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Schlein: "Sui fondi europei decidano anche le Regioni. Il Mes? È un'opportunità"

La vicepresidente dell'Emilia Romagna: "Non serve un nuovo partito, ma una rete e una visione comune di futuro per ecologisti e progressisti"
 
Sabato sera a Lecce con le Sardine. Stasera al Circo Massimo con Aboubakar Soumahoro e i suoi “invisibili” sul palco dell’Espresso. Elly Schlein, da cinque mesi vicepresidente dell’Emilia-Romagna, prova ostinatamente a costruire ponti con i movimenti. Con ciò che si muove spontaneamente fuori dal confine dei partiti.

Cosa è cambiato da quel voto in Emilia che sembrava dover rappresentare uno spartiacque per la politica italiana?
"Sono successe molte cose. Abbiamo continuato a vedere, nonostante il Covid, mobilitazioni per il clima, per la parità di genere, contro le discriminazioni e lo sfruttamento. I più giovani in qualche modo ci stanno mostrando la via. Le Sardine hanno risvegliato un grande senso di comunità e di partecipazione, così come Fridays for future e Black lives matter. Purtroppo però non trovano una rappresentanza politica".

Possibile che non ci siano forze politiche in grado di rappresentarli?
"Purtroppo sono schiacciati tra le contraddizioni dei grandi partiti — che contengono tutto e il contrario di tutto — e una decina di sigle della sinistra e degli ecologisti che non riescono a fare fronte comune. Per questo non serve tanto un nuovo partito, ma una rete per chi trasversalmente nelle diverse forze politiche e sociali vuole lavorare insieme su alcune sfide cruciali: cioè la lotta alle diseguaglianze, il lavoro dignitoso e la transizione ecologica".

Insomma, non vuole l’ennesimo partitino del 3 per cento. Ma prima o poi questa rete dovrà presentarsi alle elezioni.
"Quel che succederà lo vedremo più avanti. Ma prima serve un processo di avvicinamento collettivo per arrivare a una visione di futuro condivisa. Solo così si può dare una svolta al campo progressista ed ecologista. Una ragazza che scende in piazza con le Sardine o per il clima, oggi in che partito si sentirebbe a casa?".

Quindi secondo lei questa ragazza dovrebbe sentirsi respinta dal Pd o dai 5Stelle.
"Beh, la mancata discontinuità di questa maggioranza sull’immigrazione non è esattamente quello che si aspettano queste piazze. E poi, il Green new deal... Doveva essere nel programma di questo governo ma non abbiamo ancora visto molto".

Ora c’è l’occasione offerta dal Recovery fund. Da europeista convinta, è soddisfatta della prova offerta dall’Unione?
"Credo sia un’occasione senza precedenti anche se il braccio di ferro tra governi ha ridimensionato la proposta ambiziosa della Commissione. Ora bisogna scrivere una strategia per la conversione ecologica e digitale. Subito, perché siamo in ritardo. E bisogna farlo con le Regioni, i Comuni, le parti sociali, il Terzo settore per poi sottoporre il piano al Parlamento. Insomma, no ad aiuti a pioggia: i fondi devono passare per le Regioni. E no a listoni di opere. La grande opera su cui mi concentrerei è la cura del territorio contro il dissesto idrogeologico. È una priorità assoluta, lo dimostra quello che è successo in questi giorni, da Palermo a Milano".

E i soldi del Mes li prenderebbe?
"Penso sia un’opportunità da esplorare. Offrirebbe alla Regioni un aiuto concreto e da subito. Capisco le perplessità per quello che è accaduto dopo la crisi del 2008 ma ora siamo in una condizione diversa. C’è la sospensione del patto di stabilità e un impegno della Commissione a non porre altre condizionalità, se non l’utilizzo per la sanità pubblica, che in effetti ha bisogno di essere rafforzata".

Questa maggioranza va divisa quasi ovunque alle amministrative. Un’occasione persa?
"Sono felice che sia stata trovata un’intesa su Sansa in Liguria, spero accada anche altrove. Discuterei meno dei nomi e più dei progetti condivisi per il futuro".

La maggioranza va in ordine sparso anche sulla legge elettorale.
"È un tema importante ma mi sembra molto più urgente mettersi a scrivere il piano per il Recovery fund. E le regole del gioco si discutono insieme, oltre la maggioranza e senza guardare i sondaggi. Non mi sembra si stia facendo questo".

