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Crisi di governo. A prescindere dai nomi che riempiranno le diverse caselle - sicuramente importanti ma non fondamentali - bisognerà vedere su quali basi si costruirà l’accordo giallorosso: dobbiamo leggere gli obiettivi, i contenuti, vogliamo sapere se ci sarà una vera svolta

E dunque i «rospi» si baceranno. Al plurale perché in questa stressante fase politica, non è uno solo il reietto. Resta da capire se qualcuno diventerà principe, visto che al momento c’è già un regnante, Giuseppe Conte, che esce da un tunnel quasi buio, pieno di trabocchetti e di ostacoli.

Uno dei pochi premier a diventare presidente del Consiglio a stretto giro di posta, di due maggioranze diverse, e tuttavia non opposte tout-court visto che il M5S è l’elemento di continuità.

Un altro vincitore è il Parlamento. Perché così come è nato in Parlamento il contratto giallo-verde, sempre nella stessa massima istituzione forse nascerà un progetto alternativo, e di legislatura, tra il M5S e il Pd. Salvini e Meloni possono appellarsi al popolo dei 60 milioni di italiani prigionieri del Palazzo, possono gridare «al voto al voto», ma quello che accadrà, sempre che accada, è legittimo e nel rispetto delle regole democratiche. I plebisciti non sono previsti e solo la propaganda – e l’ignoranza della Costituzione – può arrivare a sostenere che si tratta di un tradimento del voto dei cittadini italiani. Se così fosse, allora gli elettori sono stati traditi già con il contratto giallo-verde, per il quale nessuno si era espresso nel terremoto politico del 4 marzo del 2018.

Ecco perché il segretario della Lega, nonostante i comizi, le invettive, la rabbia evidente, esce doppiamente sconfitto.

È stato lui ad aprire la crisi, sbagliando tempi e modalità, e ora è fuorigioco potendo contare solo sulla piazza e sugli errori di chi si accinge a governare.

Sarebbe sbagliato poi sottovalutare il ruolo svolto dal presidente della Repubblica. Che, saggiamente, si è affidato al senso di responsabilità dei partiti per evitare agli italiani un altro appuntamento elettorale, destinato a una campagna sicuramente furiosa, concentrata su rivalità politiche e personali più che sui problemi da risolvere.

E qui arriviamo al nodo più importante. A prescindere dai nomi che

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La casa brucia. Macron costretto a porre la preoccupazione per gli incendi al centro del vertice, sospeso tra recessione e i dazi Usa-Cina

L’Amazzonia è diventato il primo capitolo dell’agenda del G7, che inizia oggi a Biarritz sulla costa basca francese all’Hotel du Palais, costruito da Napoleone III per la moglie Eugenia. Con un’abile mossa, l’ospite Emmanuel Macron ha posto la preoccupazione per gli incendi al centro della discussione dell’edizione 2019 della riunione dei cosiddetti «grandi», iniziata nel ’75 (da Valéry Giscard d’Estaing) per lottare (già allora) contro il protezionismo e le guerre monetarie, ma che nel corso degli anni ha perso incidenza, parallelamente a una assurda gonfiatura di partecipanti e logistica, oltre che all’esplosione dei costi (quest’anno più di 25 milioni di euro).

LA MOSSA È A DOPPIO TAGLIO: la difesa dell’Amazzonia come polmone della terra è un argomento sovranazionale, serve quindi a ribadire l’importanza del multilateralismo diventato nemico numero uno dei nazionalisti e al tempo stesso diventa strumento per cercare di calmare le forti proteste contro il G7 e i «grandi» indifferenti alla vita delle popolazioni, che quest’anno sono iniziate mercoledì scorso con dibattiti e seminari a Hendaye e Irun in Spagna, che avranno oggi il punto culminante con la manifestazione e domenica la marcia dei «ritratti», con le foto di Macron «staccate» dai militanti ecologisti dai muri di numerosi palazzi comunali, per protestare contro la mancanza di azione del governo francese a favore del clima (azioni osservate a vicinanza ravvicinata da 13.200 poliziotti, motovedette, droni ecc., con stazioni e aeroporti chiusi).

