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Il convegno di Italianieuropei. Tre ore di confronto sul «cantiere». Bettini apre a una «rifondazione», ok di Speranza, gelo di Zingaretti

L'incontro di ieri mattina via Zoom con D'Alema, Zingaretti, Bettini, Speranza, Renzi, Amato, Franceschini e Schlein

 

Quattro anni esatti dopo la debacle di Renzi al referendum costituzionale, che fu il massimo punto dello scontro con gli ex Ds, Massimo D’Alema archivia la guerra con l’ex rottamatore. E lo invita al «cantiere della sinistra», evento via Zoom per la presentazione dell’ultimo numero di Italianieuropei dedicato proprio alla ricostruzione del campo progressista dopo due scissioni di fila (2017 Bersani e D’Alema; 2019 Renzi).

Le posizioni da allora non sono molto cambiate, ma la nascita del governo giallorosso e lo stato di salute non buono delle forze di centrosinistra richiedono, dice D’Alema, di voltare pagina. «Ci siamo, c’è vita a sinistra», esordisce nelle sue conclusioni, per poi spiegare che serve una «ristrutturazione di un suolo pieno di edifici cadenti e desueti», perché «l’esperienza del Pd non ha avuto successo, ma sono falliti anche tutti i tentativi di costruire delle realtà significative fuori dal Pd».

DA QUESTA «SOMMA di insuccessi», D’Alema propone di ripartire e al suo appello rispondono tutti i protagonisti: da un padre nobile come Giuliano Amato a Nicola Zingaretti, Roberto Speranza, Dario Franceschini, Goffredo Bettini, Elly Schlein e due intellettuali come Ida Dominijanni e Nadia Urbinati.

Tre ore di discussione per capire che fare dopo la pandemia, in una devastante crisi economica che aumenta le diseguaglianze ma che può essere mitigata dal Recovery Fund (visto come «opportunità» soprattutto da Renzi), in un clima che «ha evidenziato il fallimento del neoliberismo» e rimesso al centro alcuni pilastri della sinistra come i beni pubblici e il welfare. Ma con la palese assenza di un’idea del mondo, di una narrazione, di una «ideologia» che consenta alla sinistra di competere con i sovranisti sul piano dell’identità, del bisogno di protezione dei ceti più deboli e ormai anche di larga parte dei ceti medi.

Una ideologia che permetta ai progressisti di vivere «oltre le singole esperienze di governo», dice Urbinati, «di portare lo sguardo più in là verso una proposta di società in grado di riformare il capitalismo», le fa eco Bettini. Perché «senza un senso di appartenenza, senza la capacità di comporre le tante identità di una società liquida», ricorda Amato, «le politiche non penetrano nella società».

SULLO SFONDO I VENTI DI CRISI nel governo e soprattutto il rapporto con il M5S, che Franceschini definisce «alleanza inesorabile se si vuole governare», sostenuto da Speranza «con loro una relazione non episodica».

Ma il punto vero della discussione è la forma, l’abito per quella che Bettini chiama «rifondazione di una forza più ampia». «Per la prima volta da anni siamo a favore di vento», dice Speranza, «ma le forze che ci sono oggi non bastano, dobbiamo metterci tutti in discussione in un processo più largo e aperto».

D’Alema è il più chiaro nel dire che «serve una nuova forza politica con un progetto di riforma del capitalismo che renda possibile il contenimento delle diseguaglianze e la tutela dell’ambiente». «Bisogna dare una forza politica a quel 30% di italiani che avrebbero bisogno di un grande partito di sinistra». E ammette: «In passato per puntare al 50% abbiamo pensato che fosse necessario appannare la nostra identità, e così ci siamo persi anche il 30%…». Un partito non leggero, dice l’ex premier, «non somma di comitati elettorali», perché «solo i partiti hanno saputo connettere elite e popolo».

CON RENZI SCAMBIO GARBATO sul centro, con il primo a esultare per la vittoria del moderato Biden e D’Alema a ricordare che «quel centro lo inseguimmo anche noi, ma oggi la crisi ha radicalizzato la società». E tuttavia, per il leader Massimo, nel nuovo centrosinistra che deve essere «un campo largo» c’è posto per «culture diverse, per posizioni anche distanti». L’importante, sottolinea Bettini, è partire.

