I 35 giorni alla Fiat. Il 14 ottobre del 1980 la «marcia dei 40mila», il 15 il Consiglio di fabbrica presentò la «storia» della lotta ai vertici sindacali, il 16 l’accordo, respinto, venne dichiarato approvato
La storia di una grande, decennale insubordinazione di massa nei confronti del dispotismo produttivo di un potere che sembrava invincibile e che invece aveva dovuto piegarsi.
Il giorno prima, il 14 ottobre, gli «altri» – la «zona grigia» della fabbrica, la massa informe radunatasi intorno alle gerarchie d’azienda, capi e quadri intermedi, al grido sordo e subalterno «il lavoro si difende lavorando» – si erano ripresi la città con una marcia di alcune migliaia di manifestanti, dichiarati a mezzogiorno 15.000 nei titoli di Stampa sera, diventati 30.000 in quelli dei radiogiornali del pomeriggio, infine proclamati in 40.000 da Repubblica e tali rimasti nella storia: la «marcia dei quarantamila».
Il giorno dopo, il 16 ottobre, prima ancora che le grandi assemblee tenutesi negli spiazzi delle diverse Sezioni Fiat si fossero concluse, i media dichiareranno l’accordo «approvato» e una grande pietra tombale fu calata sulla vicenda. Personalmente ricordo l’Assemblea del mattino alle Meccaniche di Mirafiori, la grande massa scura sotto gli ombrelli perché, come in ogni crepuscolo di qualcosa, pioveva, il funzionario sindacale incaricato della conta che chiama i contrari all’accordo ad alzare la mano, e se ne alza una selva, poi passa ai favorevoli, poche decine, infine agli astenuti, meno ancora e infine proclama, perentorio «APPROVATO A GRANDE MAGGIORANZA»… Finiva lì la stagione di liberazione di quegli operai. Ma anche la storia di quel Sindacato (il Sindacato in fabbrica, il Sindacato dei Consigli, l’anima della democrazia industriale).
E un intero ciclo politico (la Prima repubblica? La «democrazia sociale» (fondata sul compromesso keynesiano?). Insieme al lungo ciclo socio-produttivo che va sotto il nome di età fordista, con il suo baricentro nella produzione di massa. Allora, a caldo, ci si rese appena conto del fatto che quella che si era consumata non era solo una sconfitta sindacale, di quelle che poi si possono recuperare, era una disfatta che sanzionava appunto «un finire». Se ne resero conto tutti, tranne il ceto politico di sinistra, e il funzionariato sindacale centrale, che lo vissero con un trattenuto senso di compiacimento per essersi tolti di torno i «rompiballe» di Torino.
Ma ora, guardando a quei fatti col distanziamento dei decenni– collocandoli nella lunga durata misurata sulla scala dei mezzosecoli – possiamo ben dire che i «35 giorni della Fiat» sono uno di quegli eventi… non mi piace il termine «epocale», ma periodizzanti di certo sì. Di quelli che dividono il tempo storico in un prima e in un dopo. In essi si rifletteva, e parlava, un contesto generale di frattura col novecento industriale. Pochi mesi prima il Governatore della Federal Reserve, Paul Volker, aveva dichiarato chiuso il ciclo aperto col ’29 e dominato dal terrore della disoccupazione, e aperto quello della lotta all’inflazione e alla rigidità della remunerazione del lavoro. Stava per entrare in vigore lo SME, il «serpente monetario», il che voleva dire che le imprese italiane non avrebbero più potuto godere dei vantaggi delle «svalutazioni competitive».
E d’altra parte i reparti di produzione di Mirafiori si erano già andati riempiendo di robot, segno che l’epoca flessibile dell’elettronica stava soppiantando quella rigida e muscolare della meccanica. Sotto i piedi (e gli occhi, chiusi) di un sindacato tronfio per la rendita di posizione fornitagli dalle lotte di quegli operai, l’erba veniva tagliata a colpi d’innovazione tecnica e organizzativa. In Giappone si produceva già col just in time e con la fabbrica integrata. Lo spirito del tempo stava facendo il suo giro.
