilibrista e allora per trovare le risorse necessarie almeno a rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale (10 miliardi) ha trovato una nuova strada: svendere le poche partecipazioni ancora detenute dal Mef.
I rarissimi gioielli di famiglia rimasti sono: Enel (23,59%), Eni (4,34%, oltre al 25,76% attraverso Cdp), Leonardo (30,20%), Poste italiane (29,26% oltre al 35% attraverso Cassa depositi e prestiti) e St Microelectronics.
Da via XX settembre non si esclude niente: «Non possiamo entrare in qualsiasi dettaglio al momento».
Ma le alternative non sono molte e così pure i possibili proventi. Le ultime privatizzazioni sono state effettuate da quel convinto liberista di Matteo Renzi (e Padoan): nel 2015 quando il Tesoro cedette al mercato il 34,7% di Poste Italiane, incassando più di 3 miliardi di euro; nel 2016 toccò all’Enav (società che gestisce il controllo del traffico aereo) con un’offerta pubblica (Ipo) che fece incassare al Mef 834 milioni.
Anche con il governo Gentiloni – e sempre Padoan all’Economia – si tornò a parlare di privatizzazione: il Tesoro puntava a dare una spinta al dossier per raggiungere a fine anno lo 0,2% del Pil e sul tavolo c’era la cessione a Cassa depositi e prestiti dell’intera quota in Enav e di una parte della partecipazione del 4,3% detenuta in Eni.
Qualcuno sussurra che ora potrebbe toccare a Ferrovie dello Stato, che Renzi non riuscì a privatizzare, ma le più probabili e appetibili dal mercato sono certamente Eni, Enel e una seconda tranche di Poste Italiane. Molto difficile però arrivare a quota 10 miliardi.
Discorso a parte vale per Montepaschi. La banca disastrata dagli scandali è stata nazionalizzata con il benestare della commissione Europea nel 2017. La ri-privatizzazione è richiesta entro l’anno prossimo da Bruxelles, ma i proventi andrebbero a coprire solo in parte i 5,4 miliardi già stanziati
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