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In piazza. Oggi in 16 città italiane si manifesta contro il piano di annessione israeliano e per l'autodeterminazione del popolo palestinese. Nel silenzio complice dell'Europa, è tempo che la questione torni a coinvolgere chiunque creda nei diritti

Manifestazione in Palestina

 

Oggi in molte città d’Italia, associazioni, organizzazioni, parlamentari, persone, saranno nelle piazze per dire no all’annessione coloniale israeliana, annunciata per il primo luglio dal governo Netanyahu, del 30 percento del territorio occupato palestinese, compresa la Valle del Giordano che fino agli anni ’80 era considerata il «cestino del pane» dell’economia palestinese.

Un no all’occupazione militare, all’apartheid, al razzismo praticato da Israele. E sì al riconoscimento dello Stato di Palestina, ad applicare la legalità internazionale e il rispetto dei diritti umani violati ogni giorno da Israele con la complicità della Comunità Internazionale che lascia Israele impunita per le continue violazioni e l’oppressione del popolo palestinese, mentre dovrebbe imporre sanzioni, non vendere armi, sospendere l’accordo di associazione Unione europea-Israele. Ma questo si fa solo con la Russia o con l’Iran. Il solito due pesi e due misure.

Le manifestazioni di oggi, promosse dalla Comunità Palestinese in Italia, con AssoPacePalestina che si è impegnata in tutte le città nelle quali è presente, ha visto l’adesione di centinaia di associazioni e organizzazioni. Ne cito solo alcune: Rete della pace e del disarmo, Cgil e Fiom nazionali, Arci, Fondazione Basso , sindaci come Orlando e De Magistris, parlamentari di Leu, del Pd, del M5s, partiti della Sinistra Italiana, artisti e intellettuali, per tutti Moni Ovadia, il già presidente del Consiglio Massimo D’Alema e molti altri.

Da lungo tempo la questione palestinese è stata messa all’angolo. Si dice che ci sono troppi problemi nell’area mediorientale, Siria, Libia, Iraq, le fallite primavere arabe, senza assumersi le responsabilità per aver fatto le guerre (con i profughi che ci dicono: «Siamo profughi delle vostre guerre») e per non aver risolto la questione della libertà e l’autodeterminazione del popolo palestinese, che dal 1948 ha vissuto la Nakba, la pulizia etnica della Palestina, l’oppressione giordana ed egiziana, dal 1967 il tallone di ferro dell’occupazione militare israeliana. E fino a oggi, oltre alla confisca di terra e risorse acquifere, con la costruzione di colonie sperimenta una «deportazione lenta».

Il silenzio dei media è assordante, tranne alcune coraggiose voci di giornalisti, ma non è solo il provincialismo dei media italiani, è connivenza e complicità, è buttare via l’etica del giornalismo e subire i ricatti di una hasbara (propaganda) israeliana che accusa di antisemitismo ogni voce che si leva non certamente contro gli ebrei, ma contro una politica israeliana che oltraggia l’ebraismo con il nazionalismo messianico che in questi ultimi anni si è affermato in Israele. Molte sono le voci contro l’annessione, in Israele e nel mondo ebraico, dal mondo politico, da giuristi e studiosi.

L’unità e l’adesione di tante forze politiche e sociali alle iniziative di oggi, contro l’annunciata annessione dei territori che calpesta ogni diritto internazionale – così come ha fatto Trump con il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme e il progetto «Affare del Secolo», insieme all’inazione dell’Europa e del nostro governo – è un inizio affinché la solidarietà con la Palestina esca dai ghetti dei gruppi che hanno fatto della libertà per la Palestina il loro essere e diventi di nuovo patrimonio di tutti i movimenti che hanno al loro centro la difesa dei diritti per tutti e tutte. E che sia un monito per le forze politiche che si dicono democratiche affinché tornino all’impegno per il rispetto del diritto internazionale.

