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Stato innovatore. Oltre al necessario impeto verso la neutralità della rete e la sua autonomia rispetto al vecchio monopolista, l’occupazione stia in testa alle priorità. La banda ultralarga scambiata con la vita di lavoratrici e lavoratori sarebbe una sconfitta

E così Habemus retem. Sembra, ormai, ai titoli di coda l’annosa vicenda della rete di telecomunicazioni italiana. Sembrava che il negoziato tra l’ex monopolista Tim e Open Fiber (la combinazione tra Enel e Cassa depositi e prestiti) fosse parzialmente arenato. Tuttavia, lo stato di necessità ha preso il sopravvento, giustamente. Non si poteva continuare a rimanere terz’ultimi in Europa quanto a irradiazione della banda larga e ultralarga. Ora che – con le varie stagioni della pandemia – il diritto alla connessione è stato finalmente riconosciuto come un bene comune e primario, evitare lo spezzatino a pois di questi anni diventa un imperativo categorico.

I fatti. Nel prossimo consiglio di amministrazione Tim varerà la scelta decisiva. Vale a dire, la destinazione dell’apposita società (ora 58% Tim, 4,5% Fastweb, 37,5% il fondo statunitense Kkr, ma in arrivo Tiscali e soprattutto Cassa depositi e prestiti) ad occuparsi del collegamento tra i cosiddetti armadi di strada e le abitazioni. Con la fibra e via via con tecnologie plurali, tra cui spicca il tanto evocato 5G (sarà sicuro per la salute?), in modo da recuperare i ritardi con quello che si chiama il “doppio salto”: dall’arretratezza ai piani più alti. Va ricordato che uno dei motivi della maggiore duttilità di Open Fiber sta, probabilmente, nello scarso successo ottenuto nelle zone deboli del paese, per la cui copertura aveva pure vinto diversi bandi pubblici.

Se la combinazione societaria assegnerà una formale (risicata, ma la simbologia conta) maggioranza al gruppo diretto da Luigi Gubitosi e se il ruolo pubblico verrà assolto dalla Cassa depositi e prestiti (che ormai ricorda i fasti dell’Iri) la partita a scacchi si conclude. Rimane un dubbio: i francesi di Vivendi tacciono. E Berlusconi, che sogna da anni di attraccare là dentro? E l’Europa?

Malgrado le evocazioni retoriche del mercato, per siglare l’intesa si è tenuta una riunione tra il governo e la maggioranza in grande stile. “Quelli che…”, avrebbe compendiato Enzo Jannacci. Già, perché solo ora si appalesa una soluzione bocciata, per motivi ottusi figli del peggior liberismo, diverse volte?

Nel frattempo, la privatizzazione di Telecom ha fatto danni enormi e una struttura che fu avanguardia nel villaggio globale è stata spolpata. Il governo presieduto da Matteo Renzi pensò bene di cambiare cavallo, optando per Enel. Altra stagione di rinvii e perdita di tempo. Quest’ultimo è una variante cruciale in un sistema nel quale le tecniche corrono alla velocità dell’intelligenza artificiale.

Bene, allora, che sia l’occasione per una vera politica dell’innovazione, sorretta da un’idea forte e non passatista di “Stato innovatore”. Non solo. Forse qualcuno si è ricordato di ascoltare le organizzazioni sindacali, giustamente inquiete. In tutto il parlare di rete e di governance, si è perso di vista il punto di vista del lavoro. Stiamo parlando di circa 100.000 persone, tra gli interni e l’indotto. Oltre al necessario impeto verso la neutralità della rete e la sua autonomia rispetto al vecchio monopolista, l’occupazione stia in testa alle priorità. La banda ultralarga scambiata con la vita di lavoratrici e lavoratori sarebbe una sconfitta.

Non il fiore all’occhiello che oggi si vuole agitare. Se la prospettiva è, invece, un serio sviluppo, allora si comincia a ragionare. Se, poi, la rete diviene l’alternativa alle attuali piattaforme degli Over The Top, c’è da brindare. Comunque, un pezzetto di socialismo, in una rete sola.

 

 

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Ecologia. Il limite di chi, a sinistra pone l’accento sull’accesso e sulla distribuzione della ricchezza, e di chi, tra i verdi, non vede le logiche dell’accumulazione capitalista.

