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Caso Rai L’asse tra i due partiti è nato con l'approdo dei pentastellati in The left a Bruxelles

Avs-M5s, un patto per bilanciare i dem Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli e Giuseppe Conte

È possibile che dentro le maglie delle regole macchinose che determinano la governance Rai rimanga valido il vecchio assunto secondo il quale ciò che succede a viale Mazzini è un’anticipazione di quello che accade nella scena politica nazionale. Così è legittimo chiedersi: l’asse che ha condotto all’elezione nel consiglio di amministrazione di Roberto Natale (proposto da Avs) e Alessandro Di Majo (sostenuto dal M5S) è destinato a ripetersi anche su larga scala e a riprodurre la propria azione anche dentro l’alleanza tutta da costruire delle forze alternative a Giorgia Meloni? Il primo dato, ineludibile, è che l’intesa tra rossoverdi e 5 Stelle si è prodotta ormai da qualche mese al parlamento europeo, dove Avs (e anche Rifondazione, che fa parte del Partito della Sinistra europea e anche senza eletti ha voce in capitolo) hanno dato il loro assenso all’ingresso dei pentastellati in The Left.

Questo passaggio, dicono da Avs, ha ancorato Conte sul fronte progressista e costruito un innegabile canale di interlocuzione privilegiata tra le due forze politiche. La postura di Avs nei confronti della costituenda alleanza è sempre stata chiara: proposte programmatiche chiare e riconoscibili ma anche impegno unitario. Nicola Fratoianni ha sempre messo davanti l’esigenza di tessere fili comuni e punti programmatici per la coalizione. Conte si è mosso in modo diverso, garantendo la sua collocazione sul fronte del centrosinistra (ciò che costituisce uno dei punti di rottura con Beppe Grillo) ma non perdendo occasione per smarcarsi e sottolineare le differenze coi potenziali compagni di strada.

Tuttavia, più voci concordano nell’indicare che l’asse M5S-Avs è il frutto inevitabile del consolidamento della leadership di Elly Schlein. Con il buon risultato delle Europee, il rafforzamento della sua posizione nel partito e la consacrazione a leader naturale della coalizione venuta da Giorgia Meloni (che l’aveva scelta come interlocutrice per il duello elettorale prima delle europee) e Matteo Renzi (che la considera unica interlocutrice Vera circa il suo ritorno alla casa madre), diventa quasi automatico che le altre due forze rilevanti della coalizione (una data in crescita, l’altra in cerca di rilancio) costituiscano un contrappeso. Non per far saltare la leadership di Schlein (come Conte sperava fino a pochi mesi fa) ma per strappare spazi di agibilità.

Dal M5S, che ha una maggiore dimestichezza con i posizionamenti tattici sulla Rai, quando negano che il voto di ieri sul cda abbia rappresentato un voltafaccia verso il Pd e la sua linea aventiniana non mancano di sottolineare che l’attuale legge è opera del Pd renziano. «Una riforma per smantellare la legge attuale fatta dal Pd quando c’era Renzi non può essere pronta in un mese – spiegano -. Chi dice che il M5S e Avs avrebbero cambiato idea lo fa in maniera strumentale». Anche la presidente della commissione di vigilanza, Barbara Florida, attribuisce l’asse tra M5S e Avs a una scelta di garanzia più che a un disegno politico più generale: «Hanno condiviso un obiettivo fondamentale – sostiene – impedire che ci fosse un cda privo del presidio delle forze di opposizione e che la maggioranza nominasse tutti i consiglieri di amministrazione».