*Presidente AssoPacePalestina

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Elezioni. Si valuta l'abbinamento della consultazione sul taglio dei parlamentari con il secondo turno delle regionali (Toscana) e delle amministrative nei comuni più grandi, il 4 ottobre. Ma i 5 Stelle non ci stanno e insistono per tenere tutto assieme il 20 settembre. Anche se questo significa chiudere gli istituti scolastici solo pochi giorni dopo la riapertura

Il problema è il referendum. Chi ci ha messo la testa al governo e nella maggioranza non lo nasconde, parlandone in privato. Del resto è evidente che se si dovessero chiudere le scuole solo per le elezioni regionali e comunali il 20 settembre, e non in tutta Italia per garantire a 46 milioni di elettori seggi vicino casa e in ambienti neutrali, il problema dello stop all’anno scolastico sarebbe assai contenuto. Limitato a cinque regioni e qualche comune. Al momento non è così, perché solo dopo aver spinto per gli election days il 20 e 21 settembre, il governo si è fermato a ragionare sull’anno scolastico che dovrebbe ripartire il 14 settembre per fermarsi appena qualche giorno dopo. E per quasi una settimana, visto che le aule dove ospitare i seggi vanno prima allestite e poi sanificate.

Nel caso in cui si votasse solo per le regionali e le amministrative, il problema dello stop obbligatorio alle lezioni riguarderebbe solo cinque regioni e 18 milioni di elettori, oltre a 1.100 comuni circa e 6,5 milioni di elettori che però in parte coincidono con quelli delle regionali. L’accoppiata il 20 settembre con il referendum confermativo, che ovviamente coinvolge tutti i cittadini residenti in Italia e anche 4,5 milioni di residenti all’estero, trasforma un problema affrontabile in un mezzo disastro.

Un’ipotesi alternativa c’è ed è quella di tenere il referendum confermativo in una data diversa, più avanti nell’autunno. Lo stesso decreto che consente gli election days per la prima volta allargati al referendum (sarà approvato a tappe forzate definitivamente dal senato giovedì) fissa la data ultima per la consultazione sulla riforma costituzionale al 22 novembre. È il governo che deve scegliere e ufficiosamente ha già scelto di tenere tutto assieme perché i 5 Stelle così vogliono. Contano infatti su una vittoria facile dei sì per nascondere un risultato prevedibilmente per loro non buono alle altre elezioni. Ma è una richiesta che apre molti problemi a cascata. Innanzitutto lo strappo con il comitato promotore del referendum, quello dei settanta senatori che hanno chiesto il referendum contro il taglio dei parlamentari e che si faranno sentire nel passaggio del decreto nell’aula di palazzo Madama. Conte ha ricevuto da loro ben due memorie e si era impegnato a riconsiderare la questione. Nel caso non lo facesse, come potere dello stato il comitato potrebbe presentare ricordo direttamente alla Corte costituzionale. C’è un precedente, sfavorevole al comitato, ma la Consulta ha comunque detto che il governo, anche se libero nella scelta delle date per il referendum, non può «determinare un’effettiva menomazione dell’esercizio del diritto di voto». Contro l’accorpamento saranno presentati dall’avvocato Besostri, con il sostegno del Comitato per il no, ricorsi in almeno undici tribunali ordinari a partire da lunedì prossimo a Milano. Anche l’Anpi ieri è intervenuta contro l’accorpamento referendum costituzionale- elezioni.

Il piano B potrebbe vedere l’accoppiamento del referendum non con il primo ma con il secondo turno delle elezioni, previsto dalla legge elettorale per la Toscana e in 146 comuni superiori ai 15mila abitanti. Si voterebbe allora in tutta Italia non prima del 4 ottobre, con le scuole già aperte da almeno tre settimane. Ci sarebbe più tempo per allestire sedi alternative: al Viminale immaginano che sarà difficile rinunciare a tutte le scuole ma che si potrà comunque approfittare di molte altre sedi alternative (sale comunali, edifici requisiti alla criminalità, caserme dismesse) per alleggerire la pressione sulle aule scolastiche. Chi ha sicuramente bisogno di più tempo sono i consolati all’estero, in molte nazioni ancora chiusi, che durante l’estate dovranno organizzare il voto di 2,5 milioni di italiani in Europa e 1,5 in sud America.
I 5 Stelle però al momento non intendono rinunciare al 20 settembre per il «loro» referendum. Anche se non sarà possibile evitare la chiusura delle scuole. Infatti il capo politico pro tempore Vito Crimi ieri ha detto di condividere l’ipotesi di allestire i seggi fuori dalle aule scolastiche. Ma, ha aggiunto, «non può essere un obbligo perché metterebbe i sindaci in una situazione difficile»