 

C’è chi pensa – vedi il genetista evoluzionista Svante Pääbo, in Elizabet Kolbert, La sesta estinzione, Beat edizioni, 2014 – che ci sia un “gene faustiano” annidato nella mente umana che spinge alcuni individui (maschi – ci dicono le paleoantropologhe femministe) a sviluppare comportamenti aggressivi, predatori, distruttivi.

Nel corso della storia, si sono creati clan, potentati, élite dominanti che hanno plasmato le relazioni sociali. Come giudicare diversamente, se non folle, ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi, a conclusione di un lungo ciclo di civilizzazione, addirittura un’era geologica che molti scienziati vorrebbero ridefinire con il nome Antropocene? (Vedi per tutti, di Jan Zalasiewicz, The Anthropocene as a Geological Time Unit, Cambridge University Press, 2019).

Il sistema energetico fossile modifica la composizione chimica dell’atmosfera, genera cambiamenti climatici catastrofici e acidifica gli oceani; il sistema alimentare carnivoro distrugge le foreste primarie, desertifica i mari, elimina la biodiversità, innesca pandemie; il sistema di produzione industriale di beni di largo consumo programmato sull’obsolescenza genera spreco di materie e di risorse naturali non rinnovabili; il modello di insediamento urbano ammassa in megalopoli invivibili metà della popolazione mondiale; il paradigma tecno-scientifico è mirato alla ricerca del superamento dei limiti naturali (i nove Planetary Boundaries individuati dal gruppo di ecologi di Johan Rockström) e alla progressiva artificializzazione dei cicli vitali; il sistema dell’informazione manipola e sorveglia; l’assetto geopolitico è basato sulla potenza imperiale e la violenza militare.

Ovviamente, non c’è nulla di geneticamente predeterminato e di inevitabile nella suicida “devastazione dello spazio vitale” (Konrad Lorenz, 1972) intrapresa dall’homo – autodefinitosi – sapiens. Altri itinerari e altri esiti sarebbero stati possibili in passato e potrebbero esserlo ancora in futuro. Ed è questo il preciso campo dell’intervento politico, ovvero delle scelte collettive. La politica, invece, “muore” – come affermano da tempo molti politologi – se non riesce a confrontarsi con le questioni fondamentali dell’esistenza umana, cioè con la dimensione culturale e valoriale eco-etica.

In assenza di ciò, è inevitabile che a evaporare per prima sia la politica di sinistra, di coloro, cioè, che pur dichiarandosi non contenti dello stato delle cose presenti rimangono inanimi nell’indicare alternative di sistema, ovvero colgono solo elementi parziali e separati delle conseguenze delle politiche di potenza e di dominio.

Tipico in molta parte della cultura del movimento operaio è porre l’accento esclusivamente sulle disparità e sulle ingiustizie patite dai ceti popolari nell’accesso e nella distribuzione della ricchezza economica. Così come noti sono i limiti dell’ambientalismo superficiale (facilmente sussunto dal mercato) che non coglie le logiche distruttive intrinseche dell’accumulazione capitalista. Più pericolose di tutte sono le derive identitarie di qualsiasi tipo, pur giustificate dai centralismi nazionalisti e dalla globalizzazione omologante.

La cultura politica di sinistra dovrebbe saper individuare e riportare ad unità la lotta ad ogni forma di dominio e di dominazione, facendo perno su un’idea di individuo completo, consapevole e responsabile dei diritti propri, degli altri e di ogni forma di vita. Per dirla a slogan: non basta la coscienza di classe, servono anche la coscienza di genere, di generazione, di luogo, di specie. Secondo il principio (ecologico) della interconnessione e interdipendenza di tutti i fenomeni naturali e sociali, della sostenibilità ambientale e della giustizia sociale.