Tra inchieste e sondaggi in calo, Salvini oggi fa meno paura?
"Dopo l’accordo europeo, i nazionalisti hanno meno argomenti. Ma non sottovaluterei il rischio. Senza risposte concrete su occupazione e disuguaglianze, presto la destra tornerà a guadagnare terreno".
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Sinistra. Ieri il debutto in un’assemblea online, «Un’impresa collettiva contro le diseguaglianze»

Sarà una rete «ecologista, femminista di sinistra» e «innovativa» giurano in molti e molte, un’affermazione ma anche una raccomandazione. Il nome non c’è ancora, i lavori sono in corso. Ma i nodi principali ormai sono stretti e ieri i settanta interventi di una maratona online di sette ore – dai siti ilmanifesto.it, radioradicale.it, left.it ma ripetuti anche da molti profili facebook – hanno composto un romanzo corale, un discorso collettivo su una storia futura a lungo covata, iniziata prima della pandemia, e ieri diventata pubblica.

L’intenzione è – sia detto senza enfasi e con tutte le cautele del caso – chiudere con le stagioni delle cicliche e rituali nascite e rinascite della sinistra. C’è qualche presupposto: la rete stavolta non si salda intorno a un leader – o a una leader, il genere cambierebbe la natura del rischio – ma cammina sulle gambe di un collettivo, fra parlamentari, società organizzata, studiosi. Altra novità è l’interesse ravvicinato di molti sindaci (parla quello di Parma Pizzarotti e quello di Latina Coletta, ma si sa dell’interesse di Sala di Milano e De Magistris di Napoli).

«Una rete open source, non proprietaria», riassume l’europarlamentare Massimiliano Smeriglio nelle conclusioni, «un’impresa collettiva, cooperativa. Non un uomo solo al comando ma neanche una collezione di figurine ma un processo politico vero» che ridà cittadinanza alla parola «conflitto». E infine, altra novità, stavolta non si presenta come un rimescolamento di carte fra i protagonisti della sinistra radicale degli ultimi decenni. C’è un forte reinnesto civico e ambientalista. E una forte componente di ex 5 stelle e persino di 5 stelle in servizio.

L’OBIETTIVO È, spiega Elisabetta Piccolotti, «un futuro insieme, per l’Italia, l’Europa e il pianeta». Primo, incidere sulle scelte che il governo farà sul Recovery Plan per far uscire il paese dalla crisi. Per definire queste proposte a settembre sono in programma «gli stati soldati semplici» (Smeriglio) diversi dalla kermesse degli Stati generali del premier Conte. E poi un appuntamento a ottobre per un’assemblea in presenza e un nuovo step organizzativo. «Rete» è la parola più usata, ma in molti, molte donne, tutte amministratrici (Nalin di Padova, Allegni di Bertinoro e Clancy di Bologna) chiedono senza complessi «una nuova casa comune» per «non essere soli ad affrontare problemi che invece molti stanno affrontando». Di «comunità di pratiche» parla la milanese Pirovano.

«TUTTE QUESTE VOCI DICONO che la rete c’è già», rassicura Amedeo Ciaccheri, minisindaco di Roma e portavoce di Liberare Roma, «già si esprime nei territori, e non teme il corpo a corpo con il nazionalismo, in Europa ma anche per le strade dei nostri quartieri». «È importante restare con una mano tesa, restare aperti», avverte Paolo Lattanzi, deputato 5 stelle. «Attendiamo quelli che hanno un altro passo, verso una forza politica, di cui l’esigenza si sente», spiega Massimo Zedda, ex sindaco di Cagliari. «Ora non mi interessa prendere una nuova tessera, l’importante è stabilire che la clandestinità è finita»,risponde la senatrice Loredana De Petris, «dobbiamo fare in fretta, rendere visibile una rete ecosolidale, perché dopo la crisi la tentazione di fare passi indietro è forte. Non possiamo permettere che si possa uscire con modelli fallimentari».

