Taglio dei parlamentari. Il campo del Sì scricchiola e potrebbe crollare. Il Pd si è infilato in un vicolo cieco. E della nuova legge elettorale non si ha notizia né dei contenuti né dei tempi di discussione
La contesa referendaria si anima e non poco. Era partita quasi in sordina, al piccolo trotto, con i sostenitori del Sì fieri e tronfi, convinti di marciare verso un plebiscito a insegne spiegate. Ma le cose stanno andando molto diversamente. Dall’intervista di Bettini in poi si è aperta una voragine dentro il Pd, fino alle dichiarazioni di Zingaretti che scopre che il taglio dei parlamentari senza neppure il correttivo di una nuova legge elettorale è un pericolo democratico e una porta spalancata all’antiparlamentarismo populista. Alcuni hanno interpretato questa scomposta alzata di toni come un’astuta manovra per riuscire almeno a discutere e votare il «Brescellum» in un ramo del Parlamento. Ma si tratta di dietrologie buoniste del tutto infondate.
NON È SOLO una questione di tempi troppo stretti. Chi ha un minimo di esperienza parlamentare sa bene come sia scivoloso e comunque imprevedibile il terreno della discussione su nuove normative in campo elettorale, sia per quanto riguarda gli esiti, che possono arrivare a stravolgimenti del progetto originario se non addirittura a insabbiamenti più o meno definitivi, sia per la totale imprevedibilità della durata del percorso parlamentare. A meno che non si voglia ricorrere a manomissioni regolamentari e costituzionali. Così gli appelli a Conte per fare rispettare il patto di maggioranza come gli ultimatum di Zingaretti “in aula con chi ci sta” cadono in un totale vuoto di credibilità.
I renziani si sono sfilati da tempo, anche se non rinunciano ad usare la tattica del dondolio fra aperture e chiusure assolute. Forza Italia e Lega non sono propense a intese, avendo affidato alle imminenti regionali la prova della loro reale consistenza politico elettorale. Fratelli d’Italia coltiva e amministra la propria crescita di consensi nei sondaggi. Inoltre non manca molto alla riunione della Corte Costituzionale, convocata inusitatamente per il 12 agosto, che dovrà decidere su quattro ricorsi presentati contro le conseguenze negative che avrebbe il taglio dei parlamentari e l’election day.
IL «BRESCELLUM», dal canto suo, non sanerebbe affatto lo strappo alla rappresentanza politica e quindi alla democrazia. Non solo la soglia di accesso è troppo alta, il 5%, ma non vi è la possibilità da parte dei cittadini di scegliere gli eletti. Quindi le segreterie e i potentati dei partiti continuerebbero a farla da padroni. Si dice che vi sarebbe disponibilità ad abbassare la soglia fino al 3% per accontentare le forze minori, ovvero Italia Viva, ma a quel punto tanto varrebbe per i renziani tenersi l’attuale Rosatellum. Del resto, come ha sostenuto Massimo Villone su queste pagine, anche una legge elettorale proporzionale con recupero nazionale dei resti e la cancellazione della base regionale per l’elezione del Senato, offrirebbe solo una parziale riduzione del danno, ma non certo la ricucitura dello strappo costituzionale. Insomma il Pd si è infilato con sciagurata baldanza in un vicolo cieco da cui è impossibile uscire con piccole furbizie.
Il fatale errore iniziale è stato quello di scambiare una norma di rango costituzionale, quale è la modifica della composizione del parlamento, pilastro della democrazia rappresentativa, con una legge ordinaria, come è la legge elettorale, per quanto importante sia, con l’umiliante aggravante di non ottenere neppure quest’ultima nei tempi della celebrazione del referendum. La scelta di «tenerla bassa», di sfilarsi alla chetichella dalla contesa referendaria è una tattica artificiosa e debolissima. È vero che in parte è già in atto. Si fatica a incontrare comitati per il Sì non solo nei territori ma persino nei confronti televisivi, il che può creare grattacapi all’Agcom, come è già capitato all’inizio – subito abortito per effetto delle misure anticovid – della campagna referendaria quando il voto era stato fissato per il 29 marzo. Nelle feste estive del Pd pare che il Sì non troverà rappresentanza ufficiale.