La Commissione internazionale di stratigrafia della Unione internazionale di scienze geologiche è ancora incerta su quando fissare l’inizio dell’Antropocene: qual é il point-break, il momento in cui l’homo sapiens comincia ad agire come forza geologica e a lasciare tracce rilevanti e indelebili sul sistema Terra? Con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, 10.000 ani fa; con l’affermazione del pensiero occidentale antro e andro-centrico della tradizione ebraica e della filosofia greca ellenistica; 500 anni fa con la prima globalizzazione, la colonizzazione europea delle Americhe e la nascita del capitalismo (come suggerisce Jason Moore, Antropocene o Capitaloce? Ombrecorte, 2017); con la rivoluzione industriale nell’Ottocento; il 16 luglio 1945 con la detonazione del primo ordigno nucleare e il foll-out di radionuclei; nel maggio di quest’anno, con il picco record di 417 parti per milione di anidride carbonica (come 23 milioni di anno fa); il prossimo fine secolo con il raggiungimento del tetto di esseri umani (10 e più miliardi) e il contemporaneo limite più basso di biodiversità delle specie viventi presenti (“Sesta estinzione di massa”, la quinta interessò i dinosauri, 65 milioni di anni fa)?

Interrogativi con cui sarebbe interessante che la politica riuscisse a confrontarsi per non rimanere insignificante e per poter misurare le coerenze anche delle piccole e quotidiane scelte. Ad esempio, come spendere i denari del Recovery Fund, se vogliamo davvero servano a risanare il pianeta e a sostenere la vita delle Next Generation.

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Politica . I media italiani guardano con interesse ai successi elettorali delle formazioni ambientaliste in Europa, ma si perde spesso di vista l'esistenza dei Verdi in Italia, e la necessità di rafforzare questo fronte

 

Ad ogni successo elettorale dei Verdi al di là delle Alpi si alza un coro che si chiede perché in Italia i Verdi non siano forti come in altri Paesi europei, e si invoca la creazione di un “nuovo” partito verde. Con esiti, nelle analisi delle “ricette vincenti europee”, a volte paradossali: il 19 luglio 2020 l’Espresso pubblicava un servizio intitolato “Verdi sì, ma moderati”, mentre la Repubblica il medesimo giorno titolava “La sfida dei Khmer verdi. Così i sindaci ecologisti cambiano la Francia”.

E giù interviste a personaggi di varie esperienze che hanno in comune una cosa sola: disprezzare i Verdi italiani, ai quali pure si devono, solo per citare alcuni provvedimenti, le prime due leggi a sostegno delle fonti di energia rinnovabili e del risparmio energetico, la prima legge nazionale sull’inquinamento elettromagnetico, la legge sul commercio delle armi, la legge istitutiva dei Parchi, la prima legge per promuovere la mobilità ciclistica, la legge sull’amianto, la legge per la promozione delle mense scolastiche biologiche.

E con l’ex-ministro all’Ambiente Edo Ronchi, ai Verdi si devono le prime politiche efficaci sulla gestione dei rifiuti. Ma è ad esponenti più o meno transfughi da esperienze varie che si vorrebbe consegnare il futuro dei Verdi in Italia. Perché, a sentir loro, i Verdi in Europa sono ben diversi dai Verdi italiani “brutti, sporchi, cattivi”, troppo estremisti o troppo accomodanti a seconda del punto di vista di chi interviene.

Anche i più disattenti oggi sanno che il neo-sindaco Verde di Lione si è pronunciato contro l’Alta Velocità Torino-Lione e che il neo-sindaco Verde di Bordeaux ha fatto la sua campagna elettorale anche contro il 5G. Battaglie contro ampliamenti di aeroporti (a Francoforte in primis) e perfino contro mega-stazioni ferroviarie (a Stoccarda) sono pane quotidiano dei Verdi europei.

Che nascono, come i Verdi italiani, da battaglie locali per la tutela dell’ambiente e su temi ecopacifisti, e che si sono formati e si formano con una lunga presenza nelle istituzioni locali. Questo ha permesso ai Verdi francesi di avere uno straordinario successo alle recenti elezioni amministrative, pur essendo fuori dal Parlamento nazionale e nonostante la scissione di Cohn-Bendit migrato verso Macron. Radicamento a livello locale ed una visione olistica del tema ecologico unito alla questione sociale: è l’identikit dei Verdi europei.

Pensare globalmente, agire localmente: è la parola d’ordine dei movimenti Verdi in tutto il mondo. Per questo riteniamo illusorio credere che una nuova forza verde possa nascere dall’alto mettendo insieme pezzi di ceto politico e personaggi mediatici. Quando si invoca la formazione di un partito rosso-verde perché i Verdi da soli non basterebbero e servirebbe aggiungere la questione sociale, si dimentica che i Verdi in Europa e in Italia da sempre uniscono questione sociale e questione ecologica. E che i Verdi in Italia ci sono, unica forza politica che fa parte del partito transnazionale dei Verdi europei, lo European Green Party.