Non a caso Zingaretti di tutto questo non parla, e resta concentrato sulla sfida di dare un’anima al Recovery Plan, visto come antidoto espansivo alle sirene populiste, e soprattutto sul concetto che «non dobbiamo tornare alla normalità di prima del Covid che era inaccettabile» in un’Italia «ferma e piena di diseguaglianze e burocrazia». Di qui l’invito a Conte «a non tirare a campare» ma «ad essere efficaci». «La scintilla deve essere la necessità di costruire un nuovo e diverso equilibrio», dice il leader Pd e avverte: «No a ingegnerie organizzative».

ANCHE SCHLEIN VEDE tutte le difficoltà della ricostruzione, in particolare dove c’era la sinistra radicale e gli ecologisti e oggi «ci sono più sigle che elettori». «Dobbiamo cambiare schema», spiega, «ma questo non significa confluire nel Pd che non si è messo in discussione».

Dopo tre ore le domande restano molto più numerose e grandi delle risposte. Tocca a Dominijanni ricordare ai combattivi protagonisti della mattina che, in ogni caso, «non può essere la nostra generazione a fare questa ricostruzione».

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Il 5 dicembre è la Giornata mondiale del suolo. “Continuiamo a non fare nulla contro il suo consumo -denuncia il prof. Pileri- e oggi Covid-19 ci dà pure una mano a non pensarci, a spostare la questione in fondo all’agenda. Eppure consumo di suolo e pandemia sono imparentati”

Cagliari - © Paolo Pileri
 Nonostante Covid-19 stia monopolizzando e scolorando tutto, il 5 dicembre è la giornata mondiale, e sottolineo mondiale, del suolo. Oggi, la Milano che non si ferma, l’Italia che non si ferma, la politica che non si ferma, la Borsa che non si ferma, la corsa della delivery economy che non si ferma dovrebbero invece fermarsi, abbassare il proprio sguardo a terra e vedere cosa c’è là sotto, umilmente ai loro piedi. C’è la risorsa più fragile e necessaria al mondo: la terra.

Solo con il suolo mangiamo, visto che il 95% del cibo arriva dalla terra senza che ci chieda un affitto o un soldo. Solo con il suolo abbiamo una miglior qualità dell’aria che poi vuol dire anche minor rischio di beccarsi il Covid-19 visto che se l’aria è pessima, è più alta la possibilità di bronchiti che piacciono assai a Covid-19 per farci fuori più alla svelta. Solo con il suolo non affoghiamo visto che assorbe milioni di litri di acqua per ettaro quando non è cementificato. Solo con il suolo libero non aumentiamo la spesa pubblica mentre con quello cementificato mettiamo in tasca debiti pubblici su debiti pubblici. Solo con il suolo troviamo rimedi sanitari inattesi: antibiotici, antivirali, farmaci generici hanno principi attivi che spesso arrivano da funghi, alghe, batteri che vivono in quei 30 centimetri di suolo sotto i nostri piedi.

Insomma, solo con il suolo viviamo. Ma non ce lo diciamo. Non socializziamo la cosa. Il messaggio ancora non passa, visto che il cambiamento di uso del suolo è tra le prime cinque cause al mondo della insostenibilità ovvero dei cambiamenti climatici. E lo è anche in Italia, anche sotto le nostre finestre.
A Roma e Milano vogliono costruire nuovi stadi inutili mangiando suolo. In Sicilia come in Lombardia come in Veneto sono sempre lì a cercare di fare strade e autostrade inutili e mangiano suoli. Il mito abbagliante dell’economia dei pacchi (si dice delivery economy) sta uccidendo gli ultimi piccoli negozi rimasti e intanto si mangia centinaia di campi agricoli per fare i suoi capannoni e far correre i suoi tir. Non abbiamo suolo a sufficienza per mangiare e stiamo cementificando e inquinando quel che rimane, senza scrupoli. Siamo matti.