In Avs ammettono che Schlein ha bisogno di una scossa, il tema della guerra ne è un esempio. Secondo la versione che circola, la scelta aventiniana di Schlein era più un modo per sfuggire alle beghe del Pd, e a rischio di restare imbrigliata nelle richieste delle correnti. «Natale garantisce anche il Pd – rivendicano -. C’è spazio per ricucire»

 

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Tele-Meloni Eletti Di Majo e Natale per 5s e rossoverdi; Frangi e Marano per Fdi e Lega. Il Mef indica Rossi e Agnes come ad e presidente. Scontro Conte-Schlein. La leader dem: «Le opposizioni erano unite, qualcuno ha cambiato idea». L’avvocato: siamo lì per vigilare, il Pd faccia l’Aventino per le direzioni e le testate dopo decenni di segno diverso. Fratoianni: abbiamo ottenuto l'avvio della riforma della tv pubblica

Rai, 5s e Avs votano il nuovo cda con le destre. Pd furioso La sede Rai a Roma – Ansa

Peggio di così non poteva finire: con il centrosinistra diviso e avvelenato, la destra compatta e il nuovo cda Rai pronto a dare un’ulteriore stretta a tele-Meloni, con l’arrivo al timone del meloniano Giampaolo Rossi. Ad agosto le opposizioni unite avevano provato a mettere in difficoltà la destre: niente nomina del cda Rai senza una riforma del servizio pubblico che recepisca le indicazioni Del Media freedom Act europeo.

UNA BARRICATA CHE HA tenuto fino a un paio di settimane fa, quando era stata la destra a imporre un rinvio per le proprie divisioni interne. Negli ultimi giorni il fronte di centrosinistra si è sgretolato, con Conte che per primo si è detto disponibile a procedere alle nomine: e così ieri M5S e Avs hanno partecipato alle votazioni sui 4 membri del cda di nomina parlamentare, ottenendone due (la conferma di Alessandro di Majo per i 5S, per i rossoverdi entra l’ex Fnsi Roberto Natale), mentre il Pd, con Azione e Iv, ha confermato la linea dura.

PER LA DESTRA BOTTINO pieno: ha eletto l’ex direttore di Rai2 Antonio Marano (quota Lega) e Federica Frangi (già a Porta a porta e poi un passaggio nell’ufficio stampa di Fdi). Mentre il ministero dell’Economia ha completato la squadra con le due nomine più pesanti: Gianpaolo Rossi, amministratore delegato in pectore e Simona Agnes, designata in quota Fi come presidente della tv pubblica ma ancora sub iudice, visto che deve ottenere il voto dei due terzi della commissione di Vigilanza. Fi Italia sta lavorando per trovarle i voti, per palazzo Chigi non c’è particolare fretta: se non li troverà il presidente ad interim sarà il più anziano, e cioè Marano, e così anche Salvini avrà ottenuto qualcosa (anche se dalla Lega arriva un pizzino a Meloni: «La riforma Rai è più che mai necessaria»).

PER ORA IL DRAMMA è tutto a sinistra. Per il Pd non c’è solo la solita inaffidabilità di Conte (sui temi Rai più frequente del solito), ma anche lo strappo con i cugini di Avs. «Noi siamo

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Il limite ignoto Zelensky all'Assemblea generale dell'Onu. Alleati scettici sull'ingresso di Kiev nella Nato, Biden non vorrebbe l'escalation con Mosca

Donetsk, un soldato ucraino vicino a un ammasso di bossoli Donetsk, un soldato ucraino vicino a un ammasso di bossoli – Ansa

Nessuno vuole la fine della guerra più di noi» ha dichiarato ieri il presidente ucraino Volodymyr Zelensky dallo scranno del Palazzo di vetro di New York. Ma la pace che il capo di stato ha invocato non è un mero cessate il fuoco, si dovrà trattare di un accordo «giusto e rispettoso dei principi della Carta delle Nazioni unite». In altri termini, Zelensky ha lasciato intendere che il suo Paese non cederà territori a Mosca, non transigerà sulle riparazioni di guerra e non presterà il fianco a un congelamento del conflitto. Questo in teoria, ma la pratica appare assai diversa e oggi, in occasione dell’incontro a porte chiuse con Joe Biden, l’Ucraina dovrà mostrare le carte e chiarire cosa vuole per poter avviare un eventuale negoziato con la Russia.