La vera questione oggi su cui converrebbe concentrare le energie è semmai la transizione ecologica: necessaria per la sopravvivenza della specie umana, non sarà una passeggiata. Cambiare stili di vita ed abitudini inveterate su cui si è costruito un sistema economico e dei consumi trova l’opposizione non solo dei poteri economici e della finanza che prosperano su questo modello, ma anche di tanti che vogliono continuare a vivere come se non esistessero il riscaldamento globale e la questione ecologica.

Purtroppo il populismo incalzante ha avvelenato i pozzi della buona politica. In questo contesto politico ci si stupisce che, al di là dei loro innegabili limiti di cui siamo consapevoli, i Verdi italiani facciano fatica ad emergere, tanto più in un panorama mediatico che li ha banditi per definizione? Una formazione politica che nasce per prendersi cura del bene comune e delle future generazioni risulta molto controcorrente nell’attuale situazione italiana.

Questo non significa che non possa crescere, affondando le sue radici in tante vertenze locali dove risulta più agevole fare capire con i fatti e proposte specifiche la visione di una società sostenibile in armonia con la natura e con meno disuguaglianze sociali. Per questo servono solide alleanze sociali con il mondo delle scienze, della cultura, del lavoro, dell’economia verde e circolare, del volontariato e dell’associazionismo, delle comunità locali «Laudato si’» ispirate all’enciclica di Papa Francesco.

Il progetto Europa Verde – lanciato dai Verdi italiani con l’ambizione e il proposito di aprirsi a chi desidera costruire una forza politica Verde in Italia più solida, inclusiva e all’altezza delle sorelle europee – abbia cura di sé e pazienza. E punti a piantare le proprie radici nel terreno della buona politica. Per non ridursi ad essere un effimero tentativo di riciclare il déjà-vu.

* Capogruppo Europa Verde e Vice Presidente dell’Assemblea Legislativa dell’Emilia-Romagna, co-portavoce Federazione dei Verdi dell’Emila Romagna

* * Co-portavoce Federazione dei Verdi dell’Emilia-Romagna, ex deputato Verde

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Intervista. Due anni dopo il crollo del ponte Morandi, torniamo a parlarne con lo scrittore «genovese per scelta». «Saliamoci su, ma per andare dove? Ce l’ho col Pd, con un sistema di persone che non ha interesse a governare ma è solo assorbito dalla folle e miserabile gestione del potere. O anche solo dell’illusione del potere»

 

Lo avevamo sentito due anni fa, Maurizio Maggiani, quando ancora aveva negli occhi le immagini terribili del ponte Morandi che crollava.

Lo scrittore pluripremiato e giornalista, che cittadino di Genova lo è per scelta, e non banalmente solo per nascita, non si è mai allontanato da quel vuoto che ora, nel secondo anniversario della tragedia, è tornato pieno. Di cemento e di acciaio, di vita e di movimento, ma è un pieno solo parziale.

Due anni fa ci diceva: «Genova è morta». Ora sono già tornate le code sul nuovo viadotto, dunque è viva?

Beh sa, anche gli zombie si muovono. Però no, certo che non è morta. Ora c’è il ponte, non c’è più questo iato, questa tragedia di frattura… Ma adesso che ci siamo, su questo ponte così bello, dove andiamo?

Parla come se la tragedia fosse ancora in atto: due anni non sono bastati per elaborare il lutto?

Ovviamente no. Dico una cosa un po’ retorica: la morte non si riscatta con niente se non con la vita. Certo, il ponte è questo: è nuova vita, direi addirittura giovinezza, se questa parola non me l’avessero rubata. A me, che sono un anarco-mazziniano, questo ponte così aggraziato, così svelto e senza le goffaggini degli adulti che la sanno lunga (il vostro Revelli parla addirittura di «architettura poetica») mi fa pensare proprio alla Giovine Italia.

Ha seguito la costruzione del San Giorgio?

