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C’è da augurarsi che gli angeli del fango, finito il loro meritorio impegno, si facciano “angeli del sole e del vento”,
per evitare altro fango da spalare in futuro

 Volontari liberano strade e abitazioni dal fango a Sant' Agata sul Santerno - Ansa

“La maledizione della noce moscata” di Amitav Ghosh racconta come nel 1855, in quello che oggi è l’Oregon, un capo dei nativi americani Cayuse, si rifiutò di firmare un trattato perché sentiva che ignorava la voce della terra. Perché i nativi americani, come gli indios dell’Amazonia, e quelli delle isole Banda, dai quali ( dalla loro noce moscata, il libro di Ghosh prende le mosse), la voce della terra, dei fiumi, degli animali sapevano sentirla. E capirono subito che la riduzione della terra a realtà inerte, a pura materia da usare a nostra discrezione, era la premessa per considerare la maggior parte degli esseri viventi che la popolano come cose. Anche gran parte del genere umano, sulla base del colore della pelle, della religione, della lontananza dalle tecnologie, e persino per la pretesa di considerare la natura viva e parlante. Videro lucidamente la nascita di quel capitalismo coloniale ed estrattivista che ha contrassegnato la storia fino ai nostri giorni.

Certamente la voce della terra non hanno nemmeno provato a sentirla quelli che hanno riempito di cemento la pianura alluvionale della val Padana e della Romagna, e hanno costruito case, fabbriche, strade a ridosso dei corsi d’acqua, dopo averli imbavagliati dentro argini rigidi ed inutilmente alti, e rinchiuso polli e maiali in allevamenti intensivi che fanno male a loro e al clima. Né quanti in cerca di una vita apparentemente più dignitosa, attratti dal mito della velocità e del consumismo, ma spesso per avere vicino una scuola o un ospedale, stanchi di custodire territori e paesi sul cui futuro politica ed economia avevano smesso di investire, hanno abbandonato colline e montagne.

La calata a valle di quel popolo, che era quello che curava il territorio, che lo terrazzava, che sapeva fare i muretti a secco, rispettare il corso dei torrenti, ha preceduto la calata

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UCRAINA. Intervista a Piero Bartolo, parlamentare europeo del gruppo Socialisti e Democratici che ieri a Bruxelles si è astenuto sul piano munizioni

 Piero Bartolo - LaPresse

Piero Bartolo, medico dei migranti a Lampedusa e parlamentare europeo eletto nelle liste del Pd e membro del gruppo dei Socialisti e Democratici, ieri un aula a Bruxelles si è astenuto sul piano munizioni. «Ho deciso di astenermi perché la mia linea è sempre stata questa -spiega Bartolo – Sono contro la guerra e contro l’uso delle armi».

Come ha motivato questa scelta al suo gruppo?
Avrei voluto sentire parlare di negoziati e di diplomazia più che di guerra, a maggior ragione se per la produzione di armi si utilizza il Pnrr, cosa che non condivido assolutamente. Come tutto il gruppo Socialisti e Democratici e la delegazione del Pd sono dalla parte dell’Ucraina ma ho sempre cercato di lavorare per trovare uno spiraglio, un percorso alternativo a morte devastazione. Spero che l’Europa possa cominciare trovare il modo di aprire delle trattative. Sia la nostra Costituzione che le idee fondanti dell’Europa ci indicano questa strada.

La accuseranno di essere un’idealista.
Sono orgoglioso di essere pacifista e anche buonista, se qualcuno vuole definirmi tale. Essere per la solidarietà, l’accoglienza, le condivisioni di responsabilità non significa a tutti i costi usare le armi per fermare una guerra.

Pensa che il voto sulle munizioni segni un passaggio di fase in questa vicenda?
Intanto spero non ci sia un’escalation militare. Continuare su questa strada porta a ulteriori disastri. Nella proposta che si è votata ma anche in altre occasioni non ho sentito mai parlare di pace. Certo che stiamo con gli aggrediti! Ma bisogna trovare una soluzione. Vede, ormai sei mesi fa abbiamo dichiarato la Russia paese terrorista. Io ho votato contro quella proposta, proprio per lasciare uno spiraglio alla diplomazia e i negoziati. E consideri che non ho mai odiato nessuno in vita mia, ma forse Putin un po’ lo odio.

C’è il rischio che sia solo un pezzo dello spostamento di risorse dal sociale al militare?
Auspico che non vengano utilizzati davvero i fondi che abbiamo lottato tanto per avere per aiutare i paesi membri. Di questa partita, voglio ricordarlo, fanno parte anche i fondi di coesione che servono ad alcune regioni svantaggiate per mettersi in pari. Tra le quali c’è anche la mia Sicilia.