MACRON HA FATTO SAPERE che la Francia non firmerà l’accordo Ue-Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay mentre il Venezuela è sospeso dal 2016) allo stato delle cose, perché Jair Bolsonaro ha «mentito» sui suoi impegni a favore della protezione dell’Amazzonia. Bolsonaro lo ha accusato di «mentalità colonialista», ma almeno tra gli europei si sta costruendo una posizione comune: oltre alla Francia, anche l’Irlanda non intende allo stato delle cose firmare l’accordo con il Merosur, mentre la Germania, seguita dalla Norvegia, ha sospeso il finanziamento all’Amazon Fund. Persino il recalcitrante Boris Johnson si è detto ieri «profondamente preoccupato» dagli incendi in Amazzonia. L’asse Johnson-Trump (che ieri ha aizzato una polemica contro la Fed dopo la decisione di Powell di non tagliare i tassi di interesse) potrebbe non concretizzarsi come desiderato dai due eccentrici leader.

Il G7 si annuncia difficile, il clima è teso su numerosi fronti. Al punto che, per evitare la sceneggiata dell’anno scorso in Canada con Trump che ha ritirato la firma alle conclusioni, il G7 di Biarritz si concluderà senza comunicato finale. Ci sono forti dissensi interni tra i 7, i leader sono praticamente tutti indeboliti o già in corsa elettorale, con la sola eccezione, per il momento, del giapponese Shinzo Abe.

CI SONO CONVITATI DI PIETRA a Biarritz: la Cina, con le minacce di recessione mondiale causate dalla guerra commerciale con gli Usa, l’Iran e l’accordo sul nucleare denunciato da Trump proprio a un G7 (come è successo a un altro summit G7 per l’Accordo di Parigi). La Russia non è più presente dal 2014, ma Trump ora la rivuole senza condizioni, mentre Macron lega il rientro di Mosca, che servirebbe a rafforzare un G7 indebolito, a un accordo sull’Ucraina. Il peso del G7 si è ristretto. Oggi rappresenta solo più il 12% della popolazione mondiale e il 45% del pil e i «sette» non sono neppure più i più ricchi.

Il posto degli scambi multilaterali è stato preso dal G20, che rappresenta l’85% del pil mondiale. Per rimediare a questa debolezza, Macron ha invitato India, Australia, Cile, Egitto, Sud Africa, Senegal, Rwanda, Burkina, oltre alla confinante Spagna (che gestisce in tandem il controllo del contro-vertice e delle manifestazioni).

IL TEMA IN DIBATTITO è la lotta alle diseguaglianze, che ha contribuito non poco all’indignazione dei militanti impegnati nel sociale: come accettare che chi causa queste diseguaglianze, non lotta contro l’evasione fiscale, detti poi legge su come combatterle? Secondo dati Ocse, nel 2014 l’1% più ricco incamerava l’11% del reddito mondiale, quasi il doppio del 2006 (6%) e il reddito disponibile è diminuito dal 2005 per il 25% della popolazione dei paesi del G7, cioè le diseguaglianze aumentano sia tra zone geografiche che all’interno dei singoli paesi o aree economiche. Le pratiche di «ottimizzazione» fanno perdere ogni anno 240 miliardi al fisco nel mondo. Ma la timida tassa francese sul fatturato delle multinazionali del digitale ha scatenato l’ira di Trump, che ha parlato di «mossa anti-americana» e minaccia ritorsioni doganali sul vino francese (e le multinazionali ritorsioni sui fornitori francesi).

Al G7 finanza che si è tenuto a Chantilly il 17-18 luglio, il ministro francese, Bruno Le Maire, ha osservato che «non possiamo più avere un sistema fiscale internazionale basato su un modello economico del XX secolo, senza tener conto dei giganti che creano valore vendendo dati senza essere tassati allo stesso livello per esempio della piccola e media impresa». Per Le Maire l’obiettivo è trovare «una soluzione internazionale soddisfacente» a livello di G7, per poi investire l’Ocse per un accordo. Sulla guerra commerciale e delle monete il G7 non è la sede più adatta, ma il conflitto Usa-Cina resta centrale, con il rischio per l’Europa di rimanere schiacciata in mezzo. Biarritz è l’ultima possibilità per rilanciare il multilateralismo: il 2020 sarà un anno buio, con la presidenza del G7 agli Usa e quella del G20 all’Arabia saudita.

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Zingaretti e Di Maio in un incontro del 2018 ©  Fabio Cimaglia /LaPresse

Ma ai Salvini, alle Meloni, ai Berlusconi, che bollano l’eventuale alleanza M5S-Pd come una truffa, che la demonizzano come il governo più a sinistra della storia, e chiedono le elezioni purificatrici, cosa si risponde, che hanno ragione?

Chi fa politica, e decide, dovrebbe guardare ai fatti nella loro complessità, senza farsi influenzare da comportamenti personali, e personalistici, utili solo a creare poi altri ostacoli e altra confusione in questa fase molto delicata per il futuro del Paese. E se stiamo alle parole dei Dem, a seguito del primo incontro con i 5S, possiamo essere e vedere la situazione con un certo ottimismo.