Sì, e ogni tanto mi arrivavano immagini dei lavori. Quella più bella, gioiosa e vitale che ho ricevuto non riguarda l’ultimo strallo montato a conclusione dell’opera, ma è un grande cassone di camion colmo di acqua, trasformato in piscina, con dentro una dozzina di operai che facevano il bagno, sotto il ponte, per rinfrescarsi un po’. Perché il ponte non è una semplice costruzione, è un’edificazione. Non un mattone sopra l’altro ma un’idea. E in effetti questo ponte, col suo cantiere dove sono passati quattro mila lavoratori, è un mondo che edifica. Ma adesso che c’è questa opera poetica, così luminosa perché è in una posizione studiata per fargli prendere più luce possibile, adesso: qual è la nostra luce? La nostra, quella dei genovesi, liguri, italiani,europei… Quale luce portiamo noi quando saliamo su quel viadotto? Questa è una domanda vera perché il ponte è l’unica cosa reale, materiale, di cui si possono vantare tutti: sindaco, regione, governo. E infatti erano tutti lì ad inaugurarlo, una roba sfiancante! E non so come quel ponte abbia potuto reggere tutte quelle autorità in una botta sola. Ora lì su non c’è più Renzo Piano, non ci sono più le autorità, ci siamo noi. Ora questa città nobile, antica, superba – che vuol dire signorile e sovrana – sale sul ponte per andare dove? Non credo che Genova lo sappia ancora.

C’è ancora smarrimento?

Sì, è attonita, per un verso. E per un altro è sempre una città che pochi anni fa ha votato all’insegna dell’indifferenza. Che è peggio della paura.

Nessun cambiamento in questo senso?

Non lo so ancora. Bisogna tornarci spesso sotto quel ponte…

Maurizio Maggiani

C’è ancora quella creuza che dal Polcevera sale su fino ai Forti, sul crinale della collina, che il vecchio ponte rispettava girandogli attorno?
Certo che c’è ancora, e su quella salita c’è un signore che, come molti altri a Genova, lascia la porta di casa sempre aperta. Lui ha visto crollare il ponte, le macchine venire giù, e poi di lì in poi ha visto i monconi abbattuti e pian piano il nuovo viadotto ricostruito. È una persona singolare, bella, e quando fa il bucato stende i panni davanti al ponte nuovo di zecca. Genova è anche questo, un posto dove si può vivere dentro ma allo stesso tempo lontani dalla contemporaneità.

Del Morandi, diceva due anni fa, i genovesi si fidavano. Lei stesso aveva fatto amicizia con quel ponte. E ora vi fiderete ancora?

I genovesi e io tra loro si fidavano di quel ponte Morandi perché si fidavano di loro stessi. Io non so se adesso sono già tornati a fidarsi abbastanza di se stessi da potersi affidare di nuovo. La città con molta fatica sta ricucendosi, ma le cose sotto quel ponte sono cambiate tanto: lì c’era un vecchio quartiere post operaio, vero. Adesso non c’è più. Via Certosa è una teoria senza fine di serrande abbassate. E non solo per il Covid. Bisognerà rialzare le saracinesche. Ma non solo fisicamente: bisognerà rialzare lo sguardo. E le pretese. Cosa pretendiamo noi dal futuro?

Questo ponte è fatto anche, per usare le parole del suo ultimo romanzo «L’amore», che risale appunto a due anni fa, della «delicata materia di ciò che è stato»?

Ma certo, quel ponte è delicato, lo è proprio fisicamente. Non lo dico solo io, lo dice il suo progettista: è un ponte che chiede permesso per attraversare la valle. Questo è uno dei tratti più belli del carattere genovese: quello di andare per il mondo chiedendo “permesso”. È la ragione per cui Genova non è mai stata truce, neanche quando era potente. Per poter essere così bisogna essere sovrani, nel vero senso della parola: responsabili di sé, coscienti per sé e per il mondo. Non padroni, che è tutt’altra parola. E in questi giorni mi sto chiedendo se possiamo ancora dirci superbi, sovrani. Quindi signorili nella nostra responsabilità.

Se lo chiede adesso perché tra un mese si vota anche per il rinnovo della regione Liguria? Un po’ di paura?

Chiaro, belin figgeaux... Mi fanno paura queste elezioni perché ci siamo arrivati nel modo peggiore possibile. Parlo da elettore progressista, e questa volta non possiamo dare la colpa all’estremismo infantile, a quelli che l’altra volta fecero perdere di fatto la coalizione di centrosinistra. Io ce l’ho col Pd, con un sistema di persone e di interessi così stretto, così esasperato, che non ha alcun interesse a governare ma è totalmente assorbito solo dalla folle e miserabile gestione del potere. O anche solo dall’illusione del potere. Ma oggi chi sono gli eredi di questa città che si è liberata da sola, grazie a quattro giovanotti, civili, che hanno ottenuto dalle forze armate tedesche l’atto di resa in mostra sul ponte di via XX Settembre?

