No War. A Roma Ong, studenti, movimenti, sinistre, sindacati. Landini: «Abroghiamo la guerra»
La manifestazione di Roma contro la guerra © LaPresse
Parafrasando Bob Dylan, bisogna essere dei metereologhi per sapere che il vento gelido che spira in questi giorni dalle nostre parti arriva proprio dalla Russia. Ma non bisogna essere esperti di clima, basta essere in piazza San Giovanni, per capire che la brezza siberiana è attenuata dal calore umano delle 50 mila persone che manifestano il loro no alla guerra in Ucraina.
DOPO 24 MESI di pandemia e isolamento sociale, questa gente avrebbe voluto un’altra occasione per ritrovarsi. Ma tant’è: la piazza voluta dalla Rete italiana pace e disarmo è uno spazio pubblico smilitarizzato. La scommessa è che questa manifestazione non venga ridotta a bandierina di testimonianza sulla carta geopolitica delle guerre, che rappresenti una rete di relazioni e mutuo appoggio per resistere alla guerra. «Disarmo, neutralità attiva, stop alle armi, riduzione delle spese militari: con queste le parole il movimento per la pace ritrova in questa piazza», dicono gli organizzatori.
ALLE 13.30, orario prefissato, piazza della Repubblica è già piena. Dunque il corteo si muove dietro lo striscione d’apertura «Europe for peace», accompagnato dalle bandiere della pace, dalle Acli e dalle Ong. A tenerlo c’è anche Maurizio Landini. Dedicando questa manifestazione a Gino Strada, il segretario generale della Cgil alza l’asticella delle ambizioni: «Questo è il momento del coraggio, della responsabilità ma anche dell’utopia – scandisce – L’obiettivo non deve essere solo fermare la guerra, deve essere ancora più alto: la battaglia per un nuovo modello sociale di sviluppo deve assumere l’obiettivo di abrogare la guerra, come è stata abrogata la schiavitù».
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Commenta (0 Commenti)Crisi ucraina. La repressione dei media: chiusi decine di siti e radio, oggi si discute una legge per condannare a 15 anni chi diffonde notizie non ufficiali
Il direttore di radio Ekho Moskvy, Aleksei Venediktov © Getty Images
«Sosteniamo una rapida fine del conflitto armato e la sua risoluzione attraverso un processo di negoziato». È il gigante petrolifero Lukoil il primo a saltare davanti al fuoco finanziario dell’Occidente contro la Russia, e la nota del consiglio di amministrazione resa pubblica quando a Mosca è sera incendia le agenzie di stampa. È il fronte interno della Russia in guerra, un impasto di sanzioni e code in banca, media chiusi o censurati, arresti a migliaia di pacifisti coraggiosi e isolati.
LUKOIL è la principale industria petrolifera del paese, la settimana scorsa aveva una capitalizzazione di Borsa di quasi 74 miliardi di dollari, un po’ meno del pil dell’Uruguay. Ieri alla chiusura di Londra aveva perso il 92,5%, in pratica non esiste più. Come la banca Sberbank (-99,7%), il big dell’oro Polyus (-95,5%) e il gigante dei giganti Gazprom (-93,7%). Il ceo di Lukoil è Vagit Alekperov, un 70enne azero che viene dalla nomenklatura sovietica come Putin. Era già presidente allora e lo è ancora oggi, con 25 miliardi di dollari in tasca. Come per tutti gli oligarchi, sembrava che il suo problema fosse salvare il mega-yacht – il suo Galactica Super Nova, un 70 metri, è stato visto navigare a tutta velocità dalla Spagna verso l’ospitale Montenegro, dove già si affollano molti altri giocattoli russi.
Fuori dal cerchio magico degli oligarchi (e dalle terrificanti conseguenze economiche sui russi), l’altra trincea del fronte interno è quella dei media e dell’opinione pubblica, su cui il Cremlino picchia come un fabbro. Gli eroi disarmati sono quelli di Novaya Gazeta, il coraggioso giornale che fu di Anna Politkovskaia, nato sulla tomba della Pravda e diretto da quasi trent’anni da Dimitri Muratov – che ci ha preso il Nobel per la Pace l’anno scorso. Il primo marzo la Gazeta ha scritto di aver ricevuto 6 diverse ingiunzioni dal temibile regolatore russo Roskomnadzor (non usare le parole guerra, vittime, invasione, fake news eccetera) e di aver chiesto ai sottoscrittori cosa fare: il 94% ha risposto «continuare». E hanno continuato, 550mila copie tre volte a settimana, mentre intorno a loro avveniva un’ecatombe di testate: ieri chiusa la stazione radio Eco di Mosca, come solo nel golpe del ’91, nei giorni scorsi chiusi i siti o le stazioni radio di Current Time, The New Times, Krim.Realii, Taiga.info, Doxa, The Village, Tv Rain, rimosso il materiale “bellico” da Tomsk Tv2, e la fila continua.