Nemmeno i vincitori di allora lo sapevano, neppure i Romiti e gli Agnelli, men che meno gli uomini di Luigi Arisio e dei suoi «quadri», ma anche loro stavano per declinare, come la città che li aveva avuti protagonisti. È cominciato allora il declino della Fiat come “Fabbrica Italiana di Automobili – Torino”. Presto si sarebbe finanziarizzata, per poi evaporare con i successivi accordi internazionali. I marciatori silenziosi, dieci anni dopo o poco più sarebbero stati a loro volta buttati fuori, nel corso del secondo ciclo di ristrutturazione della prima metà degli anni ’90.
Torino avrebbe cessato non solo di essere la one company town che l’aveva resa centrale nel mondo, ma di conservare la propria specificità di metropoli di produzione, diventando una città come le altre (media e mediocre). In crisi, come tutte (o quasi) le altre.
Dunque, non vinse allora né la «Grande Impresa», né il «ceto medio» produttivo. Non vinse neppure un – sia pur asociale e cinico, perché svuotato della «socialità del lavoro» – «mondo della produzione». Non fu la rivincita della «borghesia novecentesca» sul proprio eterno antagonista. Si aprì al contrario la via all’inedito modello sociale, esistenziale, antropologico che va sotto il nome di berlusconismo e che se ebbe nei melmosi anni ’80 la propria gestazione troverà nei ’90 la propria consacrazione, con l’affermarsi di un nuovo ceto edonistico e vaporoso, fatuo e dissipatore (cafonal, si disse), imprevidente quanto impudente. Una neo-borghesia plebeizzata e un ceto medio irriflessivo e decomposto, che prepareranno appunto i disastri di oggi.
Per questo è tanto più importante riproporre – con la forza comunicativa che ebbe a suo tempo il cinema neorealista – le immagini (neoclassiche?) di allora, come sta facendo, proprio in questi giorni, uno dei protagonisti di quegli eventi, Pietro Perotti, con i filmati che realizzò nel cuore di quella lotta. Sono la rappresentazione di «uomini in carne ed ossa» che, destinati per origine alla catena (di montaggio), vissero invece un intenso, anche se breve, periodo di liberazione e per questo rimasero, anche nella sconfitta, per sempre, uomini liberi.
Commenta (0 Commenti)Da lunedì 1° ottobre entrano in vigore le misure di limitazione al traffico per tutelare la qualità dell’aria nelle città, come dall’accordo di programma siglato a livello regionale da tutti i principali comuni dell’Emilia Romagna.
Dal 1° ottobre 2020 e fino al 31 marzo 2021, dalle ore 8.30 alle 18.30, dal lunedì al venerdì e la prima e la terza domenica di ogni mese, esclusi:
sarà vietata la circolazione ai mezzi più inquinanti nell’area del centro storico compresa all’interno del perimetro urbano delle seguenti strade: viale Tolosano, viale IV Novembre, viale delle Ceramiche, via Mura Mittarelli, via Renaccio (da corso Saffi a via Lapi), via Lapi, piazza Fratti, viale Stradone, piazza della Rocca e via San Giuliano.
Alcune vie interne all'area perimetrale sono escluse dalle limitazioni per consentire l'accesso ai parcheggi:
Per maggiori informazioni leggi l' Ordinananza in merito alle disposizioni per la limitazione della circolazione nel centro storico .
Nel caso in cui il bollettino emesso da ARPAE evidenzi un superamento dei livelli di allerta, scattano le misure emergenziali.
Il lunedì e giovedì (giorni di controllo) viene emesso il bollettino Liberiamolaria : nel caso in cui in uno dei comuni della provincia di Ravenna aderenti al PAIR (Ravenna, Faenza, Lugo) si verifichi il superamento dei limiti di legge di PM10 nei 3 giorni precedenti il controllo scattano le seguenti misure:
Verificare la categoria Euro di autoveicoli, motoveicoli e ciclomotori:
www.ilportaledellautomobilista.it/web/portale-automobilista/verifica-classe-ambientale-veicolo
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PER ULTERIORI INFORMAZIONI
Piano aria integrato regionale (PAIR 2020)
Per maggiori dettagli ed elenco dei veicoli oggetto di deroga ai provvedimenti di limitazione del traffico:
Per maggiori informazioni sul PAIR - Piano aria integrato regionale, guarda il video dell'Anci Emilia-Romagna:
Economia. Ai tempi del piano Marshall vinse chi puntava sullo sviluppo naturale dei mercati, ciò non toglie che oggi il tema della programmazione va riproposto con forza
Non sarà una Nadef qualunque, o quantomeno non dovrebbe esserlo. Non solo perché presenta un orizzonte ben più esteso di quello solito, spingendosi fino al 2026, ma perché ha a che fare, per usare le parole del ministro Gualtieri (nella sostanza ribadite nell’audizione parlamentare), con “la peggiore caduta del Pil della storia repubblicana”, e perché si misura con l’utilizzo delle risorse messe a disposizione dalla Ue. Non è la prima volta che una Nota assume più importanza dei documenti cui si riferisce.