Due anni fa disse che il Morandi rappresentava «il sol dell’avvenire». Quando ha visto comparire l’arcobaleno durante l’inaugurazione, cosa ha pensato?

Mi sono commosso perché io ci credo veramente, che quel ponte possa aver baciato la città con la sua fortuna. Però ripeto: saliamoci e andiamo da qualche parte. Vede, qualche tempo fa parlavo con un politico importante, che è delle mie parti, e gli chiedevo se discutesse mai con persone che abbiano anche solo un’idea di azione, non dico per la prossima generazione ma per la prossima legislazione. E lui mi ha risposto no, nessuno. Tanti progetti anche belli, tipo Disney World, ma nessuno – mi diceva – che prendesse in considerazione minimamente ciò che conta: il conflitto. Un progetto che agisca davvero nella realtà deve creare un ricco, profondo conflitto. È un po’ marxiana come idea ma mi hanno appena detto che anche a Wall Street studiano molto Il Capitale di Marx. Per fare business.

Al referendum cosa voterà?
Voto «No». Abbiamo discusso, abbiamo fatto le riunioni in famiglia, quell’errore lì non lo faremo.

Sperando in un nuovo sol dell’avvenire?
C’è un vecchio detto cubano: sconfitta dopo sconfitta fino alla vittoria finale.

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La critica al Conte 2 non è solo per le tante indecisioni, per le contraddizioni del suo operato, per le falle nei decreti e il navigare a vista. Ma per il vuoto sul piano ideale ed etico

 

«Hanno cura del futuro quelli cui tocca averne cura?». Così Bertolt Brecht, nel suo adattamento dell’Antigone di Sofocle tradotta da Holderlin (Archivio Zeta, Antigone, in questi giorni a Villa Aldini a Bologna). Anche noi oggi, ancora in lutto per i nostri morti insepolti, come Antigone ci troviamo una volta di più a dover scegliere a quale legge obbedire, se accogliere il naufrago per umana pietas o rigettarlo a mare per paura del contagio.

EPPURE, dannazione, non è quella la scelta che la politica politicante ci getta addosso. «La sinistra non fa più le passerelle sulle navi delle Ong», afferma sbeffeggiante l’ex ministro dell’Interno, «perché hanno paura del contagio…». E la sinistra si accomoda, con la coda tra le gambe, senza ribattere. Non basta dire che il numero di migranti che sbarca è ben lungi dai grandi numeri del 2016-17. Non basta ribadire che, dall’inizio della pandemia, «solo 603 migranti sono risultati positivi (su una media di 85mila immigrati presenti nei centri di accoglienza)», come ha comunicato la sotto-segretaria alla Sanità due giorni fa. E non basta neppure, evidentemente, ricordare che il tasso di positività al Covid-19 tra i migranti è dell’1,5%, cioè più basso del resto dei residenti in Italia (dall’inizio della pandemia, lo 0,2% dei 250 mila contagiati ufficialmente registrati). Secondo l’indagine sierologica condotta da Iss e Istat, poi, sarebbero 1 milione e 482 mila le persone risultate positive, pari al 2,5% della popolazione.

NEL MESE DI LUGLIO sono sbarcati 3,3 migranti positivi al giorno, contro una media nazionale di 199 casi giornalieri. Se il ministro Boccia afferma che «il 75% dei contagiati sono italiani», facendo concludere alla leader della destra che «il 25%, allora, sono immigrati», non fa un buon servizio all’informazione. Il fatto è che in queste settimane sono molti gli italiani che contraggono il virus all’estero, non che «lo portano gli immigrati».