MA SOPRATTUTTO cresce nel paese la scelta per il No. Si sono pronunciati in questo senso grandi organizzazioni di massa, quali l’Anpi e l’Arci, intellettuali influenti, da Mario Tronti ad Alberto Asor Rosa, a Massimo Cacciari, nonché esponenti del Pd e dirigenti storici del Pci come Emanuele Macaluso. Il segretario generale, Michele Schiavone, del Consiglio generale degli italiani all’estero non ha risparmiato critiche all’election day e al taglio dei parlamentari. Tra i 5stelle i dissensi si moltiplicano. È entrato nella contesa il mondo cattolico, da padre Bartolomeo Sorge che ha parlato di «Costituzione mutilata» a Bernard Scholz presidente del Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione.
Come è successo positivamente in passato, lo scontro referendario rivivifica la società civile e le sue istituzioni. Ed è il No a farlo. Poiché in un referendum costituzionale il quorum non esiste, l’astensione non ha alcun significato. Se si riconosce che il taglio del parlamento è un pericolo per la democrazia c’è un’unica possibilità: votare No. La partita è aperta, anzi apertissima.
Commenta (0 Commenti)Parla il segretario generale della Cgil: "Non vogliamo lo scontro, è il momento di coesione e responsabilità, ma anche da parte delle imprese". Se si perde il treno degli aiuti della Ue "non ci sarà un secondo tempo e tra qualche anno saremo fuori dall’Europa e in declino industriale".
MILANO — «Tutti i licenziamenti vanno bloccati fino a fine anno e i contratti nazionali devono essere rinnovati. Altrimenti per Cgil, Cisl e Uil sarà sciopero generale». La partita del lavoro, malgrado le aperture del governo, è a un bivio decisivo e Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, lancia un appello all’unità: «Non vogliamo lo scontro, è il momento di coesione e responsabilità, anche delle imprese». Perché se si perde il treno degli aiuti della Ue «non ci sarà un secondo tempo e tra qualche anno saremo fuori dall’Europa e in declino industriale».
Perché è necessario prorogare lo stop ai licenziamenti?
«Dovrebbe essere chiaro a tutti che subire un licenziamento per una persona è un dramma. Il lavoro, anche nei ruoli più umili ed essenziali, ci ha fatto uscire dalla fase più drammatica della pandemia. Non puoi ringraziare le persone che hanno fatto il loro dovere in questo periodo dicendo che ora possono anche essere licenziate. È un linguaggio sbagliato. Oggi è il momento della coesione. La precarietà introdotta negli ultimi vent’anni - mettendo in discussione conquiste e diritti - non ha prodotto posti né migliorato la produttività delle aziende».
Il governo sembra disposto a venirvi incontro e a cercare un compromesso. Che margini di manovra ci sono?
«La nostra posizione è il blocco dei licenziamenti per tutti fino a fine dicembre, con due possibili eccezioni: le imprese che cessano per messa in liquidazione e se si fanno accordi sindacali fondati sull’adesione volontaria. Altrimenti c’è la mobilitazione. Non ci convincono nemmeno gli incentivi ad aziende che non usano più cassa integrazione. Sono soldi pubblici usati male. Se non fai cassa vuol dire che hai lavoro».
Confindustria dice che il blocco dei licenziamenti è costato il posto a 500 mila precari…
«La pandemia ha svelato le diseguaglianze create in vent’anni di precarietà e di finanziarizzazione dell’economia. Non possiamo sottovalutare il rischio di frattura sociale. Le migliaia di persone che hanno perso il posto sono un motivo in più per chiudere queste ferite anche perché purtroppo non siamo fuori dall’emergenza. Noi non chiediamo solo di bloccare i licenziamenti. Vogliamo discutere subito un nuovo modello di sviluppo con ammortizzatori sociali universali per eliminare la precarietà. E sarebbe bene che tutto il mondo che rappresenta le imprese facesse la sua parte. Chiedere lo stop ai licenziamenti e non firmare i contratti di sanità privata e settore alimentare, come fa Confindustria, mi sembra un modo di pensare regressivo, sbagliato e pericoloso sul piano sociale».
È possibile lavorare con la Confindustria di Bonomi?
«Cominci a firmare i contratti nazionali. Non facendolo si assume la responsabilità di aprire uno scontro sociale di cui noi non sentiamo il bisogno. Abbiamo chiesto al governo di defiscalizzare gli aumenti salariali dei contratti nazionali e Confindustria potrebbe chiederlo con noi e lo stesso potrebbe fare spingendo per una legislazione che dia validità generale ai contratti nazionali».
Qual è il modello di sviluppo che proponete?