PUR TITOLANDO l’editoriale «Sul lavoro in tempo di guerra», alla Gazeta sono quindi costretti a impiegare allusioni, in questo sostenuti dalla storia russa: è il “linguaggio esopico”, quello che lo schiavo greco impiegava per ritrarre i padroni come animali, diventato il rifugio del dissenso politico dai tempi dello zar Alessandro II fino a Michail Bulgakov (ucraino russofono) e al suo celeberrimo Cuore di cane. E quindi i titoli sono «Putin avanza sull’Ucraina, giorno otto», «Esempi di resistenza personale alle bugie», «Ricostruire l’economia con i propri soldi», e avanti così finché si può.
L’altro sito citato ovunque in Occidente è Meduza, un aggregatore di notizie scelte a mano, che ieri ha lanciato un editoriale: «Pubblichiamo mentre siamo ancora in tempo, per segnare l’inizio di un altro sviluppo storico: la Russia ha ufficialmente introdotto la censura di stato». Meduza parla dei 15 anni di galera che oggi il presidente della Duma Vyaceslav Volodin proporrà come legge contro chi diffonde notizie non ufficiali sulla guerra «e commette atti ostili contro il proprio Paese». La pena terrorizza anche Meduza, che ha un vantaggio: è in Lettonia, finanziata dall’ex oligarca Michail Chodorkovski quando uscì dopo dieci anni dalle prigioni di Putin (per truffa, ma Amnesty lo considera un prigioniero di coscienza).
INTANTO l’attendibile “contatore degli arresti” della ong Ovd-Info ieri sera era arrivato a 8.012. E il capo del “Comitato investigativo della Federazione russa” Alexandr Bastrykin ha annunciato la creazione di «gruppi di repressione delle manifestazioni estremiste e terroristiche». La Rai ha scovato un cartone animato diffuso nelle scuole: il piccolo Vanya (russo) strappa il bastone al cattivo Nikola (ucraino) circuito da un tizio in maglietta a stelle e strisce. C’è aria di legge marziale, a Mosca.
Mentre l’Europa spegne siti e ripetitori di RT e Sputnik, media ufficiali del Cremlino – inutile macchia sulla coscienza: sono grotteschi. L’altro giorno Sputnik proponeva nei titoli principali «Operazione di peacekeeping affidata a Berlusconi».
Quasi 400 organizzazioni della società civile e non governative russe hanno hanno sottoscritto un appello al presidente russo Vladimir Putin invitandolo a fermare le ostilità sul territorio dell'Ucraina. Ecco il breve testo e l'elenco dei firmatari
"Ci opponiamo alle azioni militari che il nostro paese sta portando avanti sul territorio dell'Ucraina.
Tutto il nostro lavoro consiste nel lottare per la dignità umana, per salvare delle vite. La guerra è incompatibile con la vita, con la dignità e con i principi fondamentali dell'umanità. La guerra è un disastro umanitario che moltiplica il dolore e la sofferenza. Le sue conseguenze annullano anni di sforzi. Consideriamo inumano l'uso della forza per risolvere i conflitti politici e vi invitiamo a cessare il fuoco e ad avviare i negoziati".
L'elenco dei firmatari aggiornato ad oggi
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Commenta (0 Commenti)Delocalizzazioni. Il gruppo irpino De Feo torna al timone dell'Ortofrutticola del Mugello, con un piano industriale su tre linee produttive. Trasferita invece nel bergamasco, dagli ex proprietari di Italcanditi, la produzione in proprio dei marron glacé. Chiara Torsoli (Flai Cgil): "Un buon accordo, sia per le assunzioni che per la durata dei contratti stagionali. Garantita l'occupazione a Marradi per i cinque anni del piano".
Presidio © Aleandro Biagianti
Dopo due mesi di sciopero e di presidio in pieno inverno davanti allo stabilimento, da lunedì si sono riaperti i cancelli dell’Ortofrutticola del Mugello. Non era scontato, anzi: il 28 dicembre scorso c’era una fabbrica che chiudeva i battenti, per decisione di Italcanditi – e cioè del fondo Investindustrial di Andrea Bonomi – che l’aveva acquistata nel 2020, con l’obiettivo di togliere di mezzo il più pericoloso concorrente nella produzione di marron glacé. Un mercato che in Europa vedeva leader l’Ortofrutticola con il 50% delle vendite, e dietro Italcanditi con il 30%. Ora invece lo stabilimento resterà aperto, e saranno assicurati gli stipendi, per quest’anno e per il 2023, ai sette lavoratori a tempo indeterminato e ai 64 stagionali, in stragrande maggioranza donne.