Basta ricordare la centralità che assunse nel dibattito politico-economico di allora la celebre Nota aggiuntiva del maggio del 1962 di Ugo La Malfa. Solo che qui la qualità è assai differente. Non c’è quindi da stupirsi se malgrado le critiche che il Presidente della Confindustria ha rivolto al governo, il suo incontro con Gualtieri alla recente presentazione del Rapporto del Centro studi Confindustria non sia finito in baruffa. Anzi il ministro ha sottolineato la sintonia del Rapporto con il quadro tracciato nella Nadef e gli indirizzi da dare al Recovery Plan. In realtà il testo confindustriale contiene previsioni più pessimistiche di quelle esposte lungo le 134 pagine della Nota di Aggiornamento.
PER CONFINDUSTRIA il calo del Pil nel 2020 sarà pari a -10% (per la Nadef -9%, mentre Bankitalia sta nel mezzo: -9,5%). Il Fondo monetario internazionale, nel suo recentissimo rapporto, ha stimato per l’Italia una contrazione del 10,6%, meglio del precedente -12,8%. Il governo assicura un rimbalzo del 6% nel 2021, per Confindustria solo un +4,8%.
Il che comporta 410mila occupati in meno quest’anno che nel 2021 non verranno recuperati (-230mila occupati), mentre Gualtieri, nella Nota, legge quei dati in modo capovolto: “a fronte di un crollo del Pil stimato al 9% nel 2020 l’occupazione è prevista ridursi di meno del 2%”. Peccato che fosse già bassa prima, ma al Governo interessa magnificare le misure introdotte che avrebbero “limitato l’aumento della povertà e delle diseguaglianze” cosa di cui è difficile convincersi.
MA SIA IL GOVERNO che Confindustria concordano sulla necessità di cambiare “paradigma”. Termine quanto mai abusato. Thomas Kuhn lo definiva una “costellazione di credenze, di valori, di tecniche e di impegni collettivi condivisi… fondata in particolare su un insieme di modelli di assiomi e di esempi comuni”. Non a caso parlava di rivoluzioni, anche se scientifiche.
Al contrario Confindustria vuole tornare a peggio di prima, svilendo i contratti nazionali di lavoro, sostenendo che gli aumenti salariali non possono superare un’inflazione quasi assente (per la Nadef nel 2020 si attesterà allo 0,8% e scenderà allo 0,5% nel 2021) e puntando sulla precarietà del lavoro. Il governo intende muoversi, per l’utilizzo dei fondi dell’Unione europea, lungo sei direttrici: digitalizzazione, transizione ecologica, mobilità sul territorio, istruzione, equità sociale, salute.
COME SI VEDE siamo nell’ovvio per un verso e per un altro si rilanciano progetti di vecchia data, appena adattati alle nuove linee guida. Mentre la riforma fiscale è rimandata a una legge delega e sarebbe auspicabile si ascoltasse lo stesso Fondo Monetario Internazionale che raccomanda di alzare in maniera progressiva le tasse “sugli individui più ricchi”. Il cambio di paradigma può venire solo da un radicale mutamento dei fondamenti economici, quelli delle teorie del “Nuovo Consenso”, per cui è il mercato l’elemento equilibratore non la politica economica. Si fa spesso il paragone con il dopoguerra.
Ebbene in quegli anni si accese un dibattito sul concetto di programmazione proprio per utilizzare i fondi del piano Marshall. Vinse la posizione che puntava sullo sviluppo naturale dei mercati, come ricordò Pasquale Saraceno. Ma ciò non toglie che il tema della programmazione va riproposto con forza. Certo non costruita a tavolino ma mettendo in moto centri intellettuali e parti sociali, il sindacato in primo luogo, senza scambiare ciò con il soffocamento del conflitto che invece è proprio una molla di una innovazione che risponda ai nuovi bisogni. Non se ne esce senza un intervento pubblico diretto in economia, su cui si esprime favorevolmente anche il Fmi.