Forse questa non dovrebbe essere la giornata del suolo, ma una giornata dove ci dicono che siamo dei pazzi che viaggiano a tutta velocità con una benda sugli occhi, senza vedere chi travolgiamo e dove ci schianteremo.
Non so se sia eccesso di fiducia nelle istituzioni e nella politica, o illusione bella e buona e niente di più, o un atto di infinita resistenza, quel che fa sì che, ancora, siamo qui a dire che oggi è una giornata in cui tutto il mondo si deve fermare a pensare al suolo e chiede ai suoi calpestatori di smetterla, di pentirsi. Io chiuderei le Borse, le sale bingo e le piattaforme online come segno di rispetto davanti al suolo. Ma qui non si chiude neppur un vicolo.

Mi viene in mente la vedova Schifani che nel 1992 piangeva nella cattedrale di Palermo tentando di dire parole difficili rivolte a quei luridi mafiosi che avevano ucciso Falcone, la moglie e gli agenti di scorta, tra cui suo marito. Leggeva un testo dove chiedeva a quei mafiosi di pentirsi e di fermarsi. Ma poi, piangendo e singhiozzando, con parole sue diceva a tutti “ma tanto loro non si fermano. Non si pentono”. Chi di noi vide quelle immagini in diretta ricorda bene la scena. I testi formali da una parte, le parole di verità disilluse dall’altra. Io avevo 25 anni all’epoca e piansi altre lacrime oltre a quelle per l’attentato e i morti. La vedova Schifani era l’Italia turrita che si accartocciava su se stessa dicendo tra le lacrime che quelli non si sarebbero fermati. Un’Italia che cerca braccia che la sorreggano. Oggi siamo più o meno come in quel giorno funereo. Anzi peggio.

Il suolo italico, come lo chiamava Luigi Einaudi, è agonizzante ma non ci sono braccia a sorreggerlo perché non stiamo celebrando nessun funerale visto che continuiamo a consumare suolo in questo Paese (e non sta diminuendo: due metri quadrati al secondo da tre anni a questa parte) senza averne sostanzialmente bisogno e senza avere neppure un minimo dubbio di fare una cosa inutile, sbagliata, grave e che inchioda le prossime generazioni alla povertà e al conflitto. Figuriamoci se ci mettiamo ad ascoltare il suolo, se anche noi ci pentiamo, se ci fermiamo. Continuiamo a partorire leggi imperfette e forse appositamente incapaci di fermare il consumo di suolo, continuiamo a non parlarne nelle Università quanto si dovrebbe, continuiamo a pensare prima ai compromessi e poi alle soluzioni, continuiamo ad avere un Parlamento che non ne parla, continuiamo a dire che sono le bombe d’acqua a uccidere quando invece quei morti sono omicidi climatici di cui siamo complici quantomeno, continuiamo ad avere politici che neppur sanno cosa è il suolo eppure amministrano con spocchia e approvano trionfalmente piani e grandi opere, continuiamo ad avere urbanisti e tecnici pubblici e privati che infilano nei piani urbanistici modi furbi per consumare come prima, continuiamo a inquinare i suoli agrari con una agricoltura tossica, e via di questo passo.

Più che usarlo il suolo lo usuriamo. In buona sostanza, continuiamo a non fare nulla e oggi Covid-19 ci dà pure una mano a non pensarci, a ficcare questa questione ai piani bassi dell’agenda pubblica, a dire che ci sono cose più gravi da affrontare così da assolverci prima del tempo, prima di capire che consumo di suolo e Covid-19 sono imparentati. E così, nonostante il 5 dicembre in memoria del suolo, ho il sospetto che non succederà nulla. Ma spero di sbagliarmi e quindi che accada qualcosa. Ma non per fare la solita lezioncina ai nostri bambini a scuola: “Sappiate che il suolo è importante e i lombrichi pure”. Loro lo sanno e ridono quando noi riduciamo tutto a lombrichi e talpe. Loro sanno che il suolo è un grande ammortizzatore dei cambiamenti climatici. Sanno che dal suolo dipende il futuro. Sanno che è fragile, non rinnovabile e non resiliente. Siamo noi a infischiarcene. Queste giornate non sono fatte solo per i bambini, ma per i presidenti di Regione, i sindaci, i parlamentari, i ministri, il presidente del consiglio e perfino il presidente della Repubblica: perché dicano qualcosa sul suolo. Ricordiamoci il principio delle responsabilità differenziate. Vale anche qui.

