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A sproposito di Chernobyl e della crisi ucraina si può affermare, sia pure come paradosso, che l’area contaminata di Chernobyl è il luogo più sicuro dove fuggire in caso di invasione russa dell’Ucraina e nello stesso tempo diffondere l’idea che è proprio da lì che potrebbe avvenire? Pare di sì, secondo il brillante articolo di P. Pescali che sul manifesto ha coniugato la crisi ucraina con l’incidente del 1986. Tuttavia per non incorrere in una serie di omissioni gettando ulteriore discredito sui «nemici russi», vale la penna ricordare alcune verità. Tra il 1986 e il 1991, anno in cui secondo l’articolo Mosca scaricò sull’Ucraina il peso insopportabile di Chernobyl, erano successe parecchie cose che è difficile dimenticare.

Nonostante il vergognoso silenzio iniziale sull’entità dell’incidente, l’apparato sovietico si mosse in fretta: in 9 giorni gli elicotteristi dell’aviazione compirono 1400 missioni scaricando sul nocciolo scoperto 5000 t di sabbia, piombo e boro per interrompere il flusso delle radiazioni (la metà degli elicotteristi morì in pochi anni); in 8 mesi furono completati il sarcofago di protezione esterna del reattore e lo scudo termico sotto il reattore (per impedire che la massa fusa penetrasse nel terreno) grazie ad un tunnel scavato dai minatori del Donbass (anche questi decimati); fu completata l’evacuazione di 340.000 persone che abitavano dentro o nei pressi della zona contaminata e fu varato il programma di decontaminazione dell’intera area con l’impiego di unità specializzate delle forze armate, della protezione civile e di 600.000 volontari (i liquidatori) in larga parte provenienti dalla Russia e Bielorussia che operarono una prima e sostanziale bonifica dell’area, a costo di migliaia di vite umane. Questo programma, nelle intenzioni di Gorbaciov, sarebbe stato completato nell’arco di 10 anni con una spesa di 300 miliardi di rubli.

Ma dopo il “crollo del muro” le cose presero un’altra piega: nell’agosto del 1991, con Eltsin presidente della federazione russa, l’Ucraina è la prima repubblica a dichiarare l’indipendenza e a dicembre, dopo il fallito di colpo di stato, Gorbaciov si dimette da presidente dell’Urss lasciando campo libero a Eltsin che archivia il dossier Chernobyl, costringendo l’Ucraina a rivolgersi all’occidente.

Nel 1993 infatti, su iniziativa dei membri del G7, prende il via il piano di messa in sicurezza di Chernobyl che ha visto nascere una vera e propria cittadella tecnologica. Con i finanziamenti della Banca europea per gli investimenti e di quelli di oltre 40 paesi donatori (ad oggi circa 4 miliardi di euro) è stato completato il nuovo shelter (involucro protettivo) del reattore n.4; un impianto per il trattamento dei rifiuti più pericolosi; un impianto di stoccaggio per il combustibile irraggiato di tutti i reattori ucraini, mentre si sta lavorando alla realizzazione di un deposito geologico a cui sono interessati tutti i paesi europei che non sanno dove mettere le loro scorie. E’ nella scia di queste attività, appannaggio di società francesi e statunitensi, che si dispiega l’attivismo della Nato, fino al punto che, nel 2014, dopo che la Westinghouse subentra alla russa Rosatom nella fornitura di combustibile nucleare per i reattori ucraini, un consistente gruppo di “specialisti civili” della Nato si insedia ufficialmente in Ucraina per proteggere questi reattori da eventuali sabotaggi russi.

Da allora la cronaca degli avvenimenti, Maidan, la Crimea e il Donbass, volge rapidamente all’oggi dove le mire della Nato si intrecciano con quelle della Germania che vuole sfruttare il potenziale energetico dell’Ucraina – gas (l’Ucraina di per sé, senza la Russia, ha l’1% delle riserve mondiali e il più grande deposito europeo di stoccaggio per l’anidride carbonica), rinnovabili e nucleare – sia come fonti dirette, sia per produrre idrogeno da importare in casa propria attraverso i gasdotti esistenti, cancellando il Nord Stream2. Robert Habeck, ministro dell’economia e dell’ambiente e principale esponente dei Verdi tedeschi è il più convinto sostenitore di questa strategia che, oltre a introdurre ulteriori elementi di riflessione sull’attuale crisi Ucraina, getta una luce sinistra sullo scenario globale della transizione energetica in termini di accaparramento, costi quel che costi, di risorse naturali indispensabili (minerali strategici) concentrati nell’est del mondo (Cina e Russia) o di sfruttamento di caratteristiche ambientali (sole e vento) per esportare in Europa elettricità e idrogeno verde dal sud del mondo (Africa).