Tuttavia tra i commentatori, tra gli osservatori è il pessimismo la nota prevalente, con il rischio serio però di sfociare nell’autolesionismo. A conferma che il personaggio Tafazzi è sempre molto caro alla sinistra italiana.

Il punto di partenza, è bene ripeterlo ogni volta, è

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da Il Fatto Quotidiano del 21 agosto

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Crisi di governo. Tra i tanti interrogativi, come revocare la politica migratoria di Salvini, finora avallata dai 5 Stelle, per impostarne un’altra, che non sia neppure quella perseguita da Minniti?

L’estremo atto di arroganza di Matteo Salvini, volto a capitalizzare elettoralmente il credito attribuitogli dai sondaggi, a escludere il Movimento 5 Stelle e a inglobare i residui del berlusconismo, si è rivelato un errore. C’è un problema di tempi tecnici, c’è la volontà di sopravvivere di un parlamento da poco eletto, c’è un’aritmetica parlamentare che sulla carta consente altre maggioranze.

SOLO CHE in questo difficile frangente se arduo è capire cosa accade tra i 5 Stelle, in cui c’è un’ala che con Salvini s’è trovata benissimo, complicatissimo è capire cosa capiti nelle file del Pd. Dove si misurano almeno tre posizioni: quella di chi era disposto fin dal 4 marzo 2018 a negoziare coi 5 Stelle; quella di Zingaretti, di suo prossimo a tale posizione, ma incapace di governare un partito il cui gruppo parlamentare è ostaggio dell’altro Matteo e che potrebbe liberarsene a seguito di nuove elezioni; quella dell’altro Matteo, che, avendo finora vietato ogni contatto coi 5 Stelle, si è testé riconvertito. Nuove elezioni metterebbero a rischio le sue truppe parlamentari, gli serve tempo per fondare un suo partito ed è sempre in cerca di una rivincita personale. Risibile è la minaccia di Carlo Calenda, fresco eletto al parlamento europeo col Pd, di fondare anche lui un suo partito se 5 Stelle e Pd s’incontrano. Motivando, non a torto, con l’inaffidabilità dell’altro Matteo.

LA PARTITA purtroppo si gioca sulla pelle degli italiani. Intendiamoci. Un accordo tra Pd e 5 Stelle, sarebbe stata la soluzione più ovvia già dal 16 marzo. Vuoi per minor distanza programmatica, vuoi per contiguità dei due elettorati. Parte rilevante degli elettori a 5 Stelle proveniva dal Pd e da sinistra. Respinti all’indomani delle elezioni, i 5 Stelle si sono accordati con Salvini per formare il governo più tristo nella storia repubblicana. È ancora da notare come la polemica del Pd, a guida Zingaretti, ma ipotecato da Renzi, si sia accanita più che contro Salvini contro i 5 Stelle. Che hanno replicato per le rime: il culmine è stato la squallida vicenda del “partito di Bibbiano”.

ADESSO, con svariate acrobazie – governo di scopo, di legislatura e quant’altro – si prospetta un’intesa. A scandalizzarsi dell’opportunismo in politica è di solito chi ci perde. Ma qualche problema si pone comunque. Dopo le parole che si sono dette, come potranno mai convivere 5Stelle e Pd? Come non aspettarsi una riedizione del dualismo Salvini/Di Maio? E come si spiegheranno con i loro elettori? Il Capo dello Stato, che ha finora e interpretato rigorosamente il ruolo di rappresentante di tutti gli italiani, ottenendo nei sondaggi amplissimo consenso, si troverà in imbarazzo. Con che animo potrà conferire l’incarico di formare il nuovo governo viste simili premesse? Dopo la pagliacciata xenofoba gialloverde, ciò di cui meno c’è bisogno è una riedizione verderosa. Il sempre volenteroso Prodi ha invitato a una seria riflessione i due partiti e se possibile l’inclusione nell’accordo delle residue milizie berlusconiane, in nome dell’Europa. Ebbene, chi sa immaginare come un simile assemblaggio possa partorire un programma di governo capace di non predisporre la rivincita di Salvini?

Tutti ripetono tre formule: confermare la vocazione europeista del paese, tenere i conti in ordine (bloccando l’aumento dell’Iva) e scongiurare il pericolo populista.