È LA PREOCCUPAZIONE principale. Il dibattito si ordina in cinque sessioni tematiche, poi la plenaria virtuale finale. Ogni sessione è un capitolo del ragionamento programmatico di un’area polifonica e plurale che però in (quasi) ogni caso vede nell’esecutivo giallorosso un’opportunità. Ne parla anche Norma Rangeri, direttrice del manifesto. «Leali con il governo ma pronti a dare battaglia» (Smeriglio). Per Peppe De Cristofaro, sottosegretario all’Istruzione questo governo «non è solo il più avanzato possibile data la base elettorale ma anche un governo più avanzato del centrosinistra», «ma servono elementi di autonomia». Avverte però Nichi Vendola: «Gli appelli all’unità mi convincono relativamente, se siamo d’accordo sui valori poi non possiamo legittimare i gangster del Mare Nostrum».

SI RIFERISCE ALLE POLITICHE sui migranti. Nella sezione sui diritti umani e sulla Libia il racconto di Cecilia Strada di Mediterranea dimostra che la politica ostile alle navi delle Ong è in continuità con l’era gialloverde.

SI PARLA DI CITTÀ, il luogo del «vivere insieme» (Luparelli, Clancy, Genna, Nalin, Limonta, Pastorino, Schingaro), di federalismo municipale (Ciaccheri); di lavoro con Michele De Palma, Fiom, e Enrico Giovannini, ex ministro e portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, che avverte sui rischi dello smartworking. «La Confindustria sta dettando l’agenda» lamenta la senatrice Paola Nugnes. «Patuanelli dove sei» si appella al ministro il consigliere piemontese Grimaldi parlando della vertenza ex Embraco. Sul nodo della transizione ecologica l’ex ministro Lorenzo Fioramonti chiede che «le famiglie dell’ecologismo e il progressismo si mescolino», e dopo di lui Philippe Lamberts, copresidente dei Verdi europei, augura un cammino comune.

Ma lo storico leader dei Verdi Angelo Bonelli spiega che se questa mescolanza ha portato a importanti vittorie in alcune città francesi, in Italia è più complicato: «Se il problema è rifondare la sinistra non ci interessa. Ci interessa se si tratta di una grande innovazione politica e culturale». C’è un’interruzione sulla linea, è Vendola, sembra intenzionale poi l’interessato spiega di no.

PROBLEMI DI RETE, e di collegamenti, dentro e fuori metafora. Temi comunque da affrontare. Consapevoli «di tutto quello che abbiamo sbagliato fin qui», ammette De Cristofaro, ma se «la pandemia cambia tutto, il segno di questo cambiamento non è scontato. Per questo servono idee, ma anche la forza perché si affermino» dice Nicola Fratoianni, coordinatore di Si. Ora «c’è una credibilità da riconquistare» (Serena Spinelli). Con una raccomandazione, avverte Andrea Morniroli del Forum Disuguaglianze e Diversità: «Ho visto tanti tentativi di questo tipo. C’è un grande bisogno di rappresentanza politica, non va svilito nell’autogaranzia di ceto. Deluderlo vorrebbe dire essere collusi con la normalità di prima».

 

 

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da "il Manifesto"

Progressisti&ambientalisti. Assemblea virtuale di una sinistra "fuori dai luoghi comuni", a ottobre lancio in presenza. Un lavoro carsico andato avanti nei mesi della pandemia, venerdì il primo debutto

Roma, una manifestazione di Fridays for Future

 Nei mesi dell’emergenza della pandemia è stato un movimento carsico di riunioni, confronti. Anche un accenno di organizzazione affiorata in alcune occasioni significative: le ultime sono i voti parlamentari sulle missioni libiche. Prima, ad aprile, c’era stato un appello al governo su «Tre priorità per uscire dalla crisi» https://ilmanifesto.it/tre-priorita-per-uscire-dalla-crisi/ con un lungo elenco di firmatari. Ma risalendo all’indietro nel tempo, i segnali della rete che venerdì 24 si presenterà a tutti e tutte in un’assemblea online (dalle 13) dal sito del quotidiano il manifesto, quello di RadioRadicale e quello del settimanale Left – ispirato alle teorie dello scomparso psichiatra Fagioli – risalgono all’era ante Covid, precisamente all’indomani delle elezioni regionali di fine gennaio.

IL NOME ANCORA NON C’È. La ‘cosa’ invece ormai sì: è una rete «tra ecologisti e progressisti, sindaci e movimenti civici, associazioni e imprenditori innovativi». «Innovazione», lo diciamo subito, è sottolineata e considerata una parola chiave. Una parola che vuole mettere al riparo questa “confluenza” o “convergenza” – termini mutuati dalle migliori esperienze civiche spagnole – dalla ripetizione rituale delle tante ripartenze della sinistra più o meno radicale italiana. Più o meno andate a vuoto.