Ammesso e non concesso quindi, che la “comunità scientifica internazionale” sia preoccupata per gli sconvolgimenti dell’ecosistema ucraino nell’eventualità di una invasione russa lato Chernobyl, forse sarebbe il caso di mostrare qualche preoccupazione anche per ciò che lo scenario ucraino prefigura nell’imminente futuro.

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Fuoriclasse. Il quarto atto del movimento studentesco contro l’alternanza con il lavoro e il suo mondo: "Non si può morire di scuola". Nuova giornata di protesta in 40 città in tutto il paese. Tensioni a Torino alla sede di Confindustria. A Palermo occupato il provveditorato: "Le nostre vite valgono più del vostro profitto". A Genova: "In questo sistema di sfruttamento nel peggiore dei casi si muore, nel migliore si è precari a vita". "Vogliamo un altro modello di scuola". Alla scoperta di un nuovo movimento: "Lo stiamo ricostruendo. Pensiamo che più siamo, prima riusciamo a risolvere i problemi". Anche ieri il lavoro ha ucciso tre persone: un pescatore, un operaio e un camionista

Per il quarto venerdì consecutivo un determinato movimento studentesco è tornato in piazza ieri in una quarantina di città da Nord a Sud, da Torino a Milano da Roma a Bari o Palermo, per chiedere l’abolizione dei «Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento» (l’«alternanza scuola lavoro», ndr.) e ricordare Giuseppe Lenoci e Lorenzo Parelli, i due studenti morti a distanza di tre settimane mentre svolgevano progetti di stage in formazione lavoro.

QUESTO MOVIMENTO è in gestazione già dall’ottobre-novembre 2021, quando ci sono stati importanti cortei e,

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Sul filo del rasoio. L’Ucraina è un caso di scuola di Stato corrotto e inefficiente. È solo l’aiuto economico di Banca mondiale, Fondo monetario, Unione Europea e Stati Uniti che ne impedisce il crollo verticale

 L’Ucraina è una sorta di fallimento europeo e atlantista. Al punto che ormai il primo partner commerciale dell’ex repubblica sovietica è la Cina, che in questi giorni si è comprata, approfittando della crisi con la Russia, anche la Borsa di Kiev. L’Unione europea, dopo l’accordo di associazione nel 2017, ha versato nelle casse ucraine aiuti per oltre 5 miliardi di euro e in queste ore ha erogato assistenza finanziaria per 1,2 miliardi. Ma il Paese scivola nelle mani dei cinesi ed è costantemente sull’orlo del collasso.

Nei trent’anni seguiti alla dissoluzione dell’Urss, il Paese ha fatto ancora più passi indietro rispetto agli Stati confinanti. Nel 1992 il reddito medio ucraino era il 90% di quello polacco, attualmente è meno del 40%. All’origine del fallimento uno stato debole e lo strapotere degli oligarchi che genera corruzione.

Washington e Bruxelles faticano a prenderne atto. L’Ucraina passa così da una crisi economica all’altra, con un assetto istituzionale fragile, un’economia debole e una corruzione pervasiva. Questo nonostante riceva aiuti occidentali, economici e militari, dal 2014, l’anno della guerra civile con 14 mila morti, due milioni di profughi e l’annessione russa della Crimea. Ma si continua a guardare il problema ucraino attraverso la lente russa, trascurando le debolezze strutturali di Kiev.

L’Ucraina ha acquistato la propria sovranità solamente dopo l’implosione sovietica. In precedenza il territorio era suddiviso tra gli imperi zarista e austro-ungarico, arrivando all’indipendenza per un breve periodo dopo la fine della prima guerra mondiale, prima di essere incorporata nell’Unione Sovietica.