TUTTO QUESTO non basta e fa subito gridare al lupo al nostro ministro degli Esteri, dichiarando (al Corsera) che «la questione degli sbarchi, unita al rischio sanitario con la pandemia è un tema di sicurezza nazionale». Ma se è ragionevole testare tutti i migranti che arrivano sul territorio nazionale, da paesi vari in cui il virus è più o meno diffuso, perché allora non testare quelli che arrivano da Stati Uniti, Brasile o Spagna? Le cronache e le esperienze personali di molti di noi ci raccontano che dagli aeroporti si transita come sempre, mostrando il passaporto e passando la dogana «senza nulla da dichiarare». Se è vero che da noi Black Lives Matter non fa presa, bisognerebbe ribadire, però, che all lives matter. È profondamente ingiusto, cioè razzista, voler sottoporre a tampone obbligatorio i migranti – e magari anche badanti e muratori rumeni – ma non i bei turisti (bianchi) provenienti dall’Europa e dalle Americhe.

LA PANDEMIA si sta diffondendo nel mondo a ritmi crescenti: ci sono voluti 6 mesi perché si arrivasse a 10 milioni di contagiati e solo 6 settimane perché quel numero raddoppiasse. Anche in Italia i casi sono lievemente in aumento. Se si auspica che il nostro sistema abbia imparato qualcosa, l’opacità dei dati diffusi non lascia ben sperare – nessuna informazione sul numero di focolai, nessun dato disponibile per calcolare il famoso tasso R con zero (la trasparenza non è tra le virtù del nostro apparato). Per inciso, l’indagine sierologica rileva che ben il 66,2% dei sieropositivi ha avuto almeno un sintomo – 981 mila persone, ben più dei 250 mila ufficialmente registrati!

MA QUESTO è un governo, una classe politica, che ha già dato prove di insipienza, e noi continuiamo a sperare che ci si possa aspettare di meglio. E non si intende qui criticare il governo per le sue molte indecisioni, le contraddizioni del suo operato, le falle nei decreti, il navigare a vista. Ma per il vuoto sul piano ideale ed etico. Lavoratori «necessari» esposti al contagio. Migranti chini sui campi, sfruttati ma lasciati nel limbo della loro condizione «irregolare», con buona pace della ministra di competenza. Noi, come gli altri europei, nulla facciamo per i «dimenticati» – così definiti in un documento di denuncia della Confederazione Europea dei Sindacati – ovvero i più esposti sia al contagio che alla crisi economica provocata dal contagio: i migranti.

E LA SINISTRA? Pd e LeU, invece di incalzare il loro ingombrante partner di governo, maggioritario in Parlamento, sui terreni in cui potrebbero smascherarne le vere intenzioni – l’ambiente, l’equità, la transizione green – si lasciano distrarre sui diversivi più vari, dalla riduzione del numero dei parlamentari al «rimpatrio di tutti i migranti sbarcati» fino addirittura al blocco degli aiuti ai paesi in via di sviluppo (Tunisia). Si fantastica di «grandi opere» e ci si dimentica delle mille piccole opere che servirebbero per mettere in sicurezza il paese. Si continua a incentivare il consumo di suolo. E non si coglie l’occasione che ci si offre di obbligare tutti a ridurre l’emissione di gas di carbonio.

CERTO, ANCHE nel governo c’è chi grida e mette in cantiere idee. Come il buon Peppe Provenzano, che tiene ritta la barra sul Sud e il dramma che rappresenta: «Il problema è l’emigrazione, non l’immigrazione», dice. E in tanti parlano – di investimenti pubblici, di istruzione, di infrastrutture digitali – e non vengono ascoltati. Riusciremo a lavorare come il tarlo che rode gli architravi del governo, perché si prenda cura del futuro? Dobbiamo, non possiamo tacere «per non disturbare il manovratore», per paura che questo venga mandato a casa per incompetenza. E ha ragione Antigone: «Il silenzio assoluto è grave come il lungo e vano gridar.

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Abruzzo e non solo. Il progressivo stravolgimento delle regole è stata una costante della politica urbanistica delle Regioni, di qualsiasi colore e a qualsiasi latitudine

Quando si legge di «misure urgenti in materia urbanistica» (Eleonora Martini, il manifesto del 5 agosto), non si può non essere preoccupati. La maggioranza di centrodestra del Consiglio Regionale dell’Abruzzo vorrebbe varare una legge che, nell’intenzione dei promotori, dovrebbe aiutare il settore dell’edilizia penalizzato dal lockdown. I termini «misure urgenti» e «semplificazione», declinati in materia urbanistica, evocano la cementificazione di altre migliaia di ettari di suolo. La cosa è molto grave e siamo certi che altre Regioni vorranno seguire l’esempio dell’Abruzzo.