«Un nuovo modello deve mettere al centro il lavoro e partire dagli investimenti su sanità pubblica, istruzione – con obbligo scolastico portato a 18 anni – deve prevedere asili nido dove non ci sono e formazione permanente. C’è da gestire la transizione ambientale e produttiva con addio a carbone e fonti fossili, gestire la manutenzione del territorio e trasformare cultura, turismo e storia dell’Italia in elementi di crescita. Vanno fatti ripartire investimenti fisici su infrastrutture, Mezzogiorno e ferrovie ma dobbiamo anche dotarci di una rete digitale che non abbiamo. E serve un ruolo pubblico che indirizzi investimenti e indichi le priorità a partire dalla mobilità sostenibile».
Nostalgia dello Stato padrone?
«È uno dei temi nuovi che abbiamo di fronte. Lo Stato non deve sostituire le imprese, ma deve dare indirizzo su settori e attività strategiche. Noi abbiamo realtà pubbliche come ad esempio Eni, Enel e Leonardo. La nostra proposta è istituire un’agenzia per lo sviluppo (coinvolgendo magari Cdp) che faccia da regista al sistema. Lavoratrici e lavoratori devono poter partecipare a queste scelte strategiche, discutendo su cosa, come e perché si produce e con quale sostenibilità sociale ed ambientale».
Arriveranno i soldi dell’Unione europea. Come andranno usati?
«Sono un’occasione che non dobbiamo perdere. E devono servire a combattere la precarietà. Non mi fa paura dire che non sarà nulla come prima. Anzi, deve essere tutto diverso e non capisco perché Confindustria e soprattutto il suo presidente vogliano difendere un vecchio modello fondato su precarietà e poca innovazione tecnologica».
La politica italiana sarà all’altezza del Recovery Fund?
«Penso che non abbiamo alternative. Siamo tutti in una situazione complessa e inedita. È il momento del coraggio e della radicalità. E soprattutto il momento della responsabilità. E la centralità del lavoro deve essere un vincolo sociale anche per il mercato».
Serve un governo delle grandi intese per questa sfida titanica?
«Non penso alle grandi intese. Sono abituato a fare i conti con il governo che il Parlamento vota».
I ponti di Genova. La pandemia ha messo allo scoperto ciò che già sapevamo e inutilmente rimuovevamo: lo sviluppo e il progresso non possono continuare ad essere contro la Natura, contro le sue leggi
Sembra, dunque, che una grande opera come il ponte san Giorgio, che ha sostituito quello Morandi, si possa costruire in tempi da record anche in Italia. Quello del crollo del Morandi rimane, e rimarrà, uno shock vivo per anni nella città di Genova. Poteva essere evitato? Quel ponte, simbolo di molte cose: progresso, tecnologia, architettura, modernità, era una macchina semplice.
Una costruzione superba funzionante secondo una geometria elementare basata su elementi semplici, tiranti e puntoni, quasi un manuale da tecnica delle costruzioni, come si insegna nelle scuole di ingegneria e architettura, ma pur sempre una magnifica macchina con la fragilità caratteristica di ogni macchina. Sarebbe bastato un tirante troppo “carico” per farla collassare come un castello di carta.
E questo ci riporta fatalmente a riflettere sulle grandi opere, come il Mose, come il Tav. Macchine semplici che non hanno flessibilità (o nessuna ridondanza): se una parte della macchina cede, cede l’intera struttura. A differenza dell’organismo umano dove un qualsiasi stato di stress di un organo fa scattare un adattamento compensativo da parte di altre parti dell’organismo. È già successo, nel caso del Mose, che l’intero ingranaggio di sollevamento delle paratie mobili finisca col diventare la variabile “al limite”, non compensata, nello sforzo, da altre variabile del sistema, o, peggio, queste ultime esercitano una pressione ulteriore su quella stessa variabile “al limite” portandola al collasso. Nella teoria dei sistemi si dice che in questo caso la perdita di flessibilità della variabile originaria sotto stress, si diffonde per tutto il sistema provocando il collasso.
Richiedeva, il ponte Morandi, un’assistenza, una cura e un’attenzione particolare adeguata alla sua semplicità: verificare costantemente lo stato dei tiranti e dei puntoni, verificare la consistenza, dopo molti anni, della struttura in cemento armato. E sappiamo oggi che questo non è stato fatto dalla Società Autostrade proposta alla sorveglianza della delicata struttura. Così al primo stato di stress di una sua parte, tutto l’intero sistema ha finito per collassare.