L’Ucraina post-sovietica si è trovata di fronte al difficile problema di costruire uno Stato e in questo difficile processo sono emerse le divisioni della società ucraina. La religione stessa è un elemento di separazione. La popolazione è a maggioranza ortodossa – l’ortodossia è nata a Kiev – ma esiste una consistente minoranza cattolica di rito greco.

Nel gennaio 2019 il patriarca ecumenico di Constantinopoli, Bartolomeo, primus inter pares fra i capi religiosi ortodossi, ha conferito alla Chiesa ortodossa di Ucraina l’indipendenza autocefala. Questa scelta è stata determinata dalla volontà di ridurre la storica influenza di Mosca e ha creato un’ulteriore divisione tra i fedeli, che devono decidere se obbedire al patriarca ucraino o a quello moscovita.

Il paese è bilingue. La questione linguistica divide la società ed è diventata strumento di lotta politica, soprattutto da parte di quei partiti che vogliono creare un’identità ucraina in opposizione alla parte in cui si parla il russo. Il penultimo presidente, Poroshenko, parla il russo meglio dell’ucraino, mentre l’attuale presidente Zelensky ha lavorato come comico per una tv di lingua russa. Nel 2019 il parlamento ha votato una legge che stabilisce l’ucraino come lingua ufficiale del paese e sostituisce il russo nelle scuole medie in cui prima veniva usato.

Il Paese è diviso anche economicamente: la parte a est del Dnepr è più industrializzata, quella a ovest è storicamente a vocazione agricola. L’Est è il cuore industriale del paese in cui vengono prodotti acciaio, armi, auto e prodotti aereospaziali. È la zona della prima industrializzazione in epoca zarista sulla quale si è innestata quella successiva sovietica. La capitale Kiev è il maggior centro di produzione terziaria del paese, dove hanno sede imprese del settore aereonautico, energetico (Naftohaz) e telefonico (Kyivstar).

Ma chi governa l’Ucraina? Riposta semplice e brutale: gli oligarchi, in maniera più o meno diretta. Gli oligarchi hanno formato una rete di imprese e attività disparate acquisendo un enorme potere. Qualunque presidente e primo ministro ucraino è sempre stato dipendente dagli interessi e dall’influenza dei vari Akhmetov, Firtash, Kolomojsky, Medvedchuk, Poroshenko, Tymoshenko. Gli ultimi due – il primo come presidente, la seconda come premier – hanno direttamente governato il paese. Non si è dunque formata una classe dirigente in grado di definire gli interessi nazionali e controllare i potentati economici.

L’Ucraina è un caso di scuola di Stato corrotto e inefficiente. È solo l’aiuto economico di Banca mondiale, Fondo monetario, Unione Europea e Stati Uniti che ne impedisce il crollo verticale. La Ue ha erogato 5 miliardi di euro, il Fondo un prestito da 17 miliardi, ma questi soldi o sono stati spesi male oppure neppure sono arrivati per l’incapacità di gestione dei governi di Kiev. Nonostante i tentativi di combattere la corruzione, la situazione non è migliorata. Anzi, sembra sia addirittura aumentata dopo l’elezione di Zelenskj.

L’Ucraina è il simbolo di un cattivo affare dell’atlantismo. C’erano due obiettivi. Uno: con gli aiuti militari e finanziari occidentali, era contenere la Russia e dissuaderla dal sostenere le repubbliche autoproclamate del Donbass e di Luhansk (che la Duma di Mosca vorrebbe riconoscere). Il secondo era ideologico: costruire in Ucraina uno Stato a imitazione del sistema occidentale, con l’ovvia conseguenza dell’adesione alla Nato. È però evidente che l’Ucraina non sarà ammessa nella Nato perché questo significherebbe uno scontro armato con la Russia.

L’Europa dovrebbe chiedersi qual è il vero stato dell’economia e della società ucraine, abbandonando il pregiudizio che tutto quello che non funziona è determinato dalla pressione russa. La crisi non può essere risolta senza un’intesa tra Russia e Ucraina, a sua volta parte di un più ampio accordo tra Mosca e l’Occidente. Si possono cambiare molte cose di un Paese, non la sua geografia.

