Il sindaco Massimo Isola con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (foto Mauro Monti MMph)
Lo strappo del sindaco di Faenza Massimo Isola contro la burocrazia sta facendo discutere tutta Italia ed è un segnale forte di reazione dopo l’alluvione della scorsa settimana. Isola ha anticipato le sue intenzioni (“Non possiamo aspettare, i lavori li facciamo da soli”) in una lettera aperta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
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Commenta (0 Commenti)Parlamento all'oscuro Domani la riunione "tecnica" decisiva: i Lep disegnati per favorire le disuguaglianze
Che fine ha fatto l’autonomia differenziata? Il disegno di legge Calderoli è stato approvato a fine giugno, ma non si hanno notizie delle trattative tra le Regioni che hanno guidato la campagna autonomista e il governo, comunque ben intenzionato (almeno nella parte leghista) a fare concessioni. Eppure il presidente del Veneto Luca Zaia aveva detto e ripetuto che avrebbe chiesto la devoluzione «il giorno dopo» l’approvazione definitiva della legge Calderoli. Cosa possibile almeno per le materie non soggette ai famosi “Lep”, cioè i Livelli essenziali delle prestazioni alla definizione dei quali sta lavorando ormai da marzo 2023 un Comitato presieduto da Sabino Cassese che avrebbe anche finito i suoi lavori, ma che è stato prorogato. Mancava infatti la parte fondamentale, la definizione economica di questi «livelli» che sono il cuore di tutta la riforma visto che lo stato centrale una volta chiuso il cerchio della riforma si impegnerà a garantire solo quelli, almeno nelle regioni che avranno meno risorse per andare oltre l’«essenziale».
C’È UNA RAGIONE per la quale languono le trattative tra le regioni aspiranti autonomiste e lo stato, ed è che un’accelerazione nei mesi in cui sono state raccolte le firme per il referendum abrogativo della legge Calderoli avrebbe finito per dare slancio alla campagna di chi si oppone all’autonomia. Questo non vuol dire che tutto sia rimasto fermo, le cose importanti com’è noto vanno avanti sottotraccia.
Così siamo già arrivati a un passaggio fondamentale: domani dopo parecchio tempo tornerà a riunirsi il Comitato Cassese per ascoltare le proposte della Commissione tecnica sui fabbisogni standard. L’autonomia differenziata è infatti anche un gioco di scatole cinesi dove i protagonisti si sovrappongono e si nascondono dietro acronimi, restando tutti fondamentalmente d’accordo e soprattutto al riparo dal controllo del parlamento e dell’opinione pubblica.
La Commissione tecnica sui fabbisogni standard (Ctfs), nominata dalla presidenza del Consiglio dei ministri, è un organo che precede la riforma Calderoli e negli anni è stata sempre presieduta da un economista (Alberto Zanardi, Luigi Marattin, Giampaolo Arachi tra gli ultimi), dall’aprile del 2023 (in concomitanza dunque con la nascita del Comitato Cassese) a guidarla è stata scelta invece la giurista Elena d’Orlando che è stata a lungo e contemporaneamente anche nella delegazione trattante del Veneto con la stato: proprio quella che negoziava i margini di autonomia. Di questa delegazione trattante scelta da Zaia fa ancora parte il professor Andrea Giovanardi, anche lui nella Commissione “tecnica” sui fabbisogni standard, inseme al segretario generale della giunta della Regione Lombardia (cioè di Attilio Fontana, l’altro campione dell’autonomismo spinto) Antonello Turturiello.
Non è finita qui, perché nel gioco di scatole cinesi il Comitato Cassese che è composto da una sessantina di membri ha nominato anche il «sottogruppo 12» con il compito di coordinarsi con la Commissione tecnica fabbisogni standard e anche di questo sottogruppo fa parte la professoressa d’Orlando, coordinante e coordinata al tempo stesso. Insieme a lei nella scatola cinese più piccola ci sono tra gli altri di nuovo Giovanardi e il costituzionalista Giovanni Guzzetta, consigliere giuridico del gabinetto Meloni.
SOTTOTRACCIA, tutti questi tecnici e consiglieri stanno dando forma concreta all’autonomia differenziata, proprio quando è invece sparita dal dibattito pubblico e soprattutto è nascosta al parlamento che, a questo punto, potrà solo prendere o lasciare le intese che deciderà di firmare il governo.
Domani la Commissione tecnica fabbisogni standard presenterà al Comitato Cassese le sue proposte per quantificare le risorse necessarie a finanziare le funzioni che saranno devolute alle Regioni e le conseguenti proposte per distribuirle sul territorio. Va ricordato che secondo la legge quadro Calderoli questa redistribuzione dovrebbe avvenire a costo zero, dunque quello che sarà aumentato a qualcuno dovrà essere tolto a qualcun altro, anche se i custodi del bilancio pubblico già alle prese con il ritorno dell’austerità europea sono preoccupatissimi che l’aumento dei centri di spesa finisca per mandare fuori controllo il conto economico dello Stato.