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Il leader Cgil: agli Stati generali con le nostre proposte. "Possibile scaglionare le ferie, l’importante è evitare la cassa integrazione"

 Operaia al lavoro in tempi di Covid (ImagoE)
Operaia al lavoro in tempi di Covid (ImagoE)

Roma, 12 giugno 2020 - La parola che più usa? "Investimenti, investimenti, investimenti". Lo spirito con cui va agli Stati generali? "Ascolteremo le proposte del governo, ma ci andremo con una nostra agenda". Come vede il ricorso al Mes? "Tutte le risorse europee devono essere utilizzate, comprese quelle del Mes. È un’occasione storica". Come ritiene si possa ridurre l’orario di lavoro a parità di salario per fare più occupazione? "In parte recuperando efficienza e produttività con un uso più intenso degli impianti e una maggiore apertura degli uffici, in parte con la detassazione degli aumenti contrattuali". Reputa utile tenere le fabbriche aperte anche ad agosto? "Si può discutere, anche di scaglionare le ferie. Ma oggi è prioritario che anche dopo agosto ci sia il lavoro e non la cassa integrazione".

È un Maurizio Landini che mette al bando la polemica (anche con il neo-presidente di Confindustria, Carlo Bonomi) e punta al concreto delle cose da fare e dei risultati possibili. "Il messaggio – avvisa il leader della Cgil – è quello di investire nella mediazione sociale, nella contrattazione collettiva. Non è certo il momento di aprire fasi conflittuali, ma di investire sul lavoro e sulla qualità del lavoro".

Che cosa vi aspettate dal governo durante l’appuntamento di Villa Pamphilij?
"Aspettiamo ancora la convocazione, per la verità. Di certo, talune proposte le abbiamo già avanzate. Per l’immediato abbiamo chiesto vengano pagate tutte le casse integrazioni e che si prolunghi fino a fine anno il blocco dei licenziamenti, con l’allungamento del ricorso agli ammortizzatori sociali. Chiediamo anche che si avviino i lavori necessari perché tutte le scuole da settembre possano riaprire".

E oltre l’emergenza, quale è la vostra agenda?
"Serve una riforma fiscale che abbia al centro la riduzione dei carichi per lavoratori e pensionati e una lotta vera all’evasione e al lavoro nero. Servono investimenti pubblici e anche privati in infrastrutture materiali e immateriali, nella sanità, nell’istruzione, nella formazione, in un nuovo modello ambientale. Occorre una revisione del sistema degli ammortizzatori sociali e una rimodulazione degli orari. Si deve andare verso un nuovo intervento pubblico a sostegno di nuove strategie di impresa, a partire dalle vertenze aperte, Alitalia, settore acciaio, Tim, Open Fiber, banda larga e per un nuovo piano della mobilità".

Con quali risorse? Quelle europee, compreso il Mes?
"Il presupposto delle nostre proposte è che tutte le risorse europee a disposizione debbano essere utilizzate perché un’occasione di questo genere non ci ricapita. Facciamo riferimento al Sure per nuovi ammortizzatori universali. Facciamo riferimento anche al Mes perché è sotto gli occhi di tutti che abbiamo bisogno di investire parecchio nella sanità pubblica dopo i tagli di questi anni. E se possiamo chiedere prestiti senza nessuna condizionalità, non si capirebbe perché non farlo".

Propone una rimodulazione dell’orario di lavoro a parità di salario. Come evitare una ricaduta sui costi delle imprese?
"Quello che è successo in queste settimane, anche con l’esplosione del lavoro da casa, pone una questione rilevantissima di rimodulazione e di gestione del tempo di lavoro, anche rispetto alla formazione. Sono consapevole che parlare di riduzione dell’orario significa parlare di un maggiore utilizzo degli impianti (anche 6 giorni su 6) o di più ampie aperture degli uffici: la maggiore efficienza e produttività possono essere utilizzate allo scopo e per ampliare l’occupazione e ridurre così gli orari di lavoro individuali".

Anche la detassazione può essere uno strumento utile?
"Anche. Quest’anno scadono tutti i rinnovi dei contratti nazionali per 10 milioni di persone. Chiediamo al governo di detassare gli aumenti contrattuali. Per aumentare i consumi e far costare meno alle imprese questa operazione".