STAVOLTA INVECE C’È – viene assicurato – un forte innesto di culture diverse. Lo si vedrà dai nomi in collegamento. I promotori sono molti, provengono da un’area trasversale che va dalla sinistra alle realtà civiche ed ecologiste, fino a ex 5 stelle ma anche 5s in servizio. Con loro da mesi lavorano in stretta connessione i progressisti di Massimo Zedda, ex sindaco di Cagliari ed ora capo dell’opposizione alla regione Sardegna, la lista Milano Progressista, il movimento Liberare Roma guidato dal minisindaco Amedeo Ciaccheri. Tra gli interlocutori ci sono anche i sindaci di Milano e Napoli Sala e De Magistris, la vicepresidente dell’Emilia Romagna Elly Schlein.

IN COMUNE FRA TUTTI E TUTTE c’è il lavoro quotidiano su tre direttrici: l’ecologia, ormai intesa come – dice la convocazione dell’assemblea – «una visione di politica economica, di transizione industriale e di ricostruzione del mondo del lavoro»; i diritti di tutti e tutte ovvero i valori della sinistra e del progressismo (la loro declinazione concreta è uno dei principali temi di dibattito); l’innovazione, sociale e tecnologica che sta «reinventando sia modalità di partecipazione sia modelli di produzione e consumo» e costituisce «la base di una nuova società e di una nuova economia».

L’AREA È SCHIERATA FIANCO del governo giallorosso – in alcuni casi persino dentro l’esecutivo – ma vuole «qualificarne» l’azione in senso ecologista e progressista. L’assemblea online, che si intitola «Il futuro insieme, per una rinascita ecosolidale dell’Italia», è il primo step. Un secondo appuntamento ad ottobre, dopo le regionali – si spera “in presenza”- segnerà un nuovo passo anche organizzativo. Da scegliere: c’è chi preme per un soggetto autonomo, chi per la confluenza in una piattaforma di azione comune. C’è anche chi non c’è: nella lista Leu la componente di Art.1 è ormai impegnata in dialogo sempre più stretto con il Pd.

VENERDÌ I DIVERSI TEMI saranno affrontati prima in singoli tavoli virtuali poi in versione plenaria. Di migranti parleranno fra gli altri Erasmo Palazzotto, deputato di Leu-Si e presidente della Commissione Regeni, Pierfrancesco Majorino, europarlamentare Pd, Cecilia Strada di Mediterranea. Di conversione ecologica l’ex portavoce dei Verdi Grazia Francescato, Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, Sara dei Friday for Future, l’imprenditore Matteo Fago, editore di Left, l’ambientalista Stefano Mancuso. Di lavoro: l’ex ministro Enrico Giovannini, oggi portavoce dell’Alleanza per lo sviluppo sostenibile, Michele De Palma, segretario Fiom, il sociologo Domenico De Masi, Andrea Morniroli del Forum Diseguaglianze e Diversità, Simona Maggiorelli, direttrice Left, il consigliere regionale del Lazio Paolo Ciani, dell’associazione Demos. Si parlerà di città con il senatore Sandro Ruotolo, l’assessore milanese Paolo Limonta, Valerio Tramutoli di Basilicata Possibile, Ciaccheri di Liberare Roma, Emily Clancy della Coalizione Civica Bologna, Carmine Piscopo di Dema e Marta Nalin della Coalizione Civica Padova. Alla plenaria finale parteciperanno fra gli altri il portavoce di Si Nicola Fratoianni, Massimiliano Smeriglio, europarlamentare indipendente nelle liste Pd, Zedda, l’ex ministro Fioramonti, il sottosegretario De Cristofaro, i parlamentari De Petris, La Forgia, Cecconi, Lattanzio, Nugnes, Fattori, gli amministratori Ciaccheri, Anita Pirovano, Alessio Pascucci, Damiano Coletta, Lorenzo Falchi, Nicola Fiorita, Jessica Allegni, Serena Spinelli, e ancora Elisabetta Piccolotti, Marilena Grassadonia e la scrittrice Igiaba Scego.