Chi governa, chi è influente, chi è ascoltato non ha le medesime responsabilità di chi è governato. Ha anche “presa” sulle persone. Ecco che allora speriamo di ascoltare qualcosina, magari non alle tre di notte, ma possibilmente in prima serata, a reti unificate. Qualcosa che restituisca dignità alla terra, che ci sproni tutti a conoscerla e rispettarla, che faccia capire che da quelle zolle dipendiamo, che responsabilizzi il più piccolo sindaco d’Italia a non essere indifferente, che spieghi che dobbiamo occuparcene tutti innanzitutto parlandone, che faccia venire voglia di cambiare le leggi. Chissà se questo accadrà o se invece il tappeto spesso e polveroso di Covid-19 (insieme alla cozza della solita economia predona) sarà la grande scusa pronta all’uso per non dire nulla (“Con così tante cose brutte, vuoi parlare di suolo?”) e assolvere vip, politici, intellettuali dal fare qualcosa, dal prendersi impegni, dal capire e far capire che il consumo di suolo ci rende più fragili. Chissà.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)

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Didattica a distanza. Intervista alla docente di storia e filosofia Gloria Ghetti del movimento "Priorità alla scuola" che ha protestato tenendo una lezione davanti al suo liceo a Faenza collegata online con i suoi studenti: «Non è stato fatto nulla su medicina scolastica, trasporti e stabilizzazioni dei colleghi precari. Con la Dad gli studenti si spengono e aumenta la dispersione scolastica»

 

Professoressa Gloria Ghetti, lei insegna storia e filosofia al liceo Torricelli Ballardini di Faenza. Perché ha tenuto ieri una lezione davanti all’ingresso della sua scuola mentre i suoi studenti la seguivano online?
Come movimento «Priorità alla scuola» ieri abbiamo organizzato due presidi didattici a Faenza e a Firenze. Chiediamo la riapertura delle classi in sicurezza. Non c’è una ragione oggettiva per chiudere le scuole, non sono luoghi di contagio ma semmai di monitoraggio contro la diffusione del Covid. Nelle scuole abbiamo rispettato tutte le regole e poi le chiudete?

La prof Gloria Ghetti a lezione a Faenza (Ravenna)

 

Su cosa ha tenuto la lezione?

 In questo momento ci stiamo occupando del trattato di Versailles alla fine della prima guerra mondiale. Abbiamo commentato il racconto di Stefan Zweig “Wilson fallisce” dedicato al presidente degli Stati Uniti. È il momento in cui, per stanchezza, Wilson cede, non dice di “No” e mette le basi della seconda guerra mondiale. Chi non sa dire di “No” fa concessioni e non può più fermarsi. Invece la storia è anche il luogo del possibile come ha detto Robert Musil. Mi sembra una riflessione molto attuale sulla nostra storia:  c’è sempre un modo per cambiare la storia. Basta iniziare a dire “No”.

In questo caso il vostro “No” è alla didattica a distanza (Dad) nelle scuole. A parte una parentesi estiva e quella tra settembre e ottobre, per di più in maniera frammentata, insegnate in questa modalità da marzo. Quali sono stati gli effetti che ha visto sugli studenti?
La scuola è uno spazio e un tempo della vita in cui ci si forma e ci si trasforma. Questo vale sia per gli studenti che per i docenti. È un’esperienza che permette di emanciparsi dalla famiglia e trovare l’altro. Applicando invece la Dad per mesi significa mantiene gli studenti in una condizione di minorità perenne. C’è chi risponde presente e poi si rimette a letto. C’è chi esce di casa. Durante il lockdown la dispersione è aumentata. E ci sono problemi psicologici, educativi e di conoscenza che non si indennizzano con un bonus né con un ristoro. Forse una pizzeria può riaprire, ma davanti a uno schermo i ragazzi si spengono.

Come sta vivendo lei la didattica a distanza?