DAL CANTO SUO Fabrizio Palermo, l’Ad della Cassa Depositi e Prestiti sostiene che basta un “capitalismo paziente”: una contraddizione in termini. Il Sud, non solo le coste ma le zone interne, è un problema europeo e quindi il primo destinatario dei fondi dell’Unione europea, come insiste Adriano Giannola presidente della Svimez.
Il tutto in un quadro europeo. Quindi il patto di stabilità e tutti i suoi derivati sono da cancellare, non solo da sospendere (come si limita a suggerire il Fondo Monetario Internazionale). L’obiettivo deve essere la piena occupazione, tutt’altro che incompatibile con un reddito di cittadinanza, e non il tasso di inflazione, come oramai ci insegna anche la Federal Reserve.
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«Per combattere la crisi climatica serve farlo con giustizia sociale. Per farlo con giustizia sociale bisogna unire la maggior parte della popolazione possibile, a partire dai lavoratori».
Ieri mattina in piazza a Milano «da via Cairoli a piazza Duomo tenendo un lunghissimo nastro verde che ci ha aiutato a rispettare strettamente il distanziamento e dimostrando che anche nel bel mezzo della pandemia si può manifestare in sicurezza» c’era come sempre Andrea Torti, 27enne attivista del movimento per il clima.
Per la prima volta Andrea c’era anche in una seconda veste: da luglio è un funzionario della Fiom di Milano dove segue in prima persona già parecchie aziende e fabbriche metalmeccaniche.
Il primo esperimento di osmosi tra il movimento dei giovani e il sindacato, «il primo con Fridays for future perché in Fiom da Genova in poi in tanti sono arrivati dai movimenti», sottolinea la segretaria milanese Roberta Turi, «ed è figlio di un contatto con il movimento studentesco – io stessa provengo dal movimento pacifista – il tema dell’ambiente e della compatibilità ambientale, un tema che affrontiamo con tanta ricerca da anni, anche se non è semplice, servono competenze, come quelle di Andrea».
«Io rimango un attivista per il clima e vengo già da una esperienza sindacale come rappresentante degli studenti al Link – si schermisce Andrea – . Per me le due lotte vanno di pari passo: il fuoco che brucia i diritti dei lavoratori è lo stesso che brucia il pianeta e proviene dalla sete di potere di pochi».
Dall’Ilva alle raffinerie, dai centri di stoccaggio di CO2 al metanodotto in Sardegna, ambiente e sindacato però rischiano di entrare in conflitto.
«Ed è una sconfitta per tutti che va evitata con il dialogo, il confronto e la conoscenza – risponde Andrea -. I costi della necessaria transizione climatica verso produzioni sostenibili non può ricadere sui lavoratori, questo il movimento lo ha ben chiaro e lo chiede dal principio. Il terreno comune tra movimento e sindacato c’è ed è una prateria da percorrere assieme».
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Torna oggi nelle piazze lo sciopero per il clima dei Fridays for Future (Fff). In Italia la mobilitazione arriva con due settimane di ritardo rispetto alla data globale del 25 settembre scorso. Gli attivisti hanno scelto di posticipare l’appuntamento per evitare che fosse troppo a ridosso della riapertura delle scuole dopo la lunga sospensione della didattica causata dal Covid-19.
La ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha invitato a discutere di cambiamento climatico durante le lezioni ma ha fatto sorridere i Fff chiedendo di spostare la protesta al pomeriggio. «Come se uno sciopero scolastico si facesse di domenica o in orario non scolastico – scrive Fff Italia sulla sua pagina Facebook – In questo momento il governo dovrebbe impegnarsi a tutelare tutti e tutte, ma ecco di cosa si preoccupa: il problema è saltare le lezioni».
Sono oltre 120 gli appuntamenti di protesta organizzati nelle città e nei piccoli centri lungo tutta la penisola e sulle isole.
La partecipazione sarà verosimilmente più bassa rispetto ai cinque scioperi precedenti e la giornata costituirà un banco di prova per il movimento ecologista.