Gli investimenti richiedono anche regole semplificate: ma la burocrazia italiana rema contro. Come se ne esce?
"Siamo disponibili a semplificare per ridurre i tempi, ma nei cantieri vanno rispettate le regole contrattuali e della sicurezza, non ci può essere nessuna liberalizzazione dei sub-appalti e vanno tenute ferme le barriere anti-corruzione e anti infiltrazioni mafiose".

Un’ultima nota: come giudica il nuovo statalismo in economia?
"Anche un nuovo intervento pubblico nell’economia è un argomento di cui discutere perché senza non si va da nessuna parte. Eni, Enel, Poste, Fincantieri, Leonardo, ad esempio, sono aziende con rilevante presenza pubblica che vanno bene. Il problema non è pubblico o privato. A prescindere. E’ un modo vecchio di guardare le cose e un po’ ideologico. Il problema è quello che si fa".

 

 
 
 
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Tra le priorità degli “Stati generali” promossi dal presidente del consiglio c’è “Un paese completamente digitale”. Ed è giusto che sia. Finalmente. Come si è visto nei giorni della pandemia, più di un terzo (ma sicuramente è una percentuale in difetto) delle studentesse e degli studenti non era in grado di partecipare all’e-learning.

Talvolta per la mancanza in casa di un computer, spesso per debolezza o assenza della connessione. Insomma, il re è nudo. Al di là della quantità mostruosa di convegni e dibattiti, nonché dei vari digital champions, la cruda realtà dei dati è tremenda: la copertura del territorio con la banda larga è sì e no del sessanta per cento, mentre con quella ultralarga (vale a dire la base per l’età crossmediale) si aggira attorno al trenta. Per capirci, siamo in fondo nella classifica europea quanto a infrastrutture, per indossare la maglia nera per alfabetizzazione.

La prova provata è emersa ancora una volta nel tempo del virus. La pubblica amministrazione è immersa nel mondo analogico e vive l’innovazione tecnologica come un surplus aggiuntivo rispetto all’egemonia cartacea. Settori che non si parlano, protocolli complessi, siti e portali affidati alla cura di società private diverse.

Modesto ricorso al free software (assai meno costoso, tra l’altro) e massivo utilizzo degli algoritmi degli Over The Top, da Apple e Google in poi. Il black out del sito dell’Inps è un ammonimento. Per di più, le zone di migliore connessione sono addensate nelle aree metropolitane e pure questo concorre allo spopolamento delle campagne e dei piccoli borghi. Una frattura sociale prepotente.

Esattamente il contrario di ciò che si auguravano i profeti della rete, convinti che si stesse inverando il villaggio globale immaginato dal visionario per eccellenza, McLuhan, agli albori della “rivoluzione”. Banda larga per tutti, fu questa la parola d’ordine democratica, contrastata dall’ubriacatura liberista capace di influire persino sul linguaggio.

Le molte parti del territorio non coperte dalla banda larga e ultralarga sono, infatti, denominate “a fallimento di mercato”. Si torna a parlare di rete unica, superando il frastagliamento attuale, nonché la competizione tra Tim e Open Fiber, quest’ultima lanciata nel periodo del governo Renzi per fare probabilmente di Enel il riferimento principale, scalzando definitivamente una Telecom già indebolita e spolpata dalla peggiore tra le privatizzazioni italiane. Curiosamente (ma non troppo) in entrambi i gruppi è decisivo il ruolo di Cassa Depositi e Prestiti.

È una situazione insensata e foriera di effetti collaterali numerosi sul digital divide. Sembra che si voglia, invece, riprendere il filo del discorso avviato vent’anni fa e poi spezzato dall’approccio dominante. Evviva. Se gli Stati generali rimettono la questione sulla giusta carreggiata, “ripubblicizzando” la rete, c’è da festeggiare. Benché, da ultimo, il piano curato da Vittorio Colao non prometta niente di buono. Però, la necessità rende virtuosi. E si sarà pure -speriamo- valutato che il virus ha creato punti di non ritorno. Tra questi, l’uso di Internet non fa eccezione. Una rete unica e pubblica, aperta a servizi plurali e non discriminatori, è essenziale per un futuro non segnato da nuove e peggiori diseguaglianze.

