L'analisi. La fondazione Di Vittorio (Cgil): a ottobre record di precari: tre milioni e 67 mila. Dopo vent'anni di controriforme neoliberali la crescita del Prodotto interno lordo macina record su record e precarizza milioni di persone. Lo sciopero di domani indetto da Cgil e Uil evoca modifiche a una struttura consolidata dal Jobs Act di Renzi e del Pd. Servirà una duratura, e non scontata, disponibilità alla lotta per cambiare una situazione che va bene al governo Draghi e alla sua maggioranza Frankenstein
Una differenza essenziale © LaPresse
Se una «piena occupazione»esisterà in Italia sarà una piena occupazione precaria per almeno un terzo degli occupati che passano la vita alla ricerca di un lavoro povero, intermittente, pagato con salari da fame. Su questo modello è costruito il rimbalzo tecnico del prodotto interno lordo (Pil) del 6,2% dopo il crollo dell’8,9% provocato dalle quarantene per contenere la diffusione del Covid nel 2020. Questa è una caratteristica strutturale dell’economia italiana preparata da almeno vent’anni di controriforme neoliberali e perfezionata dal Jobs Act di Renzi e del Pd tra il 2014 e il 2016.
Ieri è stata di nuovo analizzata e confermata da «Il lavoro tra forte precarietà, contratti brevi e bassi salari», una ricerca della Fondazione Di Vittorio (Cgil). Solo gli occupati a termine, ormai oltre i 3 milioni, hanno superato il livello pre-pandemia e si avvicinano ai livelli più alti mai registrati prima. E all’appello mancano ancora quasi 200 mila gli occupati rispetto al periodo pre-pandemico. Arriveranno, prima o poi, e saranno anche loro, di nuovo, precari.
Nello studio si osserva come nel terzo trimestre del 2021, a fronte di una forte crescita del PIL (+2,6 sul trimestre precedente e +3,9% sul terzo trimestre 2020), l’incremento dell’occupazione sia molto più contenuto (+0,5% l’aumento congiunturale e +1,7% quello tendenziale). L’aumento tendenziale del numero di occupati registrato nel terzo trimestre 2021 (+374 mila) è il risultato di un incremento degli occupati dipendenti (+470 mila, di cui il 75,7% è a termine) e di un’ulteriore diminuzione degli occupati indipendenti (-96 mila). La variazione tendenziale osservata nel numero di dipendenti è evidentemente molto diversa tra i permanenti, che segnano un magro +0,8%, e quelli a termine, che registrano un considerevole +13,4%.
Tra dipendenti a tempo determinato e i part-time involontari, disoccupati sostanziali e censiti, inattivi il totale di chi si trova ai margini della cittadella del lavoro salariato è impressionante: quasi 9 milioni di persone. Questo è il motore della «crescita» che aumenta il Pil e precarizza milioni di persone. Per una crescita diversa, che si vorrebbe orientata verso la «transizione ecologica», servirebbero «misure di contrasto alla precarietà» osserva la segretaria confederale Cgil, Tania Scacchetti. Di tutto questo, fino a oggi, non c’è nemmeno l’ombra.
Lo sciopero di domani di Cgil e Uil è arrivato dopo avere constatato che né la legge di bilancio, né il piano di «ripresa e resilienza» (Pnrr) intaccano questa struttura. E il restyling dell’Irpef da 7 miliardi appaltato ai partiti della maggioranza Frankenstein avrà un impatto regressivo e premierà più i redditi medio-alti, non quelli bassi del ceto medio. «In un’Italia con salari mediamente più bassi che nelle principali economie dell’Eurozona, gli under 35 e le donne sono sotto la media salariale generale e contribuiscono in modo maggioritario a ingrossare l’area del lavoro povero – ha detto il presidente della Fondazione Di Vittorio Fulvio Fammoni – L’86,2% dei lavoratori si attesta sotto la soglia dei 35 mila euro lordi annui, cioè di quella parte che avrà anche meno benefici dalla prospettata riforma fiscale».
«L’operazione fatta dal governo redistribuisce al contrario, partendo da coloro che prendono di più anziché da coloro che prendono di meno – ha commentato ieri il segretario generale della Cgil Maurizio Landini – Negli ultimi vent’anni c’è’ stato un aumento della precarietà che non ha precedenti. Credo sia necessario ricostruire una cultura politica che rimetta al centro il ruolo del lavoro e il significato di ciò che attraverso il lavoro si fa».
L’impressione è che non basterà uno sciopero, forse tardivo. Il governo ha fatto sapere che non cambierà nulla. Né servirà un altro giro di tavolo (il 20) sulle pensioni per modificare le tendenze di fondo. Servirebbe una duratura, e non scontata, disponibilità alla lotta che è mancata negli anni della grande moderazione salariale, della precarizzazione e del consenso neoliberale