Senonché, le tre formule sono alquanto difficili da conciliare. Se il Pd avesse meditato sulla débacle del 14 marzo avrebbe dovuto forse riconoscere che proprio la sottomissione ai diktat di Bruxelles e dei maggiori governi europei sui conti in ordine che ha spianato la strada ai 5 Stelle. Anche se i governi Renzi e Gentiloni hanno fatto il resto. È mancata una politica del lavoro e degli investimenti adeguata, volta a rimettere alfine in moto il sistema produttivo (alleviando, di conseguenza, il debito pubblico), insieme a incisive misure di tutela dei ceti svantaggiati. L’abbandono del Mezzogiorno e delle periferie urbane è stato drammatico. Micidiale alfine l’accoppiamento con le oscillanti politiche condotte sull’immigrazione, che hanno dato gas al motore di Salvini.

VA DA SÉ che questi indirizzi andrebbero rovesciati. Ma com’è pensabile di farlo, non tanto alla luce degli incerti orientamenti dei 5 Stelle, quanto della divisione entro il Pd tra un’ala arciliberista, convergente con Forza Italia, e una (moderatamente) interventista, convergente con Leu, intorno a una politica d’investimenti e di contrasto alle disuguaglianze sociali e territoriali, che dovrebbe necessariamente forzare i vincoli europei?

E ANCORA: come revocare la politica migratoria di Salvini, finora avallata dai 5 Stelle, per impostarne un’altra, che non sia neppure quella perseguita da Minniti? Sarebbe mai un governo giallorosa in grado d’imporre all’Europa, oltre alla revisione degli accordi di Dublino, una politica verso il sud del mondo più generosa, lungimirante e assai più costosa di quella attuale, magari scontrandosi con l’amico americano? E che dire infine delle politiche costituzionali da condividere? Renziani e 5 Stelle s’intendono nel cavalcare l’ondata antipolitica tramite la riduzione selvaggia del numero dei parlamentari. L’ala zingarettiana è in sintonia con LeU e Forza Italia nell’immaginare correzioni meno dirompenti. Mentre permane assoluto mistero circa il futuro della legge elettorale. Che invece è decisiva.

 

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da “il Manifesto” del 14.08.2019 Massimo Villone: La crisi . Tre opzioni in campo: governo di servizio e nuove elezioni subito, governo di qualche mese per una nuova legge elettorale, governo di legislatura. Le prime due potrebbero essere un assist a Salvini, la terza è da preferire perché consentirebbe di disfare almeno in parte il malfatto fin qui, e ritrovare la Costituzione perduta

Nonostante l’assist della presidente Casellati e il centrodestra che si ricompatta, Salvini perde in Senato. Propone a M5S di fare subito il taglio dei parlamentari, e poi al voto.
Ma M5S mantiene la posizione, e nulla cambia nell’agenda, come è giusto che sia perché il “potere della crisi” è – costituzionalmente – nelle mani del presidente del consiglio.
Libero, giornale portavoce del fascioleghismo, titola a tutta pagina: «Congiura contro Salvini. È pronta la graticola» (13 agosto). Ecco la linea di attacco. Il messaggio è: tradimento. Ma non ve n’è alcuno. La coalizione gialloverde non è stata eletta, si è formata in parlamento e può essere sostituita secondo Costituzione, senza che nessuno abbia titolo a protestare.
Anche Salvini grida al voto subito per non tradire gli elettori. In realtà dovrebbe parlare di tradimento dei sondaggi, che però in nessun paese al mondo sono assunti a fondamento degli assetti di governo. E di certo non si può affidare il ponte di comando a chi ha chiesto pieni poteri sulla base di un consenso costruito soprattutto con una catena di montaggio di selfie. Nessun parallelo è possibile con la crisi che portò al governo Dini nel 1995.
Sono possibili, e conformi a Costituzione, tre opzioni: governo di servizio e nuove elezioni subito, governo di qualche mese per una nuova legge elettorale, governo di legislatura. Le prime due opzioni potrebbero essere un assist a Salvini, che si sottrarrebbe a una difficilissima legge di stabilità e rimarrebbe libero di bombardare quotidianamente il quartier generale con il mantra: «Se non mi avessero impedito di governare avrei fatto tutt’altro». La terza opzione è in astratto da preferire perché consentirebbe di disfare almeno in parte il malfatto fin qui, e ritrovare la Costituzione perduta. Ma certo è la più difficile da realizzare. La scelta rimane nelle mani di Mattarella, che potrebbe anche non dichiarare una sua preferenza. Ma la dedurremmo dalla scelta della persona incaricata. Una figura minore reggerebbe la prima o la seconda opzione. La terza suggerirebbe un personaggio di alta caratura, della statura di un Draghi o per quanto possibile equivalente.
Salvini, chiedendo di vedere le carte, mette in luce il respiro

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