Cambia di nuovo anche la proprietà: il gruppo irpino De Feo torna dopo due anni al timone dell’Ortofrutticola, con il progetto di un piano industriale di cinque anni che sarà incentrato su tre linee produttive: castagne in retina, snack in doypack, e castagne in latta per la produzione dei marron glacé in pasticceria. Il piano, che ha avuto l’ok di Flai Cgil, di Fai Cisl e degli enti locali, prevede anche di salvaguardare l’approvvigionamento della materia prima, il celebre Marrone del Mugello Igp, in quantità non inferiori a quelle raccolte fino ad ora, e l’ammodernamento degli impianti.
L’acquisto del ramo d’azienda da parte della De Feo non comprende però la lavorazione e la produzione in proprio dei marron glacé. Questa viene trasferita in toto a Pedrengo nel bergamasco, quartier generale di Italcanditi. Un sacrificio necessario per sbloccare una trattativa che era arrivata a un punto morto, e in cui ha avuto un ruolo anche la Regione Toscana, che assicurerà un sostegno logistico al polo industriale. Una mossa necessaria per salvaguardare l’azienda principale di Marradi e una delle poche dell’Alto Mugello, che come ogni comunità montana è sempre alle prese con il rischio di progressivo spopolamento del territorio.
Per i sindacati, che al tavolo di trattativa hanno chiesto e ottenuto garanzie occupazionali, sia in termini di numero di assunzioni che in termini di durata dei contratti degli stagionali, quello raggiunto è un buon accordo: “Di fatto è stata garantita l’occupazione a Marradi per i cinque anni di durata del piano industriale – spiega Chiara Torsoli della Flai Cgil fiorentina – dando il tempo a De Feo di svilupparlo e portarlo a regime. Se ripenso a dicembre, con la chiusura dello stabilimento a un passo, abbiamo fatto, tutte e tutti, un buon lavoro”.
All’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori l’intesa è stata approvata col 95% di sì. “Certo è rimasta un po’ di amarezza fra le operaie – aggiunge Torsoli – per la perdita della lavorazione e produzione dei marron glacé, che negli ultimi anni avevano permesso alla fabbrica di tenere la posizione sul mercato. Ma per loro non sarà un problema adattarsi alle nuove linee produttive, che già conoscono per averle fatte in passato. E’ un accordo raggiunto anche grazie al sostegno del sindaco Triberti e di tutta la cittadinanza, che si è stretta intorno alla fabbrica e a chi ci lavora. Il tavolo in Regione resta comunque aperto, per monitorare il rispetto dei patti”.
Sotto assedio. Per la prima volta Pechino usa la parola «guerra». Wang Yi: «Deploriamo il conflitto in corso e siamo preoccupati per i civili»
È ancora presto per parlare di svolta, ma la telefonata di ieri tra il ministro degli esteri cinese e la sua controparte ucraina segna un momento rilevante nelle vicende diplomatiche collegate alla guerra in corso in Ucraina. La telefonata, avvenuta su richiesta di Kiev, ha portato Wang Yi – che ha tenuto una posizione identica da prima dell’inizio della crisi fino ad oggi – a usare per la prima volta in comunicazioni ufficiali cinesi la parola zhan shi, «guerra» fino ad oggi mai menzionata.
ALTRO ELEMENTO RILEVANTE: la telefonata è stata riportata in modo identico da Cina e Ucraina, un altro segnale importante (di solito, ad esempio in occasione delle chiamate con gli Usa o con paesi europei, le due versioni divergono, perché ciascun governo sceglie di segnalare focus diversi, il più vantaggiosi per i propri interessi).
La Xinhua, come in precedenza aveva fatto Kuleba in una nota ha riportato le parole del ministero degli esteri: «La Cina invita la Russia e l’Ucraina a ricorrere alla negoziazione e sostiene tutti gli sforzi internazionali costruttivi che favoriscano una soluzione politica della questione. La situazione in Ucraina è cambiata drasticamente e la Cina deplora il conflitto tra Mosca e Kiev» sottolineando che Pechino sostiene sempre «il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i Paesi» e che «la sicurezza di un Paese non può essere raggiunta a scapito della sicurezza altrui, così come la sicurezza regionale non può essere ottenuta espandendo blocchi militari». Per questo «la massima priorità è mitigare il più possibile la situazione ed evitare che il conflitto vada fuori controllo».