L’ASSEMBLEA GENERALE dell’Onu è stata monopolizzata ancora una volta dal conflitto in Europa dell’est e Zelensky non ha lesinato critiche a Mosca accusandola di voler causare una «catastrofe nucleare». Dal canto suo (ed è difficile pensare a una coincidenza) Vladimir Putin ha presieduto il Consiglio di Sicurezza nazionale dedicato alle proposte per un aggiornamento della dottrina sulla deterrenza nucleare e ha lanciato minacce urbi et orbi a chiunque «porrà minacce critiche per la sicurezza della Federazione russa» anche a quegli stati che non hanno a disposizione armi nucleari ma che sono spalleggiati da chi invece quelle armi le detiene.

Dunque il Cremlino si riserva «il diritto di usare armi nucleari in caso di aggressione contro la Russia e la Bielorussia» e su questo non c’è possibilità di fraintendimento. Certo, non è la prima volta che dai vertici russi arrivano minacce di questo tipo, anzi il vice-capo del Consiglio di sicurezza nazionale Medvedev non perde occasione per ricordare che le testate atomiche russe sono pronte a flagellare i nemici della nazione.

In un video creato con l’Intelligenza artificiale apparso ieri sui canali russi, per citare un caso di propaganda estrema, si mostrano le possibili conseguenze di un attacco nucleare su Londra. Ma, finora, oltre alle parole, non c’è un reale motivo di ulteriore allarmismo. Anche se le parole di Putin contribuiscono ad avvalorare i timori dell’amministrazione di Joe Biden che si è mostrata contraria a fornire all’Ucraina l’autorizzazione per colpire con le armi occidentali in territorio russo. Secondo fonti interne, la Casa bianca teme un inasprimento della tensione con Mosca e, alla vigilia delle elezioni presidenziali di novembre e del possibile scoppio di un nuovo conflitto in Medioriente, vuole evitarlo a tutti i costi.

ZELENSKY COMUNQUE si è mostrato fiducioso. Oggi sarà il gran giorno un cui il famoso piano di pace «che porterà alla fine della guerra» elaborato da Kiev nelle ultime settimane, sarà discusso con i principali alleati occidentali. Il presidente ucraino ha ribadito più volte che la conditio sine qua non per sedersi a un tavolo e trattare con il nemico è quella di ricevere «garanzie di sicurezza chiare», soprattutto negli Usa. E infatti la delegazione ucraina lo chiama «piano per la vittoria» e non «piano di pace».

CIRCOLANO diverse indiscrezioni sul contenuto della proposta ma per ora le più accreditate si basano su 5 concetti fondamentali riassunti da Bloomberg.

  1. Autorizzazione a colpire in territorio russo con i missili a lungo raggio forniti dall’Occidente. Gli attacchi della settimana scorsa ai depositi di munizioni in Russia con i droni hanno, secondo Kiev, dimostrato che colpire in profondità è necessario per cambiare gli equilibri al fronte e minare la capacità offensiva dell’esercito russo.
  2. Ricevere nuovi e ingenti aiuti militari per poter continuare a resistere all’offensiva russa nel Donetsk e foraggiare le truppe ucraine nel territorio russo del Kursk.
  3. Ricevere aiuti economici che aiutino il governo centrale a riparare (per quanto possibile) la rete energetica del Paese e a correre ai ripari durante l’inverno per evitare che la tenuta dell’opinione pubblica interna si sfaldi.
  4. Accelerare la procedura per l’ingresso di Kiev nell’Unione europea.
  5. Accogliere rapidamente Kiev nella Nato.

Gli ultimi due punti sono senz’altro i più importanti per Zelensky e, di contro, i meno fattibili per gli alleati. Rendere l’Ucraina un membro effettivo della Nato a guerra in corso comporterebbe automaticamente l’ingresso in guerra di tutta l’Alleanza atlantica, secondo il famoso Articolo 5 dello statuto che prevede l’intervento immediato in difesa di un membro impegnato in un conflitto.

APPARE improbabile che Kiev si impunti su questa soluzione e quindi potrebbe trattarsi di una via intermedia: un cessate il fuoco a condizione che Usa, Gb, Francia e (forse) Italia, si impegnino a intervenire contro la Russia in caso di una nuova aggressione. Tuttavia, anche questa seconda opzione al momento non sembra aver riscontrato particolari simpatie tra gli alleati.