Con la sua opera simbolo questa città ha scoperto d’un colpo tutta la sua fragile ed effimera modernità avviarsi verso il declino: l’Ansaldo, il Porto, i carrugi, l’insensata urbanizzazione di un’area sollecitata costantemente da dissesti idrogeologici, la mancanza di una visione del futuro. Poteva essere l’occasione per una riflessione severa sul passato e presente, ma la spettacolarità dell’evento di demolizione e ricostruzione ha rimosso tutti i mali della gestione e dell’amministrazione della città.
La “riparazione” del danno con la costruzione del nuovo ponte è diventata urgentissima e necessaria, una “ferita”, così è stato descritto il crollo del Morandi, che andava immediatamente suturata per non lasciare trapelare ciò che era dietro il sipario: una città già agonizzante dopo che il declino industrialista aveva già seminato macerie senza che una nuova visione post-industriale si affermasse.
Ora si celebra in pompa magna il “modello Genova” (per inciso come si celebrò il “modello Roma” ai tempi di Veltroni) espressione pragmatica di un’efficienza governativa da esportare ad altre situazioni in stato d’emergenza. Ma la modernità è uno stato di perenne conflitto tra la prometeica attività dell’uomo tesa a modificare la natura e quest’ultima le cui regole e leggi diventano sempre più ortogonali a quelle economiche. La pandemia ha messo allo scoperto ciò che già sapevamo e inutilmente rimuovevamo: lo sviluppo e il progresso non possono continuare ad essere contro la Natura, contro le sue leggi.
Occorre invertire rapidamente i presupposti di questo sviluppo nel solo modo che ci è concesso ovvero quello di imboccare da subito la riconversione ecologica di questo modello, in primo luogo arrestare i processi di cementificazione del suolo e la costruzione di Grandi Opere, utili solo per aumentare i profitti di grandi imprese.
Siamo tutti felici che oggi Genova possa tornare alla “normalità” con il nuovo ponte San Giorgio, che la città “spezzata” possa ricongiungersi (a questo servono i ponti), ma sarebbe semplicistico pensare che questa fiera città possa, con quest’opera, guardare al futuro con ottimismo, considerando il crollo del ponte come un semplice incidente nel percorso della modernità.
Se così fosse la tragedia sarebbe risultata inutile e meno che mai ci avrebbe insegnato qualcosa.
L'anniversario e la nuova inchiesta. Pier Paolo Pasolini scriveva: «Io so..Io so i nomi dei responsabili... della strage di Milano del 12 dicembre 1969, della strage di Brescia...ma non ho le prove». Stavolta le prove decisive sono sotto i nostri occhi
Come ricorda la Camera del Lavoro di Bologna è indimenticabile l’immagine del presidente Sandro Pertini, accorso nel 1980 tra le macerie della strage del 2 agosto, che piangendo disse: «Siamo di fronte all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia». Dopo 40 anni l’immagine del presidente Mattarella che incontra i parenti delle vittime della strage della stazione di Bologna rappresenta in modo paradigmatico l’anomalia democratica vissuta dall’Italia nel suo primo trentennio di vita democratica.
In nessun paese d’Europa, infatti, si è mai vista una scena simile: le associazione dei familiari delle vittime di una «strage di Stato» che incontrano il capo dello Stato anch’egli con un fratello ucciso dal terrorismo. La strage di Bologna segna un punto di congiunzione, un architrave di vicende storiche centrali per la vita del Paese. Essa connette, attraverso personaggi di spicco del terrorismo neofascista, degli apparati di forza dello Stato e delle organizzazioni eversive come la P2, la prima fase della strategia della tensione, nell’arco di tempo che va dal 12 dicembre 1969 fino all’attentato sul treno Italicus del 4 agosto 1974 alla delicata e drammatica transizione dell’Italia nella fase post-Guerra Fredda.