Come nel racconto di Asimov “Chissà come si divertivano”. Nel 2157  due ragazzi trovano un libro appartenuto ai bisnonni dove si parla della scuola. Si racconta un modo dove c’erano ancora le scuole negli edifici, c’erano i professori che insegnavano in persona. Per questi ragazzi, invece, la scuola aveva tutto un altro significato: i docenti erano macchine adattate a ognuno di loro. Ecco sento questo quando faccio la Dad: come una macchina. Ma questa non è scuola. Di quale interdipendenza saranno capaci i ragazzi educati alla solitudine e senza relazione davanti a uno schermo? Gramsci diceva che la cultura non è possedere un magazzino ben fornito di nozioni ma è la coscienza che si ha del proprio posto nel mondo. Oggi c’è un motivo in più per fare questa scuola. Siamo in un momento decisivo in cui la scuola è il primo luogo dove realizzare la lotta contro le diseguaglianze e l’emarginazione.

Ritiene che il governo abbia fatto il necessario per evitare di tornare a questo punto?
Drammaticamente il governo non ha fatto nulla di quanto ha annunciato. Niente ha fatto per la stabilizzazione dei colleghi precari. C’è stata l’assurdità di un concorso che hanno dovuto interrompere. Se non lo avessero fatto avrebbe prodotto una valanga di ricorsi. Il problema è bloccare la mobilità delle persone per evitare i contagi e tu mandi in giro gli insegnanti? Gli uffici scolastici regionali hanno rifatto le classi con 30 ragazzi come si faceva prima del Covid. Siamo tornati a scuola perché sono stati i presidi, gli insegnanti e il personale ad avere sostenuto il peso di questa emergenza. E poi ci hanno richiuso.

Alcuni esperti ed assessori regionali ritengono che le scuole aumenti i contagi…
Nella mia scuola i positivi si sono contati sulle dita di una mano su più di 1300 persone. La catena del contagio è stata individuata e bloccata subito. In quale altro luogo in Italia si misura la febbre, si fa screening su migliaia di persone come a scuola? La scuola, in questa emergenza, è un luogo di prevenzione, non un pericolo.

Ma cosa non ha funzionato?
I trasporti, la tempestività dei tamponi, la medicina scolastica e il suo collegamento con quella territoriale. Tutto ciò che sta attorno alla scuola, Per questo è inaccettabile chiuderle. È necessario il raddoppiamento dei trasporti. Se non c’è personale, allora si prendano i bus privati. Le risorse ci sono. Lo studente può scendere vicino alla scuola e raggiungerla a piedi. Poi è necessario non ospedalizzare la società. Per questo chiediamo le infermerie e i medici scolastici. La scuola è il luogo migliore per monitorare migliaia di studenti insegnanti genitori e personale. Se il governo dice di stare lavorando per riaprire le scuole allora dovrebbe intervenire molto diversamente. Se c’è un focolaio chiudiamo per il tempo necessario e nella zona indicata, ma non è possibile chiudere tutte le scuole insieme. Rispetto ad altri questo problema non è difficile da risolvere. Queste sono cose programmabili e organizzabili. Purtroppo non è stato fatto niente di tutto questo.

E se alla scadenza del Dpcm, il 4 dicembre, non si tornerà davvero a scuola, cosa farete?
È da maggio che facciamo manifestazioni. Anche se siamo una minoranza stiamo iniziando a capire che il cambiamento non può avvenire maniera tradizionale. Forse può passare dalla disobbedienza civile purché pacifica. È un’idea che possiamo praticare, mantenendo la cautela nei comportamenti. Questo virus ci insegna che nessuno si salva da solo. La soluzione non è la Dad che ci chiude in uno spaventoso isolamento.

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Affari di stato . Malgrado i fallimenti nell’unico compito che dovevano assolvere, il governo del sistema sanitario, le regioni sono riuscite a imporre una autonomia a senso unico

Fontana e De Luca

 

Uno Stato debolissimo. Un presidente della Repubblica inascoltato. Un governo tremebondo. Un parlamento inesistente. Venti regioni contro, a prescindere. Tra le vittime del Covid, impossibile non annoverare l’insieme delle istituzioni costituzionali.

La tragicommedia che ha accompagnato l’approvazione del Dpcm del 3 novembre 2020 – l’ennesimo nel volgere di pochissimi giorni, ma in effetti il primo che prende finalmente atto della seconda ondata e prova a fare da argine – ha reso ineludibile interrogarsi sulla natura degenerata del regionalismo italiano. Difficile immaginare una situazione peggiore. Uno scenario lose-lose, in cui, in piena tempesta pandemica, a perdere in credibilità e capacità d’azione sono contestualmente tutti gli attori in campo: persino la presidenza della Repubblica, inusualmente coinvolta nel vano tentativo di mitigare le bizze regionali.