Le slide al centro della presentazione di oggi che il Ctfs ha anticipato ai componenti del Comitato Cassese – e che il manifesto conosce – hanno fatto cadere il velo dell’ipocrisia. È in questa sede “tecnica” che si stanno definendo realmente i confini delle prestazioni essenziali, rimasti assai vaghi al termine del lavoro dei saggi di Cassese. È dunque qui che si sta decidendo quale parte del paese sarà avvantaggiata e quale penalizzata dall’autonomia.
Indovinare chi ci perderà non è difficile.
Formalmente i tecnici dovrebbero solo stimare un fabbisogno finanziario per ognuna delle funzioni Lep e fissare di conseguenza il criterio di riparto delle risorse. Praticamente come attaccare un cartellino del prezzo a ogni servizio, cosa che però è impossibile fare se quel servizio non è ben definito. A meno che, contemporaneamente, non si proceda davvero alla sua precisa definizione. Facciamo un esempio, a proposito dell’istruzione e dell’educazione fisica nelle scuole. Il Lep si limita a dire che va riconosciuto il diritto a ricevere un’adeguata formazione sportiva. Ma quanto può “costare” questo diritto? Anche molto poco, potrebbero decidere i tecnici, assumendo che sia garantito dalla disponibilità, per ogni studente, di un metro quadrato all’aria aperta dove fare le flessioni. E tanto può bastare alle regioni “povere”, pazienza se poi quelle “ricche” vorranno garantire lo stesso diritto con cinque metri quadrati di palestra al coperto e attrezzata.
Non solo, sempre a proposito di istruzione il Comitato Cassese ha evitato di considerare il tempo pieno per gli studenti della primaria un livello «essenziale». Dunque potrà continuare a non essere garantito uniformemente sul territorio nazionale, malgrado rientri tra gli obiettivi del Pnrr.
C’È POI un altro problema. Nelle slide anticipate dalla Commissione d’Orlando compare a un certo punto tra le variabili utilizzate per stimare i fabbisogni regionali anche il «costo della vita». Che presumibilmente è assai più elevato a Milano che a Crotone, sempre per esempio. Oltre a essere un modo per far rientrare dalla finestra il criterio della spesa storica, penalizzante per il Sud e che dunque si è fatto formalmente uscire dalla porta, questa previsione buttata là in sede “tecnica” non è che un trucco per riportare di attualità il feticcio leghista delle gabbie salariali.
La spesa delle regioni, per qualunque funzione «essenziale», è prevalentemente la spesa per il personale che deve assicurarle, metterle in pratica. Dunque differenziare il fabbisogno regionale sulla base del costo della vita vuol dire molto semplicemente consentire che una regione “ricca” del Nord avrà diritto alle risorse necessarie a firmare contratti integrativi migliorativi per (esempio tratto da precedenti proposte leghiste) i suoi insegnanti.
Allo stesso risultato si potrà arrivare persino aggirando il problema dei Lep, visto che Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna nelle intese preliminari sottoscritte – siamo all’epoca del governo Gentiloni – hanno già chiesto di acquisire in proprio le competenze sugli organici e sul trattamento retributivo del personale sanitario e dell’istruzione. A cosa potranno mai servire livelli «essenziali» uguali per tutti, se poi il loro contenuto sarà striminzito e se chi lavorerà per garantirli potrà essere inquadrato e retribuito in maniera difforme da Regione a Regione?
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Contraddizioni globali Voluto dal segretario Guterres, nasce azzoppato da negoziati opachi e formule neoliberiste. Analisti divisi: una grande opera di distrazione o il rilancio in extremis dell’Agenda 2030?
I delegati riuniti ieri al Palazzo di Vetro per il Summit del Futuro – Epa/Sarah Yenesel
Mentre le giornate della storia scorrono ostinatamente scandite da attacchi terroristici oltreconfine, bombardamenti indiscriminati su popolazioni inermi, pratiche genocidarie che riducono milioni di persone a un destino senza futuro; mentre le devastazioni ambientali rendono inabitabili vasti territori del pianeta, l’Assemblea generale dell’Onu è segnata quest’anno da un’iniziativa ambiziosa e ambigua, fortemente voluta dal segretario generale Antonio Guterres: il «Summit of the Future».
L’idea di un vertice sul futuro, che Guterres avrebbe voluto già nel 2023, è scaturita dal rapporto richiesto dal segretario su una strategia per il mondo dopo lo shock della pandemia (Our Common Agenda, 2021).