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Autostrade. L’accordo raggiunto, con un iter complesso ma abbastanza delineato, smentisce quanti, da subito dopo la strage fino a ieri, hanno sostenuto che nulla poteva essere fatto contro le stratosferiche, miliardarie penali che lo Stato sarebbe stato costretto a pagare ai miracolati concessionari

 

Due anni dopo il crollo del ponte Morandi e i 43 morti sul fondo del Polcevera, il nuovo ponte sta per essere inaugurato mentre i responsabili della tragedia (fino a che punto lo dirà il processo) iniziano a imboccare la via d’uscita dalla gestione di Autostrade. Un doppio risultato, con un valore anche simbolico.

L’accordo raggiunto, con un iter complesso ma abbastanza delineato, smentisce quanti, da subito dopo la strage fino a ieri, hanno sostenuto che nulla poteva essere fatto contro le stratosferiche, miliardarie penali che lo Stato sarebbe stato costretto a pagare ai miracolati concessionari.

Scomodando per l’occasione il jolly dello stato di diritto, perché i contratti si rispettano e se il governo avesse tolto di mezzo i Benetton chi mai più dall’estero sarebbe venuto in Italia a investire? Le due parolacce di uso comune nel vocabolario pentastellato, Benetton e revoca, sconsiderate pure provocazioni.

Perché sui giornali non venisse nominata la famiglia dei maglioncini colorati è un mistero di pulcinella, considerate le ottime relazioni degli imprenditori trevigiani con i grandi gruppi editoriali (grandi firme del Corsera nel Cda di Atlantia, manager Gedi idem).

Non scopriamo niente di nuovo ma vale la pena rimarcarlo. (Anche per apprezzare l’inestimabile valore dell’autonomia e indipendenza di queste pagine).

Dunque si profila una public company, con lo stato imprenditore di un’opera di pubblico servizio. Non che questo ci garantisca la qualità del servizio, e in primis la sicurezza delle nostre autostrade. Ma difficilmente potrebbe capitarci qualcosa di peggiore di quel che il paese ha vissuto con il ponte Morandi, e il contratto capestro concesso ai Benetton dai governi sia di centrosinistra che berlusconiani.

Qualche commentatore, di quelli né di destra né di sinistra, indefessi scommettitori sulla posta fissa della crisi di governo, ieri non si rassegnava al punto segnato da palazzo Chigi, paragonando la situazione politica di oggi al momento in cui, regnante Berlusconi, nel 2011, Merkel e Sarkozy ridicolizzarono il barcollante governo del Cavaliere (poi sostituito da Monti).

Con qualche ragione, i 5Stelle rivendicano il ruolo di protagonisti della battaglia, ma l’esito della vicenda può attribuirselo anche il partito di Zingaretti, nonostante i forti mal di pancia nel digerire l’accordo.

Sensibile al capitalismo di relazione, nei confronti del quale ha «usato i guanti bianchi», come diceva Goffredo Bettini in una recente intervista, questa volta il Pd i guanti sembra esserseli tolti.

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Italia veloce. L'approvazione "salvo intese" del "decreto semplificazioni" rischia di riprodurre gli errori del passato, trascurando le esigenze di uno sviluppo sostenibile e green della mobilità e dello spazio urbano

Cantiere Tav, Chiomonte

 

Un elenco lunghissimo di opere definite prioritarie, commissari per sbloccarle, riduzione delle gare e dei pareri ambientali, tanti chilometri di asfalto e pochi di ferro nelle aree urbane. Come venti anni fa, solo che questa volta non si chiama Legge Obiettivo, e Silvio Berlusconi è all’opposizione di un Governo con il Pd e il Movimento Cinque Stelle.

Il panico per la crisi economica e la fretta di sbloccare qualche cantiere, sta producendo conseguenze inimmaginabili. Qual è il senso politico di stravolgere il Codice degli appalti approvato quando Graziano Delrio era al Ministero delle infrastrutture, per tornare a ricette per aggirare le gare come ai tempi di Lunardi e che avevano portato ad arresti per corruzione, ritardi e spreco di denaro pubblico? Nessuno.

