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Balla fino all’ultimo la nomina del meloniano Fitto a vicepresidente della Commissione Ue. È il Pd che spinge i socialisti ad accettarlo. Ma le manovre dei Popolari contro la spagnola Ribera tengono tutti in ostaggio. La nuova maggioranza europea, con la destra, è già all’opera

Passaggio a destra Firmata l’intesa tra Ppe, socialisti e liberali sui commissari. Ma i popolari spagnoli ricattano la spagnola Ribera e tutto si complica

Foto di gruppo dei nuovi commissari europei Ap Foto di gruppo dei nuovi commissari europei Ap – foto Laurie Dieffembacq

Sulla strada dell’accordo per il via libera ai vicepresidenti della Commissione Ue si sono messi di traverso i popolari spagnoli. Era fondamentale per loro che nella lettera di valutazione della commissaria spagnola designata, la socialista Teresa Ribera, fosse inserita una nota: dimissioni in caso di incriminazione per le responsabilità nell’alluvione di Valencia. Una richiesta irricevibile per i socialisti europei anche per il fondato timore di politicizzazione di un eventuale caso giudiziario sollevato in Spagna. Durante le trattative (ancora in corso a sera inoltrata, mentre finiamo di scrivere questo articolo) i socialisti hanno rifiutato ogni riferimento a eventuali dimissioni. Arrivando a ipotizzare lo stop al commissario meloniano Raffaele Fitto, Ecr ma appoggiato con forza dal Ppe.

Fino a poco prima, la matassa dell’accordo sulla Commissione sembrava essersi sbrogliata attraverso l’intesa tra i capigruppo di maggioranza (Weber per Ppe, Garcia Perez per S&D, Hayer per Renew). A cascata era arrivato il via libera per i 6 vicepresidenti: Fitto e Ribera passano entrambi, l’ungherese Varhelyi pure, ma senza le competenze sui diritti riproduttivi e la gestione delle crisi sanitarie (leggi: vaccini).

AL VOTO sui vicepresidenti si era arrivati in modo a dir poco affannoso. Perché l’accordo di maggioranza negoziato tra i leader e passato al vaglio dei gruppi politici fosse confermato, si dovevano riunire le commissioni parlamentari e votare a maggioranza dei due terzi, un voto espresso dai soli coordinatori (uno per ciascuno degli otto gruppi parlamentari). Eppure, le riunioni, tenute in simultanea a partire dalle 19 di ieri, hanno riprodotto lo «stallo alla messicana» già

visto negli scorsi giorni. In commissione Sviluppo regionale (Regi), competente sul commissario italiano, il coordinatore per S&D, lo spagnolo Marcos Ros Sempere, attendeva il verdetto dell’audizione della commissaria Ribera, in un’altra sala dell’Eurocamera. E nell’audizione di Ribera, gli stessi socialisti aspettavano l’esito di quella del commissario ungherese. Solo in questo caso, infatti, i progressisti sono riusciti a strappare un pur minimo ripensamento rispetto alla situazione di partenza che imponeva loro di digerire Fitto.

Per i socialisti non si può dire che il negoziato abbia portato guadagni. Lo scarno documento su cui i leader della maggioranza avevano trovato la quadra, ruota infatti attorno alle generiche linee programmatiche stilate da von der Leyen alla vigilia del primo voto parlamentare, lo scorso luglio. Il testo contiene un richiamo al perimetro della maggioranza europeista, senza però esplicitare il divieto di alleanze con l’estrema destra. Un punto che i socialisti avrebbero gradito e di cui chiederanno conto a von der Leyen in vista del voto finale a Strasburgo, previsto il prossimo 27 novembre.

DUE ULTERIORI elementi completano il quadro della lunga giornata convulsa all’Eurocamera. Il primo è un passaggio apparentemente tecnico e riguarda la legge sulla Deforestazione, sulla quale pochi giorni fa all’Eurocamera si era saldata l’alleanza tra Ppe ed estreme destre. L’organo preparatorio del Consiglio Ue (Comitato dei rappresentanti permanenti, Coreper), peraltro sotto la presidenza di turno ungherese, ha votato per respingere la norma nella sua forma modificata per impulso del Ppe. Al netto del merito (il Ppe è riuscito a indebolire uno dei provvedimenti chiave del Green Deal), il pronunciamento degli Stati, rappresentati in Consiglio, è quello di ritornare alla proposta originaria della Commissione, che chiedeva il rinvio di un anno senza altre modifiche, dato che il regolamento era già stato chiuso. Così, il tentativo del Ppe si rivela come forzatura politica.

Presumibilmente il leader Manfred Weber aveva voluto lanciare diversi segnali, variamente interpretabili. Tra questi: una maggioranza alternativa per plasmare una legge è possibile. Ma anche infastidire Ursula von der Leyen, come ha fatto conducendo le trattative sulla futura Commissione senza mettere a freno le irrefrenabili pulsioni della componente iberica contro Ribera.

È INVECE l’altro commissario su cui tutto rischiava di saltare, ovvero Raffaele Fitto, che appena approvato deve già vedersela con un possibile ridimensionamento del suo ruolo dall’interno. Come riportata la testata Politico.eu, von der Leyen ha in programma un cambio di personale in modo da accentrare su si sé il controllo del budget europeo (oltre 1,2 trilioni di euro su sette anni). Uno dei «dipartimenti» assegnati al commissario italiano, la Dg Reform, forte dei suoi 200 funzionari, sarebbe accorpato con quello per il budget. La conseguenza di questo passaggio sarebbe di minare l’autonomia di spesa delle politiche di Coesione, che diventerebbe secondaria rispetto alle Riforme, gestite direttamente da von der Leyen. L’accentramento del ruolo della presidente della Commissione non è nuovo. E a Fitto potrebbe non dispiacere troppo. Togliersi qualche responsabilità.