WANG HA PROSEGUITO sottolineando che la Cina è «estremamente preoccupata» per gli attacchi contro i civili e auspica che il governo ucraino continui a «intraprendere tutte le misure necessarie per garantire la protezione dei connazionali» nel Paese. Kuleba ha replicato definendo «costruttivo» il ruolo svolto dalla Cina nella crisi, auspicando che Pechino continui a lavorare per promuovere la fine delle ostilità, chiedendo a Pechino di sfruttare il livello delle relazioni con Mosca per costringere la Russia a fermare la sua aggressione armata contro il popolo ucraino.
UN PASSO RILEVANTE, che da un lato mette in evidenza la capacità diplomatica di Wang Yi, già utilizzato da Pechino con ruoli di grande importanza in Giappone (era ambasciatore) e con Taiwan, nonché in negoziati delicati come quelli tra Stati Uniti e Corea del Nord (celebre la sua fuga in bagno durante uno degli incontri, lasciando le due delegazioni a gestire un bilaterale anziché un incontro a tre, mediato da Pechino). Conosce bene anche gli Stati Uniti Wang Yi, parla un ottimo inglese e dall’inizio di questa crisi è parso decisamente dialogante sia con l’Unione europea, sia – benché con il consueto metodo piuttosto opaco della Cina – con Washington.
LA MOSSA CONFERMA anche – nonostante la propaganda nazionale continui a indirizzare a senso unico, anti Usa, il dibattito interno – quanto si va osservando nel pianeta Cina dall’inizio della crisi: le parole dei consiglieri ucraini trasmessi dalla televisione di Stato, il messaggio contro la guerra dell’ambasciatore a Kiev, l’appello degli accademici sfuggito per un attimo alla censura e la più generale impostazione proprio di Wang che ha sempre sottolineato la necessità di risolvere la crisi con il ritorno agli accordi di Minsk prima e poi, una volta scoppiata la guerra, con la necessità di sedersi a un tavolo negoziale. Adesso la domanda diventa un’altra: se mai la Cina intercederà davvero, Putin ascolterà i consigli degli «amici» cinesi?
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Scenari . L’Europa sarà sempre più «atlantista», legata agli Stati uniti - e quindi sempre meno euroasiatica - e la Russia sarà spinta nelle braccia di Pechino
Palazzo in fiamme a Kiev © Ap
Quando la polvere della battaglia in Ucraina si diraderà cominceremo a capire come cambierà il mondo. È sul riconoscimento dell’annessione della Crimea e della neutralità ucraina che ieri a Gomel discutevano le delegazioni di Mosca e Kiev mentre i russi bombardavano. Colpendo Kharkiv.
Si tratta ma con la pistola sul tavolo, anche se Putin ha promesso a Macron di risparmiare i civili. Forse assisteremo a una sorta di «deriva» dei continenti, con un’Europa sempre più «atlantista», legata agli Usa – e sempre meno euroasiatica – e con una Russia spinta nelle braccia di Pechino. Una Cina, è bene ricordarlo, che attraverso la Russia convoglia il passaggio del 90% delle sue esportazioni terrestri verso l’Europa.
Da noi intanto questa guerra inaccettabile azzardata da Putin ha fatto il «miracolo»: è riuscita a compattare un’Unione europea sempre più divisa tra Est e Ovest e ha resuscitato una Nato tramortita dal vergognoso ritiro dall’Afghanistan dell’agosto 2021.
Ci sono intanto alcune certezze. La prima è che gli americani, contrariamente a quanto accaduto in Afghanistan, Iraq, Libia e in altre parti del mondo dove volevano esportare la democrazia, questa volta avevano previsto gli eventi, ovvero l’invasione russa dell’Ucraina. E probabilmente avendo previsto gli eventi hanno anche preparato il terreno, sia militare che diplomatico. Difficile credere che l’attuale resistenza ucraina non sia sostenuta da forniture e consiglieri americani, tanto più che Joe Biden nel 2014, da vice-presidente arringava gli ucraini in piazza Maidan mentre Putin si annetteva la Crimea. Arrivò a sostegno del fragile governo ucraino subito dopo la fuga del presidente filorusso Yanukovich.