NELLE SESSANTA PAGINE blindate sul fil di lama dopo cinque bozze negoziali, il Patto per il Futuro approvato a New York abbraccia aree decisive come lo sviluppo sostenibile, la pace e la sicurezza, la tecnologia e la cooperazione digitale, i giovani e le generazioni future, la trasformazione della governance globale con la riforma delle istituzioni finanziarie internazionali e del Consiglio di Sicurezza.
Oltre a un’altisonante dichiarazione di intenti, sulla cui attuazione è facile prevedere ruvidi negoziati futuri, il Patto comprende il Compact Digitale Globale, per colmare «il vuoto morale e regolatorio in cui avanza l’intelligenza artificiale», secondo il segretario generale. Infine, una Dichiarazione sulle Generazioni Future: queste non dovranno più essere escluse dai processi decisionali nazionali e internazionali.
Autorevoli voci dei delegati e della società civile ritengono che questo summit sia stato una grande opera di distrazione dagli sfavillanti fallimenti della comunità internazionale sulla Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Altri analisti intravedono invece un tentativo di rilancio in extremis di quegli obiettivi. In ultima analisi, la démarche di Guterres punta a restituire centralità alle bistrattate Nazioni unite, sotto attacco per ingegno degli stessi governi, anche a costo di maggiori aperture al settore privato (corporate e filantropico) e dell’inclusione di inedite componenti della società (sportivi, influencer, etc).
Nella fattispecie del summit, però, questa aspirazione ha tratteggiato una rotta negoziale non proprio specchiata. Del tutto inconsueti i metodi di approvazione dei testi. Preoccupanti le consultazioni con improbabili interlocutori della «società civile», come è accaduto a Nairobi a maggio scorso. Tant’è.
A SUMMIT concluso, appare difficile valutare l’ostinata proiezione di Guterres sul futuro mentre il presente arranca nel fallimento di impegni già assunti e nella bruciante impotenza del diritto internazionale di fronte ai villani che ne fanno scempio senza scrupoli, forti di impunità storiche.
L’Assemblea dell’Onu ha approvato di recente, a larga maggioranza (147 voti), una risoluzione senza precedenti che traduce in impegni politici il parere della Corte Internazionale di Giustizia contro Israele. Ora che succede? Quale esito concreto avrà per la popolazione di Gaza e Cisgiordania? Domande ineludibili, dopo un anno di genocidio in diretta.
Nel discorso di apertura del summit il segretario generale – lucido nella disamina sulla poli-crisi planetaria e incalzante sulla necessità di superare il deficit di fiducia nel multilateralismo – ha invocato che non possiamo aspettare l’avvento di tempi perfetti per ridisegnare le fondamenta di assetti istituzionali vecchi, geopoliticamente sbilanciati, palesemente incapaci di dare al mondo le soluzioni che servono. Ha ragione. Non convince tuttavia la impostazione di fondo del Patto, al netto della retorica.
Il documento riesuma la crescita economica come traguardo, l’esaltazione della proprietà intellettuale contro ogni evidenza empirica, il rilancio della finanza privata e del settore privato tout court, con i suoi soluzionismi di mercato privi di regole del gioco. Il Patto somministra per l’ennesima volta le sgualcite formule neoliberali, con il solo correttivo di superare la logica del Pil per misurare la performance economica, senza intaccare le insostenibili meccaniche di potere in un’economia che produce disuguaglianza e insicurezza.
TRA LE PAGINE si legge la riproposizione di strategie di privatizzazione in nome dello sviluppo che – sappiamo bene – impediscono l’accesso a diritti fondamentali come la salute, l’educazione, il cibo, la casa. Storie silenziose di violazioni della dignità umana che non fanno notizia, eppure segnano la vita di un numero crescente di persone nel mondo, anche a pochi passi dal Palazzo di vetro.
«L’Onu non è stata creata per portare l’umanità in paradiso, ma per salvarla dall’inferno», ha scritto Dag Hammarskjöld, il secondo segretario generale delle Nazioni unite. Se non affrontiamo l’inferno del presente con interventi immediati e praticabili di rottura dell’ipocrisia mondiale non andremo da nessuna parte. Non c’è retorica che tenga. Le nuove generazioni l’hanno compreso
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Il Libano sotto i raid di Israele al sud: 365 uccisi e oltre 1.200 feriti. Tattiche identiche a quelle usate a Gaza: ordini di evacuazione ai civili, bombardamenti a tappeto e la retorica degli «scudi umani». Hezbollah risponde con 200 razzi. Dopo un anno di diplomazia paralizzata si apre oggi l’Assemblea generale Onu
Striscia continua Come in Palestina: da Beirut al confine meridionale, bombe israeliane su oltre 800 obiettivi. E Tel Aviv ordina ai civili di andarsene
Le colonne di fumo provocate dai bombardamenti israeliani su un villaggio libanese nel distretto di Nabatiyeh, a sud – foto Ap/Hussein Malla
«La mia famiglia vive a Ghobeiry, poco distante dai bombardamenti di venerdì a Haret Hreik e quelli di ieri a Bir el Abid. Venerdì mia sorella aveva portato i bambini a giocare da alcuni amici, proprio nella palazzina che è saltata in aria. Erano usciti mezz’ora prima. È da venerdì che non dormo», racconta con la voce tremula Farah, che dice di non rendersi ancora bene conto di quello che sta succedendo. «(Gli israeliani) volevano la guerra e la stanno avendo. Non sono andato in America dai miei fratelli perché sono vecchio e non voglio morire all’estero. Ma non voglio morire nemmeno così», dice in un misto di rabbia e paura Ahmad subito dopo l’esplosione a Dahieh. Spegne con frustrazione la radio della macchina che passa la notizia.