In un quadro europeo, e in vista del voto del prossimo anno, crede che il suo gruppo avrebbe dovuto assumere una posizione più netta?
Voglio dire che nessuno della mia delegazione ha avuto imposizioni. Non c’è stata alcuna forma di pressione. Siamo stati liberi di votare seguendo le nostre idee, questa è una prova di democrazia. Certo, se ho votato in un certo modo speravo che accadesse che i miei colleghi smettessero di rincorrere gli altri. Dopo aver dichiarato la Russia paese terrorista non possiamo più trattare, ma possiamo ancora cercare terze vie per fermare le morti e la distruzione dell’Ucraina. L’Europa dovrebbe servire esattamente a scongiurare guerre di questo tipo, le guerre portano oltre che morte anche a migrazioni e disagi enormi per le persone che devono scappare via dalla loro terra. E qui non mi riferiscono solo agli ucraini.

Il clima di guerra sta favorendo la nascita di una maggioranza alternativa di conservatori e popolari al parlamento europeo?
Questa deriva di destra non può che arrecare danno all’Europa che doveva essere una federazione. Il sogno si allontana, per questo nell’anno che ci resta prima delle prossime elezioni europee dobbiamo riportare l’Ue sulla strada maestra della democrazia e dei valori, respingendo l’avanzate dei paesi che non rispettano i diritti, parlo di Ungheria e Polonia ma temo anche per l’Italia. Dobbiamo scongiurare tutto questo dando le risposte giuste. E sì, certamente: i socialisti e i democratici hanno una grande responsabilità in tutto questo

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No ad un’altra sconfitta. Bisogna neutralizzare i gravi effetti distorsivi della rappresentanza prodotti dal Rosatellum, concordando candidature comuni nei collegi

Pd e M5S, subito il nodo «alleanze» e un progetto alternativo alle destre

Cosa pensano di fare, specie il Pd e il M5S, di fronte all’esito deludente delle elezioni amministrative? È evidente che è saltato lo schema che li stava ispirando: visto che le prossime elezioni europee si svolgeranno con il proporzionale, l’idea era che ciascuno puntasse intanto a consolidare la propria posizione, senza assumere impegni troppo vincolanti per il futuro (che, poi, tanto distante non è: nel 2024 votano molte città e nel 2025 importanti regioni).

Questo schema non è più sostenibile, ci si illude se si pensa che questo gioco delle distinzioni «paghi» in termini di consenso, e lo si è anche appena visto nelle urne. E si illude Conte, in particolare, se ritiene che, a preservare un elettorato del M5S quanto mai volatile, possa bastare il richiamo identitario ad alcuni temi o il marcare le distanze dal Pd. La realtà è che l’assenza di un progetto politico alternativo alla destra produce un effetto di smobilitazione e un senso di impotenza, non trasmette l’idea di una partita aperta e competitiva. E tutto ciò è causa non ultima di un astensionismo che continua a colpire soprattutto a sinistra. E allora, forse occorre richiamare i termini nudi e crudi della questione: scontati, forse, ma che evidentemente molti pensano ancora di poter eludere.

A partire da un dato di fatto: la legge elettorale non cambierà. È del tutto evidente la convenienza della destra a conservare un modello che obbliga alla costruzione di coalizioni preventive. E allora, cosa fare per evitare il remake del 25 settembre? Abbiamo sotto gli occhi le conseguenze della miopia (una vicenda che deve essere ancora ricostruita, in tutti i suoi risvolti) con cui molti «sonnambuli», nell’estate del 2022, non hanno capito, o hanno finto di non capire, cosa sarebbe successo. Non possiamo permetterci che la storia si ripeta.

Per questo, non porsi già ora la questione delle alleanze è deleterio. Gli aspetti tecnici di futuri accordi elettorali tra tutte le forze della «non-destra» saranno discussi a tempo debito; ma bisogna aver ben chiaro che non c’è altra strada se non quella di provare a neutralizzare i pesanti effetti distorsivi della rappresentanza prodotti dal Rosatellum, concordando candidature comuni nei collegi. Non si può giocare una partita a prescindere dai vincoli che impongono le regole date. La mossa di Sanchèz in Spagna si spiega anche sulla base di un presupposto: costringere Sumar e Podemos, che stavano litigando, a presentare una lista unica a sinistra, fattore fondamentale – dato il sistema elettorale spagnolo – per contendere a Vox la terza posizione nei vari collegi e il conseguente, decisivo pacchetto di seggi.

Il problema immediato è invece quello di costruire le premesse politiche di questa futura alleanza elettorale. E qui occorre inventarsi qualcosa: ad esempio, si potrebbe ipotizzare che, tra tutte le forze interessate, si costruisca un accordo a più livelli. Una convergenza programmatica quanto più ampia possibile (e su questo si deve subito cominciare a lavorare); ma anche la schietta ammissione che su alcuni temi resteranno delle differenze, evitando che queste si traducano in distruttive divisioni. Troppo astruso? E quale sarebbe l’alternativa? Se qualcuno ha un asso nella manica, lo tiri fuori.