È stato Joe Biden – con il figlio Hunter coinvolto negli affari energetici ucraini sul gas russo – a portare avanti in quegli anni la politica di avvicinamento dell’Ucraina alla Nato. Voleva togliere potere politico ed economico alla Russia. Il tabù di proclamare la neutralità ucraina – quel che chiede Mosca – porta anche il marchio di Biden.
Aggrappato all’inflessibile mantra atlantico della «porta aperta della Nato», Biden non ha mai inteso risolvere davvero il «bubbone» ucraino, una guerra civile sfociata in un cessate il fuoco e in quegli accordi di Minsk che avrebbero dovuto dare alle repubbliche filorusse del Donbass una rappresentanza in un Parlamento federale. Dal 2014 l’Occidente e l’Europa hanno avuto tutto il tempo – pur evitando scelte affrettate sull’adesione dell’Ucraina a Unione europea e Nato – di negoziare con Mosca e ridurre la dipendenza energetica nei confronti del gas e del petrolio russo, soprattutto da parte di Germania e Italia. Ma non hanno seguito la strada della diplomazia immaginando, in una logica da guerra fredda, che Putin non avrebbe mai mosso guerra all’Ucraina.
La seconda certezza è che oggi l’Europa è sempre più allineata sulle posizioni della Alleanza Atlantica contro la Russia. Mosca voleva meno Nato e con l’operazione in Ucraina se ne trova sempre di più. Tanto è vero che tutti i maggiori Paesi europei hanno mandato armi in Ucraina e truppe negli stati che confinano con la Russia.
Tutto questo avrà delle conseguenze militari, politiche ed economiche. L’America di Biden avrà buon gioco a chiedere agli europei un maggiore contributo finanziario per sostenere l’Alleanza Atlantica finora pagata per l’80 per cento dagli Stati Uniti. Una richiesta fatta da tutti gli ultimi presidenti americani, Obama compreso, che anni fa chiamò gli europei degli “scrocconi” perché per la loro difesa continentale contavano soprattutto sulle risorse degli Stati Uniti. Washington quindi nei prossimi anni venderà agli europei più armamenti, più sicurezza e anche più gas.
Poi c’è il discorso energia e materie prime. La diminuzione delle quote russe di gas e petrolio in questo momento è estremamente complicato: quindi per un certo periodo di tempo continueremo a finanziare Putin, anche se in maniera non ufficiale e sotterranea. La Russia convoglierà gas e petrolio nelle ex repubbliche sovietiche come l’Azerbaijan e prenderemo da lì almeno una parte delle sue forniture. Un modo come un altro per sopravvivere mentre si cercherà di diversificare i fornitori, cosa non facile visto che il gas americano, del Qatar o africano deve essere liquefatto e trasportato sulle navi. Intanto un Paese come l’Italia _ ieri in missione con Di Maio per il gas ad Algeri _ dovrà reinvestire in Libia, cui è legata dal gasdotto Greenstream, cosa non facile e scontata visto che la Libia continua essere un Paese caotico e instabile.
Diventerà sempre più importante il gas offshore del Mediterraneo. Ma senza farsi illusioni. Il mega giacimento egiziano di Zhor, operato da un consorzio partecipato da Eni, servirà soprattutto i bisogni energetici dell’Egitto. Poi c’è il gas nel Mediterraneo orientale, ma anche qui c’è una pericolosa diatriba tra la Turchia, la Grecia e le potenze europee sulle zone economiche esclusive. Senza contare che la stessa Turchia, Paese della Nato, dipende dal gas russo e bisognerà vedere se Erdogan resisterà alle pressioni per tagliare le forniture di Mosca.
La Russia sarà quindi colpita da sanzioni finanziarie, personali e tecnologiche. Le banche russe saranno tagliate fuori dai finanziamenti. È probabile che gli effetti sull’economia russa saranno profondi. Ma è assai improbabile che questo distolga Putin dalla strada scelta. Invece è quasi certo che userà la guerra che ha scatenato in Ucraina come una scusa per spazzare via gli ultimi residui di libertà politica in Russia. Il paese si trasformerà in una dittatura ancora più stringente, il che renderà più facile eliminare qualsiasi dissenso da parte di quei russi scontenti della politica da Putin.
Ma il rischio più grande è che la rottura economica tra la Russia e l’Occidente sia accompagnato dell’espansione del conflitto e comunque da un lunga rottura anche culturale. Il timore più grande del Cremlino infatti non è la vicinanza delle truppe occidentali e dei missili Nato ma confinare con delle democrazie europee che, pur con tutti i loro difetti, rappresentano un polo di fascinazione per un tormentato mondo slavo che la guerra di Putin vorrebbe ricacciare in un Novecento che non passa mai.
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