E davvero non si comprende come queste ricette possano contribuire a rilanciare il Paese. Nel Piano #Italiaveloce della ministra De Micheli sono previsti circa 3mila chilometri di nuove strade e autostrade: pedemontane in Veneto e Lombardia, Val d’Astico, Tibre, autostrada Cispadana, Pontina, Gronda di Genova, solo per citare le più note. Tutte opere che risalgono ai tempi della Legge Obiettivo, oramai inutili e che potrebbero essere sostituite da alternative ben più sostenibili, ma costosissime a beneficio dei soli concessionari. Soprattutto mancano proprio le opere più urgenti ai tempi del Covid, quelle che riguardano le aree urbane.

Dobbiamo augurarci che questa ennesima approvazione «salvo intese» porti a un risveglio politico nella maggioranza, perché se il nostro Paese è in crisi lo deve proprio alle scelte sbagliate realizzate negli ultimi venti anni. Se le città italiane vivono una condizione ambientale e sociale così difficile la ragione è in una mobilità dove a prevalere sono gli spostamenti in automobile. I ritardi sono storici ma nel frattempo si è continuato nella stessa direzione, visto che dal 2010 ad oggi sono stati inaugurati 275 km di autostrade, 1543 di strade nazionali a fronte di 70 chilometri di metropolitane e 34 km di tram. Mentre si parla di cura del ferro per le città nel 2019 non è stato inaugurato neanche un chilometro di metropolitane.

E ancora, la tesi per cui occorre affidare gli appalti senza gara e stravolgere il codice appalti, perché non starebbe funzionando e rallenta i cantieri, è falsa. Basta leggere le analisi del Cresme sulle gare d’appalto in corso o ascoltare le richieste di costruttori e Sindacati per capire che in realtà il Governo sta seguendo altri interessi, ossia di chi punta a ottenere appalti senza gare e controlli. Ma in una crisi drammatica come quella che stiamo vivendo non è accettabile che si rinunci a correggere le cose che non funzionano – che pure ci sono nelle stazioni appaltanti, nei tempi delle procedure, nelle valutazioni ambientali – abdicando all’idea che l’unica strada per uscire dalla crisi sia questa. Anche perché stavolta un’alternativa credibile esiste, ed è quella di puntare sulle città come cuore del rilancio del Paese.

L’elenco è già negli uffici della ministra De Micheli, sono gli interventi che i Comuni hanno previsto nei Piani urbani della mobilità sostenibile. L’obiettivo è di raddoppiare entro il 2030 i chilometri di piste ciclabili, di realizzare 330 km di tram e 154 km di metropolitane. Inutile aggiungere che queste opere non sono prioritarie e in larga parte non hanno finanziamenti. L’altre grande limite di questo progetto del Governo riguarda il Sud, dove si annuncia l’ennesimo elenco di cantieri ma nulla è previsto per far tornare i treni a circolare. Quando il problema oggi è che tra Bari e Napoli, tra Reggio Calabria e Taranto, tra Potenza e Lecce i treni sono scomparsi.

A proposito di ricette per il rilancio, quei treni che mancano si potrebbero produrre nelle fabbriche dell’ex Ansaldo a Napoli e Reggio Calabria, con l’acciaio proveniente da Taranto. L’augurio è che si apra un dibattito politico vero sulle idee per far ripartire il Paese, magari puntando ad aprire milioni di cantieri, grandi e piccoli, in ogni Comune e su cui costruire l’ossatura della proposta italiana per il green deal da finanziare con risorse europee.

* vicepresidente di Legambiente

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Con l’ultimo consiglio dei ministri il governo arricchisce di un nuovo capitolo la sua politica contro l’emergenza Covid 19: il Programma Nazionale di Riforma (Pnr), la terza parte del Def, posticipata da aprile a luglio per la crisi pandemica.

Il Pnr dovrebbe rappresentare un passaggio fondamentale verso la costruzione della strategia pubblica per rilanciare il paese e l’economia italiana.

Le informazioni fornite dal Pnr sono impressionanti: Pil a -8% nel 2020 (la Ue pronostica -11,2%), disoccupazione all’11,5%, calo dell’occupazione per Unità di Lavoro Equivalenti a -6,5%.

L’Istat ci dice che una azienda su tre potrebbe chiudere.

Un altro dato colpisce: dall’inizio della crisi sono stati già spesi per gli interventi d’emergenza (quasi tutti condivisibili e necessari) ben 179 miliardi, di cui due terzi sono andati in varie forme alle imprese.