Che una quota delle agognate risorse europee serva a colmare il divario tecnologico, sempre legato a quello economico e culturale. Ovviamente, lo sviluppo della rete va coniugato ad un’intensa e capillare opera di formazione, in cui la Rai potrebbe giocare un ruolo essenziale, come fece all’epoca con il celebrato maestro Manzi.

Un’obiezione seria rispetto alle proposte che paiono emergere. Si collega meccanicamente la banda larga e ultralarga al “5G”. Sarà. Tuttavia, la quantità di antenne indispensabili con la nuova generazione “hertziana” è tale da aumentare sensibilmente l’inquinamento elettromagnetico.

Non a caso si richiede l’abbattimento dei limiti in vigore, che neppure gli esecutivi berlusconiani riuscirono a stravolgere. Non è lecito rimuovere il problema, perché gli utenti sono anche esseri viventi e nessuna innovazione è accettabile se comporta morti e feriti lungo la strada. La banda larga si può e si deve fare, ma con rigorosa attenzione alla tutela della salute.

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Economia. I comuni dotati di un certo grado di autonomia impositiva possono diventare i protagonisti di un più ravvicinato controllo democratico sulla distribuzione della ricchezza e soprattutto sulla rendita fondiaria, che non è volatile come il capitale finanziario, ma è radicata e visibile nel territorio

 

Si attribuisce al neoliberismo, alle politiche ispirate da questa dottrina, quanto meno in ambito democratico, la responsabilità dell’indebolimento del sistema sanitario pubblico, impreparato a reggere la pandemia da coronavirus. E naturalmente c’è del vero.

Ma non bisogna cadere nell’errore di immaginare che a ispirare la condotta dei governi e il comportamento degli imprenditori e del ceto politico, siano oggi le formule ideologiche della Mont Pelerin Society, o i testi di Friedrik von Hayek e di Milton Friedman.

Nella concreta realtà storica il neoliberismo non è più una teoria economica e non soltanto La nuova ragione del mondo, come hanno mostrato nel loro libro Dardot e Laval, ma un rapporto di forza materiale tra capitale e lavoro.

Negli ultimi 30 anni si è creata una drammatica asimmetria di potere tra il mondo dell’impresa e quello dei lavoratori, che grava sul l’intero universo delle relazioni umane, non solo nei luoghi di lavoro ma in tutta la società. La capacità del capitale di sfuggire al conflitto tramite la sua mobilità mondiale, con la pratica delle delocalizzazioni, le nuove forme dispersive di organizzazione del lavoro, la perdita da parte dei lavoratori su scala generale, della loro rappresentanza politica, l’indebolimento di quella sindacale costituiscono la base di quello che potremmo chiamare il neoliberismo materiale.

Tale grave squilibrio tra le classi, che è alla base delle presenti disuguaglianze, fornisce al capitale una libertà selvaggia di sfruttamento del lavoro, che sta distruggendo la nostra civiltà favorendo la rapina incontrollata della natura.

Ma non possiamo dimenticare quel che è accaduto allo Stato contemporaneo, che per alcuni decenni della seconda metà del ‘900 aveva permesso margini di distribuzione della ricchezza mai sperimentati prima. Non è un caso che negli Usa, dove è nata la nuova centralità perequatrice del potere pubblico, grazie a Roosevelt, il neoliberismo si afferma con lo smantellamento del sistema fiscale progressivo.

Appena diventato presidente, Reagan mette in atto quello che è stato definito «il più grande taglio di tasse di tasse della storia americana» (M.Prasard, The politcs of free markets, The University Chicago Press,2006) mettendo fine a un sistema progressivo per aliquote che colpiva pesantemente le grandi fortune. Da allora gli stati hanno favorito scientemente le disuguaglianze e alimentato, specie da noi, l’accumulo del debito pubblico.

Oggi in Italia si torna a parlare di riforma del sistema fiscale. E’ necessario avere piena coscienza della sua portata strategica. L’applicazione di un sistema fiscale progressivo, insieme agli altri dispositivi di controllo dell’evasione, costituirebbe davvero una riforma strutturale, che ancor più di una patrimoniale una tantum, potrebbe redistribuire più equamente la ricchezza in forma sistemica e duratura. Si rimetterebbe in piedi un pilastro fondamentale del welfare.