Il Covid-19 e le misure di distanziamento sociale a esso collegate hanno colpito duramente la capacità di organizzazione dei movimenti sociali che stanno provando a immaginare forme nuove di aggregazione e mobilitazione.
A Roma l’appuntamento è alle 8.30 a Garbatella per una critical mass diretta a piazza del Popolo.
A Torino concentramento alle 9.30 a piazza Castello.
A Milano stesso orario in Largo Cairoli.
A Napoli ci sarà un presidio tematico in piazza municipio a partire dalle 16.
A Palermo dalle 17 in piazza Pretoria.
Sui canali social i Fridays invitano chi parteciperà alle manifestazioni a indossare la mascherina e osservare le necessarie norme anti-contagio.
«Le misure per la ripartenza sono l’occasione irripetibile per avviare la riconversione ecologica, risolvendo i problemi sociali del nostro paese», scrivono nel comunicato di lancio.
Gli attivisti climatici sanno che la partita sulla gestione dei soldi del Recovery Fund è decisiva per provare a invertire la rotta.
Insieme a organizzazioni e reti attive sui temi ambientali da più tempo – Greenpeace, Wwf, Legambiente, Terra! e Stop Ttip Italia – hanno elaborato il programma «Ritorno al futuro» che si compone di sette punti:
Da ieri invece diverse decine di attivisti di Extinction Rebellion (Xr) stanno protestando davanti alla sede romana dell’Eni, vicino al laghetto del quartiere Eur. Mentre un gruppo tentava di tuffarsi in acqua e simulare uno sversamento di petrolio, un altro si posizionava davanti all’ingresso principale degli uffici. Qui un ragazzo si è arrampicato su una struttura di ferro costruita al momento e in due si sono incatenati.
La protesta di Xr denuncia le strategie di greenwashing di Eni, definita «una delle aziende più inquinanti al mondo», ma chiama soprattutto in causa il governo italiano e in particolare il ministro dello sviluppo economico Stefano Patuanelli.
«I nostri interlocutori non sono le aziende, che perseguono inevitabilmente un interesse privato a breve termine, ma coloro che si propongono di guidare la nostra società verso decisioni lungimiranti atte a garantire il benessere della cittadinanza», scrive Xr in una lettera indirizzata al ministro per chiedere un incontro.
Da Patuanelli non è arrivato nessun segnale e così gli attivisti hanno deciso di mantenere il blocco anche durante la notte. «Da qui non ce ne andiamo, rimarremmo a oltranza finché non otterremo l’incontro», dicono in serata.
Tra le azioni più urgenti che Extinction Rebellion chiede di intraprendere per impedire la catastrofe climatica c’è il ritiro immediato delle sovvenzioni pubbliche alle compagnie che estraggono combustibili fossili.
Se queste dovessero accedere ai fondi per la transizione ecologica previsti dal Next Generation Eu gli effetti negativi sul clima si moltiplicherebbero, indebitando le generazioni future proprio mentre si mette in pericolo il loro diritto a esistere.
La mobilitazione si svolge secondo le pratiche abituali di Xr improntate alla strategia della disobbedienza civile non violenta.
Tante bandiere e striscioni, performance artistiche, interventi al megafono, canti e danze animano la piazza. La protesta non era stata autorizzata e ha beffato le forze dell’ordine, inizialmente schierate dall’altro lato dell’edificio.
Nonostante il sit-in fosse pacifico, gli agenti della digos hanno identificato i manifestanti. Ieri pomeriggio due sono stati portati in questura e denunciati: un ragazzo che si era incatenato è stato accusato di possesso di arma illecita (la catena) e un altro per manifestazione non autorizzata. Da agosto nella capitale si è insediato un nuovo prefetto: Matteo Piantedosi, ex capo di gabinetto di Matteo Salvini. Pochi giorni fa ha dichiarato: «La proprietà privata è sacra», promettendo nuovi sgomberi.
Commenta (0 Commenti)Rinnovo dei Contratti. Fim, Fiom e Uilm decidono per 6 ore. Oggi la protesta dell’industria alimentare mentre Assica disattende il niet di Bonomi e aderisce all'accordo contestato
Uno sciopero spontaneo in una fabbrica metalmeccanica
Mancava solo la data. Per lo sciopero dei metalmeccanici Fim, Fiom e Uilm hanno scelto giovedì 5 novembre: un anno esatto dall’inizio della trattativa per il rinnovo del contratto nazionale. Un contratto che si è arenato sull’aumento salariale che, seguendo la linea Bonomi, Federmeccanica non vuole portare oltre al recupero dell’inflazione: 40 euro contro i 145 chiesti dai sindacati confederali.