Se a queste risorse aggiungiamo, da qui alla fine dell’anno, 172 miliardi del Recovery fund, 39 del Mes, 20 della prossima manovra di fine mese e, presumibilmente, 40 della prossima Legge di Bilancio, ci avviciniamo a quota 500 miliardi: una somma enorme con la quale si può veramente cambiare e rilanciare il paese.

Sarà così? Ancora non è possibile saperlo: tutto dipenderà dai piani che saranno allestiti a settembre (cosi si impegna il Pnr) per avere i 172 miliardi dall’Europa.

Nel frattempo il Pnr ci dice che gli investimenti pubblici salgono dal 2,4 al 3% del Pil (troppo poco), le spese per l’istruzione saliranno dello 0,4% (siamo ancora molto al di sotto della media europea per numero di laureati e riduzione della spesa scolastica), mentre migliori notizie si hanno sull’edilizia scolastica: sono stati già realizzati 6mila interventi in questi mesi e si prospetta un secondo intervento su altri 3mila plessi scolastici, per una spesa di oltre 3 miliardi di euro.

Per la sanità, ancora non c’è una stima complessiva e organica. Molti interventi (soprattutto nel campo della telemedicina, della teleassistenza, delle cartelle elettroniche), ma non troviamo investimenti adeguati sulla medicina territoriale e sulla prevenzione, mentre sempre il PNR ci informa che servirebbero 32 miliardi per adeguare le infrastrutture sanitarie pubbliche del nostro paese: ecco dove bisognerebbe investire.

Sul welfare la promessa di un Family Act e di un Assegno unico per la famiglia dovrà essere riempita di contenuti e misure concrete.

Sulla politica industriale, in particolare sull’industria dell’auto e la siderurgia, si scrivono cose condivisibili (l’impulso alla mobilità sostenibile e all’auto elettrica e alla siderurgia green), ma senza impegni concreti e dettagliati.

Mentre in Germania e in Francia i governi elaborano dei piani pubblici organici per il sostegno dell’automotive, il governo italiano lascia fare alle imprese, che fanno male. La 500 elettrica della Fca ancora deve essere lanciata sul mercato.

Sull’occupazione c’è poco, a parte gli interventi di protezione e tutela sociale, con la Cig e altre misure per il lavoro autonomo.

Nel Pnr viene ricordato che «tra il 2008 e il 2017 il blocco del turnover ha prodotto una riduzione pari al 5,6% del numero dei dipendenti pubblici», con effetti pesanti sulla sanità e l’istruzione. Non ci sono indicazioni su come colmare il gap.

Sulla riforma del fisco c’è solo l’impegno a farla, ma non si dice come: si legge solo che sarà un “fisco equo, semplice e trasparente”. Mancano i criteri di progressività (anzi si prefigura una riduzione delle aliquote) come ci richiama l’art. 53 della Costituzione.

I Sussidi ambientalmente dannosi (Sad) saranno solo «rivisti» e non cancellati o trasformati in Sussidi ambientalmente favorevoli (Saf).

Per converso, è positivo che le ultime 20 pagine del Pnr siano destinate a fare il punto della condizione del nostro paese rispetto alla realizzazione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals-SDGs): emergono molti ritardi del nostro paese sulla parità di genere e l’istruzione, e i dati sulla povertà e le diseguaglianze sono peggiori di molti altri paesi europei.

Sbilanciamoci, intervenendo agli Stati generali del governo ha riaffermato le proposte e l’impianto del documento In salute, giusta, sostenibile, l’Italia che vogliamo: serve una radicale svolta delle politiche pubbliche per il lavoro e il welfare, un nuovo modello di sviluppo sostenibile, la riduzione delle spese militari, la cancellazione delle grandi opere.

Molto di questo non c’è ancora nel Pnr, che pure rappresenta un passo in avanti nella costruzione di una strategia di rilancio del paese.

Ci sono però ancora troppi punti interrogativi e pagine da scrivere, mentre per alcuni settori le misure sono troppo modeste (investimenti pubblici, istruzione, sanità, eccetera) e devono essere notevolmente rafforzate. Poco c’è sulla politica industriale e sulla strategia dell’intervento pubblico.

C’è ancora molto da fare: sicuramente l’autunno rappresenterà un appuntamento decisivo per fare del rilancio del paese qualcosa di più di una promessa.

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