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Isola ha scritto a Mattarella per annunciare che il Comune intende eseguire da solo le opere necessarie per la messa in sicurezza della città. La presidente: “Ho già contattato il commissario Figliuolo per ottenere lo sblocco dei 2,8 milioni necessari per costruire il sistema di protezione per il fiume Marzeno”

Ravenna, 25 settembre 2024 – “Il sindaco Isola ha ragione nel momento in cui decide di passare a quella che ha chiamato ‘disobbedienza istituzionale’. Siamo con lui, lo stiamo sostenendo con tutte le azioni possibili”. La presidente facente funzioni dell’Emilia Romagna Irene Priolo si schiera con il sindaco di Faenza e con la sua scelta di scrivere al presidente Mattarella per annunciare che il Comune intende eseguire da solo le opere necessarie per la messa in sicurezza della città.

La presidente facente funzioni dell’Emilia Romagna Irene Priolo e il sindaco di Faenza Massimo Isola
La presidente facente funzioni dell’Emilia Romagna Irene Priolo e il sindaco di Faenza Massimo Isola

“Ho già contattato il commissario Figliuolo per ottenere lo sblocco dei 2,8 milioni necessari per costruire il sistema di protezione per il fiume Marzeno di cui ha bisogno Faenza nell’immediato. Quei fondi, bloccati perché legati al Pnrr, verranno ricavati direttamente dalle risorse di cui già dispone la struttura commissariale”. Priolo - a quanto pare fra i pochissimi preallertati dell’atto di disobbedienza - non legge la mossa di Isola quale una guerra dichiarata anche alla Regione. “L’Emilia Romagna ha fatto cantieri per 343 milioni in un anno. Per quelle aree allagabili attendiamo il sì dello Stato da due mesi. La Regione ha spedito il materiale il 7 luglio, speravamo in un’approvazione del piano speciale entro la pausa estiva, ma non e’ arrivata. Anche noi abbiamo dovuto fare da soli: da giorni lungo tutti i fiumi esondati sono al lavoro tecnici e mezzi. Parliamo di cantieri partiti in urgenza per 24 milioni di euro. Siamo intervenuti in tutte le rotte, oltre che sull’erosione di Boncellino”. L’argine a monte di Castel Bolognese in cui è arrivata a fare un sopralluogo la presidente è teatro di uno di questi interventi: “Qui stiamo sollevando il livello dell’argine per evitare che si verifichi una nuova esondazione. Servirà un mese”. Irene Priolo chiede ora un cambio di rotta anche alla struttura commissariale: “Sappiamo tutti che la ricostruzione richiederà 4,5 miliardi di investimenti in dodici anni. Ma gli interventi più urgenti hanno bisogno di una programmazione immediata. Stenderemo un elenco di opere strategiche, bacino per bacino, da consegnare al generale Figliuolo affinché chieda che vengano inserite nella finanziaria che il governo e il parlamento dovranno varare entro l’anno. Ci serve inoltre una via preferenziale legislativa sul modello di quella per la ricostruzione del ponte Morandi a Genova. Nessun intervento deve più impantanarsi nei meandri burocratici”

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Il sindaco Massimo Isola con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (foto Mauro Monti MMph)

 

Lo strappo del sindaco di Faenza Massimo Isola contro la burocrazia sta facendo discutere tutta Italia ed è un segnale forte di reazione dopo l’alluvione della scorsa settimana. Isola ha anticipato le sue intenzioni (“Non possiamo aspettare, i lavori li facciamo da soli”) in una lettera aperta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Clicca qui per il testo completo della lettera a Mattarella

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Parlamento all'oscuro Domani la riunione "tecnica" decisiva: i Lep disegnati per favorire le disuguaglianze