Nell’ultima inchiesta della magistratura, infatti, i rinvii a giudizio coinvolgono, tra gli altri, da un lato Paolo Bellini, ex fascista di Avanguardia Nazionale, reo confesso dell’assassinio del militante di Lotta Continua Alceste Campanile e poi implicato nelle cupe vicende delle stragi di mafia del 1992-93 che lo videro a contatto con il boss Antonino Gioè in Sicilia; dall’altro Domenico Catracchia, amministratore degli immobili di proprietà dei servizi segreti di via Gradoli a Roma dove nel 1978 (in pieno sequestro Moro) le Brigate Rosse avevano costituito la loro base operativa ed in cui poi nel 1981 trovarono alloggio esponenti dei gruppi fascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, condannati per la strage alla stazione del 2 agosto 1980. Le accuse per coloro che vengono considerati i mandanti della strage di Bologna, se confermate, chiamano in causa gli apparati dello Stato e soprattutto quella classe dirigente di governo dell’epoca.
Che con esponenti come Federico Umberto D’Amato, Licio Gelli, Pietro Musumeci, Francesco Pazienza e Giuseppe Santovito ha «fatto politica» per decenni in chiave anticomunista e contro la Costituzione della Repubblica.
La condanna del gennaio 2020 dell’esponente dei Nar Gilberto Cavallini, aggiungendosi a quelle definitive di Fioravanti, Mambro e Ciavardini, conferma non solo la sostanza della pista nera ma apre scenari finalmente importanti sulle responsabilità di più alto livello istituzionale che permisero ai neofascisti di colpire di nuovo il cuore democratico del Paese. È questo il punto centrale, oltre che alla individuazione degli esecutori materiali, in cui si concentra il nodo storico-politico intorno alla strage di quarant’anni fa che si colloca in quel peculiare contesto italiano descritto senza mezzi termini dall’ex capo di Stato maggiore dell’esercito, il generale Mario Arpino che di fronte ad una commissione parlamentare dichiarò: «Piaccia o non piaccia, ancora negli anni Ottanta, per noi un terzo del Parlamento italiano era il nemico».
Il progressivo approfondirsi di ricerca storica e indagini giudiziarie segnano in questo modo il venir meno di ogni ipotesi «alternativa» come la cosiddetta «pista internazionale» alimentata in primis da articoli di quel Mario Tedeschi, direttore de Il Borghese e poi senatore del Msi, che oggi viene indicato dalla Procura come uno dei mandanti-organizzatori dell’attentato e poi dal depistaggio tentato nel 1981 (la «operazione terrore sui treni») per il quale sono stati condannati in via definitiva Gelli, Musumeci, Belmonte e Pazienza.
Una falsa pista mirante ad attribuire le paternità della strage ad un «anello debole» che sia l’ex leader libico Gheddafi, ormai morto, o gruppi palestinesi, oggi politicamente isolati – dimenticando chissà perché di chiamarla casomai «pista del Mossad», visto il fatto, come ha ben raccontato Eric Salerno, che in quegli anni l’Italia diventa la «base operativa» di quel servizio segreto.
Comunque una pista estera funzionale ad una campagna volta ad affrancare dalle responsabilità di quella stagione, grazie ad una mescolanza di omissioni, oblii pubblici e convenienze politiche, non solo gli esecutori materiali ma soprattutto quei settori niente affatto marginali della società italiana delle classi dirigenti, militari e proprietarie responsabili del tradimento della Repubblica. Pier Paolo Pasolini scriveva: «Io so..Io so i nomi dei responsabili… della strage di Milano del 12 dicembre 1969, della strage di Brescia…ma non ho le prove». Stavolta le prove decisive sono sotto i nostri occhi.
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Proroga legge urbanistica, sit-in degli ambientalisti: "Stop consumo di suolo" | VIDEO
Comitati e associazioni ambientaliste bolognesi si sono dati appuntamento stamane davanti ai palazzi della Regione Emilia Romagna, dove hanno approntato un sit-in di protesta contro il voto per la proroga della legge urbanistica.
Ai microfoni di BolognatToday, Igor Taruffi: "La Regione - spiega il consigliere regionale (E-R Coraggiosa) - si è dotata di una legge urbanistica che nelle intenzioni avrebbe dovuto ridurre il consumo di suolo e favorire rigenerazioni anziché nuove costruzioni, cosa che non ci pare sia avvenuta. Anzi alcuni dei comuni che avevano obbligo di adottare nuovi strumenti urbanistici non lo hanno fatto. Questa legge va cambiata".
"Ai proclami della Regione e del Comune di Bologna, devono seguire decisioni. Non c'è più tempo, non bastano le iniziative simboliche - Incalza così Detjon Begaj, consigliere di quartiere coalizione civica - siamo qui per mostrare la nostra contrarietà sulla proroga della legge, crediamo che non faccia altro che aumentare la cementificazione del nostro terr.itorio. Ricordo che siamo la quinta regione in Italia per consumo di suolo, è ora di fermarci".