Cosa si oppone alla ricerca di questa via? In genere, ci si riferisce alla «litigiosità» dei gruppi dirigenti, alla loro auto-referenzialità. Giusto, ma forse esistono ostacoli altrettanto rilevanti, e che riguardano gli elettori. Chi si oppone alle grandi alleanze lo fa in genere appellandosi ad un argomento: le «ammucchiate» non pagano, meglio «stare da soli» nella chiarezza delle proprie posizioni. Sulla base di questo presupposto, il bipolarismo asimmetrico e squilibrato che abbiamo di fronte si potrebbe risolvere solo «spostando» gli elettori; cioè, convincendoli. Ottimo proposito; ma obiezione del tutto astratta: è chiaro che le elezioni si vincono innanzi tutto sulla base della capacità di mobilitazione del proprio potenziale elettorato.

Il blocco della destra è molto forte, ma non è maggioritario: decisivo è il fatto che gli elettori della destra-centro sono coesi e «di bocca buona», e scelgono ciò che, di volta in volta, offre loro più garanzie: non pretendono troppo dalla politica, se non la salvaguardia dei propri interessi o di quelli che ritengono tali. Dall’altra parte, no: ci sono molti elettori puntigliosi, esigenti, sospettosi. E ci sono culture e tradizioni gelose della propria storia. E una pletora di idiosincrasie. È una virtù, ma solo fino ad un certo punto. Si paga qui il prezzo anche di una singolare subalternità alla cosiddetta «cultura del maggioritario»: ogni alleanza «elettorale», di per sé, viene vissuta come «politica».

Ma è solo la fragilità della propria identità che porta ad attribuire un’enfasi smodata al problema del «chi sta con chi», ai proclami roboanti sul mai con questo o quello», e a definirsi così solo in funzione delle buone o cattive compagnie. È bene discutere, tra le non-destre, anche di questo: non vorremmo che, accanto alla celebre invettiva di Nanni Moretti (che conserva sempre una sua attualità) se ne debba introdurre un’altra, rovesciata: «Con questi elettori non vinceremo mai!»

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KOSOVO. Si può capire quel che accade in questi giorni solo riavvolgendo la storia degli ultimi 24 anni, a partire dal 24 marzo 1999 quando la Nato iniziò la sua guerra «umanitaria». Fu la prima guerra in Europa, dopo l’89 e l’implosione dell’Urss, gestita dalla sinistra atlantica, alla ricerca della sua «costituente» legittimazione di governo

La strana Nato filoserba: Kosovo via dalle manovre

Si riaccende in modo violento la crisi in Kosovo. Non si era mai spenta, l’avevano solo silenziata. Ma lì in 24 anni dalla guerra umanitaria della Nato del 1999, è andato in onda uno stravolgimento del diritto internazionale che non ha pari nella storia e che è stato sicuramente viatico di tutte le guerre che sono seguite.

I serbi – i pochi rimasti in enclave sparse e nel ghetto del nord in quattro paesi – sono in piazza ogni giorno dopo i violenti scontri dei giorni scorsi con tanti feriti tra militari Nato e civili, presidiano le loro città: protestano da due anni contro le imposizioni e le provocazioni del governo kosovaro-albanese, a cominciare da quelle delle targhe obbligatorie di uno Stato che non è da loro riconosciuto – e da molti paesi Ue e da metà di quelli dell’Onu -, per il mancato riconoscimento della Comunità delle municipalità serbe, organismo deciso da accordi internazionali nel 2013, e per la presenza massiccia da mesi di forze militari speciali kosovaro-albanesi; per questo da molti mesi boicottano elezioni e istituzioni, con dimissioni in massa di agenti, magistrati, deputati, sindaci.

Ecco che è scattata la provocazione del premier di Pristina Kurti che ha deciso elezioni suppletive ad aprile proprio nei Comuni dove i serbi avevano deciso di non candidarsi. Ne è uscito un imbroglio con i soli voti al 3% dei pochi albanesi presenti nel nord a maggioranza ancora serba.

Ha fatto il resto la decisione unilaterale di insediarli – contro la quale, con occhio alla crisi ucraina, si è espresso anche il «filoserbo» segretario di Stato Usa Antony Blinken.