Non c’è dubbio che il momento sia delicatissimo: la pandemia è fuori controllo, la ripresa economica compromessa, la crisi sociale in atto. Persino la tenuta psicologica dei cittadini è a rischio. Ma è proprio in momenti come questi che la saldezza delle istituzioni si fa risorsa decisiva. Una risorsa sulla quale, in questo momento, non possiamo far conto. E non soltanto per il ridicolo balletto che ha portato le regioni prima a rivendicare autonomia decisionale, poi a pretendere l’intervento dello Stato, quindi a lamentarsi delle misure adottate. Il problema è che tanta irresponsabilità politica non ha trovato argine nel governo, debole al punto da prestarsi ai giochetti dei presidenti regionali.

Che cosa, se non la propria debolezza (istituzionale, ancor prima che politica), ha sinora impedito all’esecutivo statale di mettere in riga le regioni ricorrendo ai poteri sostitutivi che gli sono attribuiti dall’articolo 120, secondo comma, della Costituzione? La norma è chiarissima – «il governo può sostituirsi a organi delle regioni … nel caso di … pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiede la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» -, così come chiarissimo è il pericolo derivante dall’emergenza sanitaria in atto.

E, invece, la soluzione è stata costruire una griglia di parametri, forniti dalle regioni stesse, attraverso cui misurare «oggettivamente» (non sia mai che si possa pensare che il governo intenda assumersi la responsabilità della scelta) la gravità della situazione in ciascuna regione. Insomma: la situazione sanitaria nelle regioni sarà considerata più o meno grave in base ai dati forniti dalle regioni stesse. Un caso da manuale di cattiva regolazione, in cui il controllato è il controllore di se stesso.

Per quanto strabiliante, è un fatto che le regioni possano oggi far affidamento su un surplus di credibilità istituzionale di fronte al quale lo Stato è in soggezione. Sono riuscite a imporre un regionalismo a senso unico, che opera solo quando va a loro vantaggio. E ciò, nonostante i tanti fallimenti nella gestione dell’unico vero compito cui devono assolvere: il governo del sistema sanitario. L’impreparazione con cui le regioni si sono fatte sorprendere dalla seconda ondata è imperdonabile. Come se il dramma della primavera si fosse svolto su un altro pianeta, le criticità di oggi sono le stesse di allora: difficoltà nell’effettuare e processare i tamponi, sistema di tracciamento saltato, assistenza territoriale deficitaria al limite della carenza, Rsa infettate.

Nemmeno sono state capaci di organizzare la campagna di vaccinazione antinfluenzale. Ancor prima, imperdonabile è aver ridotto la sanità a mero problema di costi, subordinando la tutela del più fondamentale dei diritti costituzionali a una logica aziendalista incapace di prendersi realmente cura delle fragilità derivanti dalle malattie.

Per anni ci è stato raccontato che il rafforzamento delle regioni a discapito dello Stato avrebbe avuto la virtuosa conseguenza di avvicinare le istituzioni ai cittadini. Le avrebbe rese più attente ai loro bisogni e più controllabili. Avrebbe innescato una competizione virtuosa, da cui sarebbe scaturita l’efficienza che sempre è mancata alle istituzioni statali.

Abbiamo rifiutato di riconoscere che stavamo, in realtà, dando vita a una competizione tra diseguali, a tutto vantaggio dei più forti (il recente caso che ha investito la sanità calabrese ne è l’ennesima conferma), e abbiamo voltato la testa quando la vicinanza ai cittadini si è tradotta – com’era prevedibile – in permeabilità alle pratiche della peggiore malapolitica, sino alla corruzione dei vertici di alcune delle più importanti regioni italiane.

Come se niente fosse, e come già accaduto con la riforma del Titolo V nel 2001, il Pd si è lanciato all’inseguimento della destra, facendosi fautore del pericoloso progetto dell’autonomia differenziata, volto a ulteriormente rafforzare il regionalismo e a legittimare la falsa retorica del residuo fiscale.Incredibile che il progetto sia ancora sul tavolo del ministro per gli Affari regionali e che nemmeno la pandemia lo abbia indotto a metterlo da parte.