Sabino Cassese (LaPresse) Sabino Cassese – LaPresse

Che fine ha fatto l’autonomia differenziata? Il disegno di legge Calderoli è stato approvato a fine giugno, ma non si hanno notizie delle trattative tra le Regioni che hanno guidato la campagna autonomista e il governo, comunque ben intenzionato (almeno nella parte leghista) a fare concessioni. Eppure il presidente del Veneto Luca Zaia aveva detto e ripetuto che avrebbe chiesto la devoluzione «il giorno dopo» l’approvazione definitiva della legge Calderoli. Cosa possibile almeno per le materie non soggette ai famosi “Lep”, cioè i Livelli essenziali delle prestazioni alla definizione dei quali sta lavorando ormai da marzo 2023 un Comitato presieduto da Sabino Cassese che avrebbe anche finito i suoi lavori, ma che è stato prorogato. Mancava infatti la parte fondamentale, la definizione economica di questi «livelli» che sono il cuore di tutta la riforma visto che lo stato centrale una volta chiuso il cerchio della riforma si impegnerà a garantire solo quelli, almeno nelle regioni che avranno meno risorse per andare oltre l’«essenziale».

C’È UNA RAGIONE per la quale languono le trattative tra le regioni aspiranti autonomiste e lo stato, ed è che un’accelerazione nei mesi in cui sono state raccolte le firme per il referendum abrogativo della legge Calderoli avrebbe finito per dare slancio alla campagna di chi si oppone all’autonomia. Questo non vuol dire che tutto sia rimasto fermo, le cose importanti com’è noto vanno avanti sottotraccia.

Così siamo già arrivati a un passaggio fondamentale: domani dopo parecchio tempo tornerà a riunirsi il Comitato Cassese per ascoltare le proposte della Commissione tecnica sui fabbisogni standard. L’autonomia differenziata è infatti anche un gioco di scatole cinesi dove i protagonisti si sovrappongono e si nascondono dietro acronimi, restando tutti fondamentalmente d’accordo e soprattutto al riparo dal controllo del parlamento e dell’opinione pubblica.

La Commissione tecnica sui fabbisogni standard (Ctfs), nominata dalla presidenza del Consiglio dei ministri, è un organo che precede la riforma Calderoli e negli anni è stata sempre presieduta da un economista (Alberto Zanardi, Luigi Marattin, Giampaolo Arachi tra gli ultimi), dall’aprile del 2023 (in concomitanza dunque con la nascita del Comitato Cassese) a guidarla è stata scelta invece la giurista Elena d’Orlando che è stata a lungo e contemporaneamente anche nella delegazione trattante del Veneto con la stato: proprio quella che negoziava i margini di autonomia. Di questa delegazione trattante scelta da Zaia fa ancora parte il professor Andrea Giovanardi, anche lui nella Commissione “tecnica” sui fabbisogni standard, inseme al segretario generale della giunta della Regione Lombardia (cioè di Attilio Fontana, l’altro campione dell’autonomismo spinto) Antonello Turturiello.

Non è finita qui, perché nel gioco di scatole cinesi il Comitato Cassese che è composto da una sessantina di membri ha nominato anche il «sottogruppo 12» con il compito di coordinarsi con la Commissione tecnica fabbisogni standard e anche di questo sottogruppo fa parte la professoressa d’Orlando, coordinante e coordinata al tempo stesso. Insieme a lei nella scatola cinese più piccola ci sono tra gli altri di nuovo Giovanardi e il costituzionalista Giovanni Guzzetta, consigliere giuridico del gabinetto Meloni.

SOTTOTRACCIA, tutti questi tecnici e consiglieri stanno dando forma concreta all’autonomia differenziata, proprio quando è invece sparita dal dibattito pubblico e soprattutto è nascosta al parlamento che, a questo punto, potrà solo prendere o lasciare le intese che deciderà di firmare il governo.