La modalità è inedita ed è frutto di un compromesso: quattro ore a cui in quasi tutta Italia si uniranno due ore di assemblea-sciopero per spiegare ai lavoratori le ragioni della rottura con Federmeccanica e Assistal.
Come e più di mercoledì, ieri si sono tenuti molti scioperi spontanei in circa un centinaio di fabbriche grandi e piccole del Piemonte, del Veneto, dell’Emilia-Romagna.
La decisione sullo sciopero è arrivata di prima mattina dalle segreterie unitarie. «L’adeguamento del salario per i lavoratori serve anche per la ripresa del paese e noi facciamo questo sciopero per riaprire la trattativa perché vogliamo rinnovare il contratto – ha spiegato la segretaria generale della Fiom Francesca Re David – . La posizione di Federmeccanica sul blocco dei salari è molto precedente al Covid. Per noi è inaccettabile: i metalmeccanici hanno scioperato per mettere in sicurezza il paese e le aziende, hanno vissuto e stanno vivendo mesi di cassa integrazione e ora vivono il rischio dei licenziamenti. Hanno dunque il diritto di vedersi rinnovato il loro contratto».
«Siamo convinti che la linea di Confindustria sia una linea suicida», ha ribadito il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella. «Una linea che sta già mettendo in discussione la stessa tenuta di Confindustria». «Tutte le categorie sindacali – ha sottolineato Palombella – sono unite in questa partita, il nostro è un obiettivo comune, come dimostra la linea rigida delle altre confederazioni nei confronti di Bonomi e di Confindustria».
Parole a cui hanno fatto eco quelle del segretario generale della Fim Cisl Roberto Benaglia, che blocca sul nascere qualsiasi polemica contro un sindacato fuori dalla realtà: «Guai a pensare che c’è un sindacato che viaggia nei suoi riti. Siamo perfettamente consapevoli di cosa significhi fare impresa nell’incertezza e per i lavoratori avere posti sicuri. La nostra piattaforma unitaria tiene conto del fatto che molte aziende non hanno rispettato il contratto precedente, che prevedeva l’allargamento della contrattazione di secondo livello e 24 ore di formazione. Questi impegni non sono stati attuati».
Chiudendo il seguente Comitato centrale della Fiom Francesca Re David ha chiarito: «Non esiste un piano B: ora al lavoro e alla lotta».
Fim, Fiom e Uilm hanno chiesto alla politica di schierarsi. In mattinata, la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ha esortato le parti a non fermare le contrattazioni sul rinnovo dei contratti, sottolineando come negli ultimi decenni in Italia si è avuta una «stagnazione salariale» e ribadendo l’intenzione da parte del governo di detassare gli aumenti salariali, storica richiesta di Fiom e Cgil.
OGGI SI TIENE INVECE lo sciopero di 4 ore dei lavoratori dell’industria alimentare con presidi sotto aziende, sedi locali di Confindustria e a Roma sotto Federalimentare. I sindacati Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil mettono in atto la protesta annunciata per rivendicare il contratto firmato il 31 luglio con Unionfood, Assobirra e Ancit come «l’unico contratto nazionale». Lo hanno ribadito ieri i segretari generali Giovanni Mininni (Flai Cgil), Onofrio Rota (Fai Cisl) e Stefano Mantegazza (Uila) annunciando già un nuovo sciopero il 9 novembre qualora «non ci fossero le adesione necessarie al contratto con manifestazioni in 20 piazze».
Ma proprio ieri Assica-Confindustria, l’associazione industriali della carni e dei salumi, ha dato la sua adesione all’accordo del 31 luglio per il rinnovo del contratto. Un duro colpo per Carlo Bonomi che aveva invece cercato inutilmente di convincere Union Food e le grandi aziende a ritirare la firma dal contratto che prevede 115 euro di aumetno. Assica infligge una batosta a Bonomi e certifica come Confindustria sia tutt’altro che compatta sulla linea del no agli aumenti oltre l’inflazione.