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La legge del profitto. Gli anziani, i più colpiti dal Covid, restano rinchiusi nelle Rsa private, che rimangono intoccabili, ma scompaiono assistenza domiciliare e medicina territoriale

La vicenda della piccola Ginevra, morta di Covid-19 a due anni perché in tutta la Calabria non esistono ospedali con terapie intensive per i bambini, è solo l’ultima delle tristi e sconcertanti storie di malasanità. Passata l’emozione del momento si tende a dimenticare. Sarebbe utile, tuttavia, interrogarci su cosa, durante l’emergenza pandemica, non ha funzionato. Covid-19 si è abbattuto sul nostro paese trovando davanti a sé un servizio sanitario nazionale (Ssn) sfaldato e inefficiente. Fin dagli anni Ottanta del secolo scorso aveva cominciato a perdere il suo carattere pubblico e nazionale, alla ricerca affannosa di un modello aziendalistico e regionalista. All’urto della pandemia, il sistema sanitario – comprese le «eccellenze» lombardo-venete ed emiliano-romagnole – non ha retto.
Sono venuti al pettine difetti e disfunzioni gravi. È venuta alla luce la fragilità di un Ssn ruotante intorno agli ospedali e sguarnito di servizi sul territorio. È stato svelato il bluff che si nasconde dietro l’ideologia (liberista) dell’efficienza, della concorrenza e dei minori costi. Il disastro è testimoniato dal numero dei morti, dai malati con altre e gravi patologie senza cure, dal calo dell’aspettativa di vita.
Governo, partiti, presidenti di regione fanno finta di niente. Non danno segni di ravvedimento. Anzi, non vedono l’ora di tornare alla «normalità». Gli occhi sono puntati sulle risorse che il Pnrr mette a disposizione della sanità. Nessuno che si preoccupi di cambiare il management, correggendo una gestione imperniata sulle convenzioni pubblico-privato. Centro-destra e centro- sinistra concordano in una politica che di fatto asseconda gli interessi privati. Ai laboratori e alle cliniche private viene assicurata la polpa, cioè le attività sanitarie più redditizie. Al pubblico, spogliato e impoverito, viene dato l’osso, una funzione residuale.
La circolazione del virus si è indebolita, ma i suoi effetti li sentiremo a lungo. Sindemia è un termine con cui si indica lo stretto legame tra pandemia e crisi sociale e ambientale. Sul piano sanitario gli anziani sono quelli che hanno sofferto di più. In questi due anni ci siamo sentiti vicini all’infelicità e alla sofferenza dei vecchi, rinchiusi nelle Rsa, lasciati morire in solitudine. Ma la commozione popolare e le stesse inchieste giudiziarie non

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Governo. Vertice a palazzo Chigi con Descalzi dell’Eni per preparare il Cdm. Intanto Patuanelli rilancia lo scostamento. Il premier e Franco avrebbero trovato 7 miliardi. Previsto l’aumento della produzione di gas

 

Il ministro dell'Economia Daniele Franco e il presidente del Consiglio Mario Draghi  © Foto LaPresse

A palazzo Chigi c’è un vero e proprio affollamento. Ci sono i ministri dell’Economia Franco, e quello della Transizione Cingolani con il sottosegretario Garofoli e di fronte a loro l’ad di Eni Claudio Descalzi. Arriva anche il Ragioniere generale dello Stato Mazzotta, spuntano i ministro Orlando e Giorgetti. Alla fine, di ritorno dal Gran Sasso e in procinto di partire per Parigi, si trattiene per qualche ora lo stesso Draghi. Sembra un gabinetto di guerra e lo è. La corsa delle bollette sembra fuori di controllo. Gli aumenti saranno nell’ordine del 131% sull’elettricità, del 94% sul gas. A Milano un hotel ha visto lievitare la bolletta da circa 11mila e circa 50mila euro e la Lega ha perso la calma. Per fare l’elenco delle associazioni che protestano e reclamano un «intervento drastico» ci vorrebbe un elenco lungo quanto quello del telefono. L’intervento arriverà domani, col decreto che il cdm si accinge a varare. Se sarà sufficientemente drastico lo diranno solo le cifre snocciolate domani e poi i fatti.