Domani la Commissione tecnica fabbisogni standard presenterà al Comitato Cassese le sue proposte per quantificare le risorse necessarie a finanziare le funzioni che saranno devolute alle Regioni e le conseguenti proposte per distribuirle sul territorio. Va ricordato che secondo la legge quadro Calderoli questa redistribuzione dovrebbe avvenire a costo zero, dunque quello che sarà aumentato a qualcuno dovrà essere tolto a qualcun altro, anche se i custodi del bilancio pubblico già alle prese con il ritorno dell’austerità europea sono preoccupatissimi che l’aumento dei centri di spesa finisca per mandare fuori controllo il conto economico dello Stato.

Le slide al centro della presentazione di oggi che il Ctfs ha anticipato ai componenti del Comitato Cassese – e che il manifesto conosce – hanno fatto cadere il velo dell’ipocrisia. È in questa sede “tecnica” che si stanno definendo realmente i confini delle prestazioni essenziali, rimasti assai vaghi al termine del lavoro dei saggi di Cassese. È dunque qui che si sta decidendo quale parte del paese sarà avvantaggiata e quale penalizzata dall’autonomia.

Alcune delle slide che saranno presentate domani dalla Commissione tecnica sui fabbisogni standard al Comitato sui Lep di Sabino Cassese
Alcune delle slide che saranno presentate domani dalla Commissione tecnica sui fabbisogni standard al Comitato sui Lep di Sabino Cassese

Indovinare chi ci perderà non è difficile.

Formalmente i tecnici dovrebbero solo stimare un fabbisogno finanziario per ognuna delle funzioni Lep e fissare di conseguenza il criterio di riparto delle risorse. Praticamente come attaccare un cartellino del prezzo a ogni servizio, cosa che però è impossibile fare se quel servizio non è ben definito. A meno che, contemporaneamente, non si proceda davvero alla sua precisa definizione. Facciamo un esempio, a proposito dell’istruzione e dell’educazione fisica nelle scuole. Il Lep si limita a dire che va riconosciuto il diritto a ricevere un’adeguata formazione sportiva. Ma quanto può “costare” questo diritto? Anche molto poco, potrebbero decidere i tecnici, assumendo che sia garantito dalla disponibilità, per ogni studente, di un metro quadrato all’aria aperta dove fare le flessioni. E tanto può bastare alle regioni “povere”, pazienza se poi quelle “ricche” vorranno garantire lo stesso diritto con cinque metri quadrati di palestra al coperto e attrezzata.

Non solo, sempre a proposito di istruzione il Comitato Cassese ha evitato di considerare il tempo pieno per gli studenti della primaria un livello «essenziale». Dunque potrà continuare a non essere garantito uniformemente sul territorio nazionale, malgrado rientri tra gli obiettivi del Pnrr.

C’È POI un altro problema. Nelle slide anticipate dalla Commissione d’Orlando compare a un certo punto tra le variabili utilizzate per stimare i fabbisogni regionali anche il «costo della vita». Che presumibilmente è assai più elevato a Milano che a Crotone, sempre per esempio. Oltre a essere un modo per far rientrare dalla finestra il criterio della spesa storica, penalizzante per il Sud e che dunque si è fatto formalmente uscire dalla porta, questa previsione buttata là in sede “tecnica” non è che un trucco per riportare di attualità il feticcio leghista delle gabbie salariali.

La spesa delle regioni, per qualunque funzione «essenziale», è prevalentemente la spesa per il personale che deve assicurarle, metterle in pratica. Dunque differenziare il fabbisogno regionale sulla base del costo della vita vuol dire molto semplicemente consentire che una regione “ricca” del Nord avrà diritto alle risorse necessarie a firmare contratti integrativi migliorativi per (esempio tratto da precedenti proposte leghiste) i suoi insegnanti.

Allo stesso risultato si potrà arrivare persino aggirando il problema dei Lep, visto che Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna nelle intese preliminari sottoscritte – siamo all’epoca del governo Gentiloni – hanno già chiesto di acquisire in proprio le competenze sugli organici e sul trattamento retributivo del personale sanitario e dell’istruzione. A cosa potranno mai servire livelli «essenziali» uguali per tutti, se poi il loro contenuto sarà striminzito e se chi lavorerà per garantirli potrà essere inquadrato e retribuito in maniera difforme da Regione a Regione?

 

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