Non dimentichiamo il modo in cui si è venuta strutturando la ricchezza in Italia negli ultimi decenni, con i crescenti profitti delle medie e grandi imprese, come ha ricordato su questo giornale Pier Luigi Ciocca, ex dirigente di primo piano della Banca d’Italia.

Ma non è solo l’accumulazione di profitti ad essere risultata esente da prelievi adeguati, anche la rendita ha celebrato i suoi trionfi, premiata spesso da scelte scellerate di governo, come quella di Renzi, di abolire indiscriminatamente l’Imu sulla prima casa. Oggi abbiamo di fronte un panorama sociale in cui domina la ricchezza privata a fronte della miseria pubblica, sicché si fanno mancare risorse per la scuola e la ricerca, la sanità e l’Università e si protegge la ricchezza solidificata, inerte, talora predatoria, in seconde e terze case, ville, patrimoni immobiliari delle grandi società.

Un fronte di lotta di vasta portata si apre dunque nei prossimi mesi. Purtroppo non credo che nel governo, né nel Pd (la sinistra radicale non sappiamo dove sia finita) sia presente una piena coscienza della portata della posta. Domina tra le forze politiche il virus elettoralistico di inseguire mille diverse sirene al giorno, sicché le poche forze orientate a un obiettivo disperdono le forze senza grande costrutto. E’ il sindacato, la Cgil, che non a caso insiste sul tema fisco, il solo soggetto capace di organizzare il conflitto necessario senza condizionamenti.

Non dimentichiamolo, gli ottusi poteri dominanti non molleranno un centimetro della loro roba. Ma in questa lotta io credo che il sindacato dovrebbe trovare un potente alleato nei comuni italiani, ai quali va restituita una nuova dignità e centralità. Non solo per bilanciare il potere delle Regioni, la cui istituzione è stato il più grave errore istituzionale della storia d’Italia, perché ha creato una nuova élite di trafficanti della politica e ha aperto una falla disastrosa nei conti pubblici.

I comuni dotati di un certo grado di autonomia impositiva possono diventare i protagonisti di un più ravvicinato controllo democratico sulla distribuzione della ricchezza e soprattutto sulla rendita fondiaria, che non è volatile come il capitale finanziario, ma è radicata e visibile nel territorio.

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Passaggio senza cambiare una virgola, quello del dl scuola alla camera. Il decreto, approvato la scorsa settimana con un voto di fiducia dal senato, dopo quaranta giorni di trattativa nella maggioranza sulla questione dei concorsi dei prof (poi cancellati), deve essere convertito in legge entro il 7 giugno pena la decadenza. Ieri mattina è iniziato il dibattito, ma già nel pomeriggio il governo ha posto anche in questo ramo la questione di fiducia. Verrà votata oggi pomeriggio. Dopo le complicate le operazioni delle urne nell’era Covid inizierà l’esame degli ordini del giorno e andranno avanti fino a venerdì, quando dovrebbe arrivare il voto finale sul decreto. Le opposizioni promettono di usare fino all’ultima possibilità per ritardare il voto. Radicale il dissenso sul decreto e sulla conduzione della preparazione del nuovo anno scolastico da parte della ministra Azzolina (che ieri non si è presentata in aula all’esordio dell’iter del testo).

Ma la vera contestazione al governo avviene fuori dalle aule parlamentari e dentro quello scolastiche. I sindacati dei prof hanno convocato uno sciopero per il prossimo 8 giugno, ma oggi incontreranno la ministra . «Il governo pone la fiducia sul dl scuola e ancora non si preoccupa di trovare le risorse e che alla scuola servono davvero», attacca la Flc Cgil, «La ripresa a settembre è strettamente legata ai numeri del precariato, un legame che non si può nascondere perché all’inizio del prossimo anno scolastico tutti i nodi verranno al pettine. Ed è un tema che il dl scuola non risolve, rinviando le assunzioni possibili al prossimo anno». Per il sindacato a settembre saranno 200 mila le cattedre prive di un titolare, che significherà «nomine di supplenti che dureranno per settimane a scuola iniziata, con l’impossibilità di smistare gli alunni senza insegnante nelle altre classi, come si fa di solito, perché bisognerà garantire il distanziamento. Negli altri paesi gli interventi per riaprire le scuole in sicurezza, con organici aggiuntivi e classi ridotte sono mirati e tempestivi».

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