È insopportabile che chi si batte per la pace venga accusato di essere imbelle se non complice di Putin, come molti commentatori e urlatori da talk show strepitano in questi giorni
Del pacifismo, nelle sue diverse espressioni e gradi di radicalità, dei suoi limiti e delle sue virtù, si discute da sempre. Neppure le fedi religiose ne sono venute a capo. E se ne continuerà a discutere. Ma non si può certo sopportare che venga sbeffeggiato volgarmente, accusato di essere imbelle se non complice dell’aggressione russa contro l’Ucraina, come molti commentatori e urlatori da talk show strepitano in questi giorni.
D’altro canto è anche improprio accusare di bellicismo e legittimazione della guerra quanti, magari richiamandosi all’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite, quello dedicato al diritto all’autodifesa, ritengono che di fronte a una enorme sproporzione di forze un paese aggredito debba essere sostenuto, anche con la fornitura di armi, per la difesa della sua indipendenza e autodeterminazione. Non è un caso che il movimento tedesco contro la guerra abbia preferito, in diverse occasioni di mobilitazione, aggirare la questione per evitare incolmabili fratture. Tuttavia, il problema non manca di riproporsi.
Se non ci si vuole ispirare al modello di Masada (l’estrema resistenza ebraica contro Roma, finita in un suicidio collettivo) converrebbe dismettere tonalità eroiche e disporsi a forme di resistenza e di conflitto meno suicidarie e alla fine più efficaci e compatibili con il lavoro diplomatico della guerra totale che il precipitoso riarmo dell’Ucraina e l’irresponsabile civettare di Zelensky con la terza guerra mondiale sembrano suggerire. Libertà o morte è una formulazione retorica del tutto irrazionale. I morti non sono liberi ma semplicemente morti. L’antica saggezza dei disertori non smette di ripetercelo, contro la miserabile celebrazione del sacrificio e del sacro suolo
vomitata quotidianamente dai propagandisti dell’una e dell’altra parte.
Se anche, almeno in parte, le fobie del Cremlino stessero in piedi, la strada scelta da Putin per risolvere la controversia, e la terrificante ideologia che la sottende, sono comunque assolutamente inaccettabili e la vastità delle reazioni internazionali del tutto comprensibile. Nondimeno il tema di un ulteriore allargamento dell’Unione europea ad est non può essere sbrigativamente influenzato da una emergenza bellica. In primo luogo per l’impasse in cui versa, in particolare sul suo fianco orientale ma non solo, l’Europa politica, incapace di imporsi sulle derive nazionaliste e autoritarie che dominano nei paesi già appartenuti al blocco sovietico e che potrebbero perfino intensificarsi ed estendersi.
Il precipitare della situazione in Ucraina rafforza la tentazione di considerare l’Unione europea come un ombrello e uno spazio economico sotto il quale le più caparbie sovranità statali possano trovare indisturbato riparo, piuttosto che uno spazio comune nel quale giocare su un piano sovranazionale la partita di un approfondimento della democrazia. Qualcosa di simile a una Nato continentale, arricchita dal finanziamento di riforme economiche liberiste.
Ma la Nato è un’alleanza militare che se ne infischia dello stato di diritto, nata e vissuta sulla base di una concezione che con l’espressione di “mondo libero” intendeva semplicemente il mondo “non comunista” e i paesi indenni da qualunque inclinazione verso il socialismo. Tanto è vero che include tra i suoi membri militari più influenti la Turchia di Erdogan, le cui nostalgie per l’impero ottomano poco differiscono da quelle di Putin per l’impero zarista.
La confusione tra Ue e Nato regna sovrana. Ma se sul piano storico e geopolitico è difficile negare questo intreccio, su quello concettuale la distinzione deve rimanere netta. In caso contrario l’intero progetto politico europeo, che già non gode di buona salute, si ritroverebbe privo di ogni fondamento e di ogni respiro. Non si può dunque rispondere all’impellente richiesta di Kiev di entrare a far parte dell’Unione con argomenti burocraticamente procedurali invece di chiarire che l’adesione alla Ue non può essere l’automatica conseguenza del sostegno giustamente assicurato dall’Europa a un paese vicino aggredito e devastato. I cui futuri assetti politici, presumibilmente segnati da profonde fratture, risentimenti e inimicizie, sono peraltro ben difficili da prevedere. Certo le possibili derive di una lotta per l’indipendenza (nonostante tutte le brutte esperienze cui abbiamo assistito in ogni parte del mondo) non sono una ragione per lesinarle appoggio.
Ma un conto è schierarsi contro l’invasione un altro distribuire patenti di campione della democrazia e della libertà. L’Europa, a maggior ragione nel mezzo di un assetto geopolitico in pieno cambiamento, dovrebbe tenere le sue ragioni ben distinte dalla propaganda di guerra. La corsa a trasformarsi in tempi rapidi in una grande potenza militare (a spese della riconversione energetica) non potrà mai sottrarre il Vecchio continente alla fragilità che gli deriva dall’esiguità del suo spazio geografico e dalla dipendenza del suo sistema economico e industriale dalle fonti energetiche e le materie prime di cui è ricco il resto del mondo. Così è dalla fine degli imperi coloniali. Qualcuno pensa di poter tornare indietro?