Questa vicenda mi permette di tornare su un tema su cui un tempo esisteva una netta distinzione tra destra e sinistra, che negli ultimi decenni si è andata sempre più sfumando fino a scomparire quasi del tutto. Il progressivo stravolgimento delle regole è stata una costante della politica urbanistica delle Regioni, di qualsiasi colore e a qualsiasi latitudine. I sedicenti «governatori» non si sono mai stancati di rivendicare piena autonomia (nel senso di pieni poteri) in campo urbanistico. Sappiamo, purtroppo, che le competenze regionali sono state esercitate nel peggiore dei modi e il territorio e il paesaggio portano i segni della devastazione e dello scempio. Abbiamo assistito, negli anni, ad una deregulation urbanistica sempre più spinta che, tra i suoi effetti, ha avuto uno spostamento di ricchezza verso la rendita che non ha precedenti nella storia d’Italia.

Ora, invece di porsi il problema di ripensare radicalmente la politica che ha sostanzialmente affidato alla proprietà fondiaria e immobiliare il ruolo di protagonista principale della trasformazione urbana, si continua a considerare il territorio un mero strumento di transazioni economiche e occasione di affari. Quale trasparenza garantisce la modalità del «negoziato» tra ente pubblico e proprietà, che esclude cittadini, associazioni e sindacati? L’urbanistica è diventata terreno di scambio e di nuovi rapporti tra politica, rendita e speculazione edilizia.

Ci sono eccezioni, encomiabili tentativi di resistenza in molti comuni, ma la realtà è sotto gli occhi di tutti e le esperienze negative accomunano purtroppo, in modo trasversale, destra e sinistra. È un fatto che i «diritti di proprietà» abbiano avuto il sopravvento sull’interesse generale avvalendosi di una serie di abili accorgimenti: i sistemi perequativi e compensativi, assai generosi verso i proprietari immobiliari; i diritti edificatori, da tutelare anche nel caso di aree private vincolate a uso pubblico; la pratica del silenzio-assenso; le continue forzature per escludere la tutela del paesaggio dagli impegni di pianificazione ordinaria urbana e del territorio.

Invece di privilegiare i processi di rigenerazione urbana, di risanamento delle periferie, di ristrutturazione e adeguamento del patrimonio immobiliare esistente, tutto il territorio è diventato urbanizzabile e negoziabile, con buona pace della pianificazione.

Il parlamento italiano, inoltre, non ha ancora provveduto ad adeguare la normativa agli indirizzi dell’Ue in materia di pianificazione e ambiente. I principali documenti Ue, infatti, considerano il consumo di suolo per espansione urbana come la principale minaccia alla conservazione delle risorse ambientali. Mentre gli altri Paesi hanno approvato norme stringenti, che considerano i terreni rurali e non urbanizzati un bene da tutelare al di là degli assetti proprietari, in Italia, al contrario, assistiamo a ripetuti tentativi di legiferare per garantire innanzitutto il diritto edificatorio e gli abusi edilizi. Altro che svolta green!

Ecco perché, in vista della nuova tornata elettorale, che riguarderà importanti regioni e grandi città, questo tema non può essere eluso. Programmi e alleanze di sinistra devono incardinarsi sulla salvaguardia del territorio ancora libero dal cemento. Vi sono, come ci ricordava Edoardo Salzano, attività e funzioni di primaria importanza legate al territorio rurale – il riciclo e la ricostituzione delle risorse di base (aria, acqua, suolo), il mantenimento degli ecosistemi, delle biodiversità, del paesaggio, il turismo e le occasioni di svago all’aria aperta – che presuppongono il mantenimento di una «divisione del lavoro» tra città e campagna e il potenziamento di infrastrutture ambientali che sostengano, direttamente o indirettamente, la vita delle comunità e una parte significativa delle attività economiche, sociali e culturali.

Sono nel giusto, dunque, e vanno sostenuti i movimenti ecologisti e le associazioni, come Wwf e Italia Nostra, che si battono contro gli sciagurati propositi di «semplificazione urbanistica» del centro-destra che governa l’Abruzzo. È tempo di contrastare con vigore scelte e decisioni che certamente favoriscono interessi particolari, ma collidono con l’interesse più generale delle comunità locali.

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