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«Rinviare il 2% del pil per le spese militari, come Scholz? Sono d’accordo». Un passetto più lontano dalla guerra. Non è la prima volta che la segretaria chiede limiti alle armi. Ma i dem sono tutt’altro che uniti

Elly Schlein allenta l’elmetto al Pd 

Che sia davvero un punto di svolta è ancora tutto da dimostrare, ma di certo la risposta data da Elly Schlein alla domanda se condividesse o meno la posizione del cancelliere tedesco Scholz sul rinvio dell’obiettivo di raggiungere il 2% del Pil di spesa militare, così come concordato con la Nato, ha il pregio dell’estrema chiarezza: «Sì».

Il monosillabo pronunciato dalla segretaria a Vicenza, durante la festa di Fornaci Rosse (appuntamento più unico che raro che vede i dem condividere gli spazi con M5s, sinistra, verdi, Rifondazione, radicali, Cgil, Anpi, Mediterranea e altri), non significa certo che il Pd si sia finalmente tolto l’elmetto dalla testa, anche perché non è nemmeno la prima volta che Schlein solleva qualche obiezione sulla disinvoltura con cui si parla di armamenti e sulla facilità con cui si decide di spendere sempre di più per implementarli.

ERA LA FINE di marzo quando, con un’intervista a Repubblica, la da poco segretaria del Pd aveva sostenuto di provenire dalla «cultura del disarmo» e aveva parlato di «assoluto dilemma etico» sull’invio di armi a Kiev per poi aggiungere anche di essere «contraria da sempre» all’aumento delle spese militari, invitando il governo a fare casomai di più per l’accoglienza familiare degli ucraini. La posizione era stata poi ribadita un mese dopo durante una conferenza stampa in cui aveva sì ribadito il sostegno alla resistenza all’invasione della Russia ma aveva anche rilanciato l’idea di Mattarella sulla difesa comune europea, argomentando che «se questo deve essere l’obiettivo, non vuol dire che fino ad allora bisogna aumentare le spese militari nazionali. Anzi, la condivisione dovrebbe portare ad un risparmio».

La linea in effetti molto chiara della segretaria non sembra però essere condivisa anche dal resto del Pd, o quantomeno dai suoi eletti. Nonostante la posizione contraria di Schlein – che spingeva per l’astensione -, quando a metà luglio l’europarlamento si è trovato a votare il piano Asap sulla possibilità dei governi di usare il Pnrr per comprare armi all’Ucraina, la delegazione del Pd ha votato compatta a favore con due sole eccezioni: Massimiliano Smeriglio e Pietro Bartolo. Consapevole che il cortocircuito sarebbe arrivato, però, la segretaria aveva in precedenza preparato il terreno in Italia con una mozione che impegnava il governo a usare i fondi del Recovery per la guerra. La Camera approvò all’unanimità e il Pd si è evitato sia l’imbarazzo europeo sia la guerriglia interna.

AD OGNI MODO, l’uscita di Vicenza segna un ulteriore passo avanti del Pd di Schlein verso una posizione più critica verso la guerra rispetto al passato, anche recentissimo, del partito: in discussione non c’è il sostegno all’Ucraina aggredita, ma allo stesso tempo è necessario sforzarsi sul fronte della diplomazia e delle trattative per arrivare alla pace. O, come ha detto in primavera la segretaria, «trovo assurdo che si stia tentando di fare un negoziato con le bombe».

VA DA SÉ che la posizione di Schlein continui a tirarsi dietro le critiche di chi invece vorrebbe sempre più guerra fino alla resa totale e definitiva della Russia, che in fondo era esattamente la posizione con cui l’ex segretario Enrico Letta ha affrontato le prime fasi della guerra e la non brillantissima campagna elettorale dell’anno scorso. L’eurodeputato renziano Nicola Danti, ad esempio, ritiene molto grave la proposta di venir meno a un impegno preso con la Nato: «Un traguardo rispettato da tutti i governi a cui il Pd ha partecipato con i suoi ministri della difesa». Posizione condivisa anche dal Libdem Andrea Marcucci, che dal Pd è andato via sbattendo la porta dopo aver perso l’ultimo congresso: «È poco serio il ripensamento di Elly Schlein»