PER QUANTO RIGUARDA il capitolo più strutturale, non limitato alla contingenza della prossima bolletta, almeno i titoli sono già certi. Bisognerà raddoppiare la produzione di gas italiano, per poi rivenderlo alle aziende che ne hanno più bisogno ma a prezzo calmierato. È un intervento tutt’altro che semplice perché bisognerà riattivare pozzi e aprire nuovi impianti. Contemporaneamente dovrebbe essere decisa una accelerazione netta sul fronte delle rinnovabili ma politicamente le due strade sono difficilmente conciliabili. Tirano in direzione opposta, anche per le inevitabili ricadute sul corposo capitolo del Pnrr dedicato alla transizione ecologica e sulle scelte strategiche conseguenti.

IL CAPITOLO PIÙ SPINOSO però è il sostegno immediato. La cifra da mettere in campo è ancora ballerina. Potrebbe arrivare a 7 mld e non basterebbero, comunque al momento non ci sono. Ecco perché il ministro 5S torna alla carica e chiede quello scostamento di bilancio che Draghi è fermamente deciso a negare: «Meglio fare debito che condannare le aziende al fallimento». Patuanelli è il solo a pronunciare la formula che per Chigi e il Mef equivale a una bestemmia. Non è detto che sia anche il solo a pensarci però. Il pressing della Lega, che martella per «passare dalle parole ai fatti», potrebbe andare nella stessa direzione se lo stanziamento si rivelasse domani inferiore alle aspettative. Ma Draghi resiste e resisterà. Anche perché probabilmente sa già che uno scostamento si renderà inevitabile in giugno, con la Nota di aggiornamento al Def, quando il problema bollette si ripresenterà altrettanto se non più grave.

GLI INTERVENTI POSSIBILI, dal punto dei vista dei ristori, sono una nuova sterilizzazione degli oneri di sistema sull’elettricità, la riduzione al 5% dell’Iva sul gas, l’ampliamento della platea che gode dei bonus, per il momento limitata a circa 3mln di famiglie in base all’Isee. In campo c’è anche la proposta di spostare gli oneri dalla bolletta alla fiscalità generale ma se anche verrà presa in considerazione sarà per i prossimi mesi e non domani.

Non sembra probabile che domani il governo affronti anche il nodo Superbonus, non ancora risolto. I partiti insistono per sbloccare la cessione del credito ma l’accordo ora è a portata di mano. Salvini reclama il ritorno a ulteriori cessioni dopo la prima. Aggiunge però «purché a soggetti vigilati da Bankitalia, a società del medesimo gruppo insieme a nuove misure per la tracciabilità dei crediti». Precisamente il modello che hanno in mente Draghi e Franco.

 

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Giustizia. Il presidente della Corte costituzionale spiega eccezionalmente le decisioni sui quesiti: ammessi solo cinque sulla giustizia. Spaccheranno la maggioranza e due potrebbero essere superati dalla riforma Cartabia del Csm e dell'ordinamento giudiziario. Caccia al quorum, il governo potrebbe evitare l'abbinamento con le amministrative

 

Giuliano Amato  © LaPresse

E’ come se l’arbitro di un acceso derby calcistico scendesse in sala stampa un minuto dopo il fischio finale, a spiegare le sue decisioni sui rigori dati e non dati, sul Var e le espulsioni. Professore, giurista, politico, Giuliano Amato non può che interpretare il ruolo di presidente della Corte costituzionale al modo di chi da cinquanta anni è più è un protagonista della scena pubblica. Così si presenta proprio lui per spiegare ai giornalisti (e loro tramite agli elettori) le decisioni della Corte sui referendum. Non sono andate come aveva auspicato quando aveva raccomandato ai colleghi il massimo dell’apertura: tre quesiti su otto la Corte li ha respinti. Le ultime notizie le porta il presidente: «Faccio anche la parte del comunicato», sorride Amato. Così, eccezionalmente, abbiamo un fatto – la non ammissibilità dei referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati e sulla depenalizzazione di alcune condotte legate all’uso personale delle droghe, in aggiunta alla non ammissibilità già comunicata del referendum sull’omicidio del consenziente – e la spiegazione del fatto. Amato si preoccupa

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