È ora di dire basta. Spinto al limite del federalismo, il regionalismo ha peggiorato lo Stato senza migliorare le regioni. E, attraverso l’intreccio delle competenze, ha complicato e indebolito il sistema costituzionale oltre ogni ragionevolezza. Invertire la rotta è diventato ineludibile.

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intervista di Stefano Caselli su "Il Fatto quotidiano" del 28/10

“Piazze tragiche: unico orizzonte, la ragion propria”

 

"Sono piazze tragiche, nel senso letterario del termine, perché sono espressione di situazioni nelle quali non si può scegliere tra un bene e un male, tra una soluzione positiva e una negativa. Nelle tragedie, purtroppo, si sceglie sempre tra due mali". Marco Revelli, torinese, sociologo, di piazze ne ha viste tante, ma mai (o quasi) come quelle andate in scena lunedì sera: “Possiamo dire – sospira – di essere definitivamente fuori dal Novecento”.

 

Professor Revelli, cosa ci dicono queste “rivolte”?

Sono manifestazioni abbastanza diverse a seconda delle città, ma emergono due protagonisti: i primi, chiamiamoli esercenti, sono espressione di un’estrema fragilità sociale che ormai colpisce anche categorie apparentemente benestanti e che ha forse un precedente nel movimento dei Forconi del 2013. Non sono state manifestazioni di poveri, semmai di impoveriti, colpiti dalla prima ondata del virus e atterriti dall’idea di precipitare definitivamente con la seconda. Il nostro sistema economico e sociale era già gravemente malato prima, la pandemia ha solo portato in superficie il morbo. Poi ci sono gli altri, i protagonisti dei disordini, per certi versi simili ai Gilet gialli francesi, generalmente provenienti dalle periferie, ragazzotti che normalmente nel weekend fanno lo struscio di fronte alle vetrine degli oggetti del desiderio, scesi in piazza con una logica da riot americani, da una parte per esprimere rabbia, dall’altra per soddisfare desideri, come le immagini dell’assalto all’atelier Gucci dimostrano.

 

Perché parla di uscita definitiva dal XX secolo?

Siamo di fronte al prodotto di classi sociali in decomposizione, attraversate da un forte risentimento e invidia sociale: la pancia della nostra società è un serbatoio esplosivo di rancore e mancanza di speranza. La logica è da guerra di tutti contro tutti.

 

Con quale obiettivo?

Ogni protagonista di queste proteste vede solo le proprie ragioni – anche valide per carità ma la mediazione tra le proprie sofferenze e le sofferenze generali non compare mai. È una caduta di orizzonte.

 

Sono piazza di destra?

Sono molto esposte a tentativi egemonici di destra, che nel tutti contro tutti sguazza molto meglio di chi ragiona in termini di giustizia sociale ed eguaglianza, ma attenzione a liquidare il tutto come fascisteria delinquenziale, sarebbe un inutile esorcismo. Certo, ci sono gli ultras delle curve, ma preoccupiamoci del fatto che queste persone avvertano con chiarezza che esistono momenti di rabbia generalizzata in cui sanno di avere campo libero e molte orecchie pronte ad ascoltarli.

 

Qual è il nemico numero uno?

Il cosiddetto decisore pubblico, come se chi governa avesse ora a disposizione decisioni in grado di risolvere i loro problemi. Ma purtroppo non ce li ha. Siamo in una condizione tragica, e nella tragedia c’è sempre un fatto che si compie rispetto al quale il comportamento degli uomini è destinato alla sconfitta. Si paga per propria colpa e di colpe ne abbiamo tante – alcuni di più, altri di meno –. Il nemico dovrebbe essere il modello di vita e di organizzazione economica che abbiamo costruito negli ultimi 30 anni, ma con il virus alle calcagna sono inutili elucubrazioni.

 

È possibile un dialogo?

Il dialogo richiederebbe di condurre a ragione le questioni, ma non mi pare sia questo il caso. La decisione politica in situazioni come queste (riaprire per non danneggiare, ma rischiare di aggravare l’epidemia) è destinata a sbagliare sempre e comunque.

 

 

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