Commenta (0 Commenti)Spesso noi ambientalisti ci siamo lamentati del fatto che il dibattito pubblico nel nostro Paese fosse straordinariamente arretrato rispetto a ciò che avviene negli altri paesi europei sul tema della difesa dell’ambiente, della green economy e dell’economia circolare, ma anche sugli intrecci tra giustizia ambientale e sociale.
Una lamentela che a volte, legittimamente, può essere apparsa persino stucchevole, quasi una lagna; come alibi per giustificare il mancato peso politico di una forza ecologista autonoma. Ma la lettura dei commenti post accordo sul Recovery Fund si incaricano di darci una qualche ragione aggiuntiva. È abbastanza impressionante la totale assenza di riflessione sul fatto che in quell’accordo le famose «condizionalità» esistono, sono connesse alla destinazione di quei fondi che andranno usati, scrive la Commissione, conferma il Consiglio e su questo il parlamento Europeo non potrà che rafforzare, su due assi: Green New Deal e rivoluzione digitale.
Nient’altro. Inoltre questi mitici eurobond che ci dovrebbero salvare dalla tempesta economica e sociale post-covid verrebbero finanziati da un’imposizione fiscale europea, ancora un po’ nebulosa sul digitale, ma che già indica nella plastic tax e nel tassare le emissioni di carbonio le fonti di approvvigionamento. Su questo, sui media italiani neanche una riga. Anzi abbiamo dovuto leggere qualcuno che reclamava la cancellazione totale (dopo il già assurdo rinvio) della piccola plastic tax italiana. I nostri amici Verdi europei non sono soddisfatti perché giustamente criticano l’accordo in quanto troppo debole sui diritti (in Ungheria e in Polonia) e perché ha cancellato o ridotto importanti programmi, primo tra tutti il Just transition che scende da trenta a dieci miliardi.
Questa insoddisfazione vista da qui appare un po’ lunare dal momento che lo sforzo che ci attende in patria per far capire che se pensiamo di utilizzare quei business as usual stavolta oltre a fare i soliti danni ci prendono a sportellate anche a Bruxelles.
C’è davvero uno scarto spaventoso tra quella che è la direzione in cui va l’economia europea alla ricerca di forme di sviluppo più sostenibili sul piano dell’impatto ambientale e del rispetto dei territori, ma anche più responsabili socialmente e in grado di offrire lavoro più stabile e proiettato nel futuro e la stanca retorica italiana – quasi unanime ahimè – su necessità infrastrutture (leggasi strade e autostrade), incentivazione di ogni forma di consumo a prescindere dai suoi impatti sull’uso delle risorse, e magari alle idee (sempre in agguato) di nuovi condoni.
La strada dovrebbe essere invece quella opposta e la questione della plastica ne è un buon esempio. Questo paese è stato all’avanguardia sul tema, prima mettendo al bando i sacchetti, poi le microplastiche nei prodotti cosmetici da risciacquo e i cotton fioc. Con il divieto sui sacchetti abbiamo raggiunto già adesso gli obiettivi che l’Europa si pone solo ora. Un miracolo? No. Una virtuosa alleanza tra cittadini disposti a cambiare stili di vita e un’industria innovativa in grado di realizzare materiale biodegradabile e compostabile di origine vegetale rinnovabile capace di sostituire quello inquinante.
Abbiamo l’occasione di procedere spediti su questa strada costruendo le condizione per un’effettiva riconversione ecologica di un pezzo importante della nostra industria, innanzitutto non rinunciando all’introduzione di una plastic tax che scoraggi l’abuso di quel materiale, incoraggi il riuso, il riciclo e l’utilizzo di materiali alternativi, e nel frattempo, nel recepimento della direttiva europea che riduce e in alcuni casi vieta i manufatti in plastica monouso (a partire dalle stoviglie) cogliere nuovamente l’occasione per favorire la riconversione industriale e l’utilizzo di quei materiali compostabili che possono tranquillamente proseguire il loro ciclo di vita nella raccolta differenziata dell’umido.
La nostra speranza e la battaglia che vogliamo condurre è che il Governo e il parlamento imbocchino la strada giusta, ma è necessario riuscire contemporaneamente a far affermare questi concetti nel dibattito pubblico.
* deputata LeU
** presidente Legambiente
*** vicepresidente Kyoto Club