IL LIBANO È ORMAI entrato in una guerra che ricorda i peggiori conflitti della sua storia. Si contavano ancora gli uccisi e i feriti dei raid israeliani a tappeto della giornata, nel sud e l’est del paese, quando verso le 7 di sera è arrivata la notizia del lancio di tre missili su una palazzina a Bir el Abid, a Beirut, nella quale, dichiara Israele, si trovava Ali Karaki, comandante del fronte sud. Ucciso, dice Tel Aviv; vivo e in un posto sicuro, ribatte Hezbollah.
Se la notizia fosse confermata, si tratterebbe di un altro omicidio eccellente, che farebbe saltare un altro anello importante della catena di comando di Hezbollah, dopo l’uccisione di Fuad Shukri, secondo del partito-milizia il 30 luglio, e di Ibrahim Aqil, comandante dell’ala militare di Hezbollah, le Forze al Redwane, venerdì scorso. Un colpo dietro l’altro, se si tiene anche conto degli attacchi cibernetici di martedì e mercoledì.
L’esercito israeliano ha annunciato ieri di aver colpito 800 obiettivi militari o sensibili di Hezbollah. Il sud è praticamente sotto assedio dal confine a Ghaziyeh, a Sidone, a Jezzine (40 km da Beirut).
IL BILANCIO di ieri è di 1.246 feriti e 356 uccisi. Tra loro almeno 24 bambini, una quarantina di donne e due medici. Il ministro della sanità Abiad ha reso pubblico il bollettino in una conferenza stampa alle 17.30 locali (poi aggiornato in serata), dopo una mattinata di intensissimi bombardamenti su tutto il Libano del sud e sulla valle della Beka’a, a est. Ma è un bilancio destinato a salire. A Bir el Abid in serata si scavava ancora tra le macerie. Siamo nella periferia sud di Beirut, ad altissima concentrazione sciita, la stessa dove venerdì sono state
Leggi tutto: Raid a tappeto su mezzo Libano: 356 uccisi - di Pasquale Porciello BEIRUT
Commenta (0 Commenti)Nella foto: Un uomo all’ospedale oftalmico di Beirut, dopo essere rimasto ferito dall’esplosione dei cerca-persone e walkie talkie che ha colpito le milizie di Hezbollah @AP Photo/Hussein Malla
Oggi un Lunedì Rosso dedicato all’immaginazione del futuro.
Quello fosco delle guerre e della tecnologia che si trasforma in strumento di morte. Quello dei cambiamenti climatici che richiedono interventi drastici in politica e in economia.
Quello delle città insicure, dove l’abbandono pubblico e la privatizzazione selvaggia di spazi e servizi lasciano il campo libero alla rabbia e alla sopraffazione.
In questi futuri oscuri c’è però uno strumento che non va abbandonato: la capacità di vedere e inventare mondi che ancora non esistono.
Di queste visioni oltre il reale ne parla in una lunga intervista l’antropologo inglese Tim Ingold.
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Gigantesco sospiro di sollievo a Potsdam dopo i primi risultati delle elezioni in Brandeburgo, che confermano al primo posto il partito socialdemocratico di Dietmar Woidke alla guida dei governi regionali da 11 anni. Ma grande sollievo anche a Berlino, dove un crollo della Spd nel Land che circonda la capitale, e che da dopo l'unificazione è sempre stato governato dal partito socialdemocratico, avrebbe potuto innescare un terremoto tale da scuotere anche la poltrona del cancelliere Olaf Scholz. Questo pericolo per ora è scampato, la Spd è prima davanti all'AfD e ciò probabilmente servirà a stemperare le voci di un possibile cambio del candidato cancelliere della Spd alle politiche nell'autunno 2025: il popolare ministro della difesa Boris Pistorius al posto dell'impopolare Scholz.
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