MA CAPIRE TUTTO QUESTO è possibile solo riavvolgendo il nastro di questa storia. Testimoniata a partire dal 24 marzo 199 direttamente mentre piovevano bombe su tutta la piccola Jugoslavia (Serbia con Vojvodina e Kosovo, e Montenegro). Quando di notte nella bella Novi Sad la meraviglia dei tre ponti moderni della città venne spezzata dai bombardieri partiti da Aviano. Ma il dolore vero fu correre per giorni a raccogliere notizie e resti umani, come nel cratere di Surdulica, tra case contadine con i resti di anziani e bambini. Difficile raccontare che tra le case popolari di Belgrado avevamo visto chiuse nei rifugi tante famiglie terrorizzate. Mentre la guerra aveva ormai come primo target l’informazione: i media ufficiali pendevano dalle labbra di Jamie Shea.

ERA IL PORTAVOCE della Nato che cianciava di «effetti collaterali» e «bombe intelligenti». Invece scoprivamo tante stragi di civili. Per questi «risultati» vennero utilizzati in 78 giorni di bombardamenti aerei ininterrotti, 1.200 aerei per un totale di 26.289 azioni accertate, 10.000 Cruise, 2.900 missili e bombe. Nel corso di 2.300 attacchi, su 995 target furono scaricate 21.700 tonnellate di esplosivo – spesso all’uranio impoverito -, compresi 152 container con 35.450 cluster bomb. Su istituzioni, scuole, ospedali, treni, mercati, autobus, infrastrutture. Come raccontarlo? Luigi Pintor inventò una prima pagina bianca de il manifesto che fece il giro del mondo: in calce gridava: «I bambini non ci guardano».


MA CI FURONO IN ITALIA anche troppe pagine nere, come quelle che giustificarono il bombardamento della tv di Belgrado, con 16 vittime, colpita dai missili Cruise in mezzo alle case dei belgradesi, ai panni stesi sui terrazzi, con i cavi tranciati che piovevano nel quartiere una specie di neve chimica.

A 24 anni di distanza, a che sono servite quella guerra e quelle menzogne? La menzogna diplomatica di Rambouillet che imponeva alla Jugoslavia di essere tutta presidiata dalla Nato? La bugia di Racak, il casus belli sostenuto dall’uomo della Cia William Walker che guidava la missione Osce che doveva mediare tra le parti? Perché fino al 24 marzo c’erano vittime e profughi da una parte e dall’altra. Come dimostrò l’incriminazione prima dell’ex premier Ramush Haradinay, capo dell’Uck – organizzazione terrorista anche per gli Usa fino al 1998 – nella Drenica, all’Aja per stragi di civili rom e serbi già nel 1998. E come denunciò Carla Del Ponte nel suo libro («La caccia», ed. Feltrinelli) e un rapporto del Consiglio d’Europa: nel 1998 molti civili serbi furono sequestrati proprio dall’Uck per un barbaro mercato di espianto di organi, per il quale è sotto accusa all’Aja Hashim Thaqi il leader indiscusso dell’Uck poi presidente kosovaro.

COSÌ, CON I RAID AEREI, si volevano salvare i profughi in fuga albanesi? Che fuggivano non solo per timore delle milizie serbe ma, per la stessa Corte penale kosovaro-albanese che lo stabilì in un processo nel 2001, anche perché terrorizzati per i raid della Nato. E avevano ragione, perché centinaia di loro furono letteralmente inceneriti dai missili «intelligenti».

Ma i risultati di quella «guerra sciagurata» – così la definì Claudio Magris – ci sono. Eccome. La Nato da coalizione di difesa è diventata offensiva, da lì in poi dispiegata in tutto il mondo. La contropulizia etnica di 300mila serbi e rom cacciati sotto gli occhi della Nato e mai più rientrati, insieme alla distruzione di 150 monasteri ortodossi. Inoltre l’edificazione in Kosovo, di Camp Bondsteel, la più grande base militare Usa in Europa. Infine l’indipendenza autoproclamata del Kosovo del 2008, che spacca ancora il Consiglio di sicurezza Onu e l’Ue ed è riconosciuta solo dalla metà dei circa 200 Paesi delle Nazioni unite. Nel disprezzo del diritto internazionale, perché la guerra umanitaria dei 78 giorni di raid finì con la pace di Kumanovo del giugno 1999, documento diventato Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu: imponeva alla Serbia il ritiro temporaneo del suo esercito, permetteva l’ingresso temporaneo dei contingenti Nato ma riconosceva la sovranità di Belgrado sul Kosovo.

Zevcan,una macchina della polizia brucia durante gli scontri degli scorsi giorni foto Ap


ORA QUELL’ACCORDO
 è carta straccia con il diritto internazionale, anche grazie all’Italia che nel 2008 riconobbe l’ultima indipendenza etnica dei Balcani dopo tutte quelle che avevamo riconosciuto aiutando i nazionalismi criminali, che hanno devastato la struttura federale jugoslava. Una indipendenza unilaterale che rappresenta un precedente pericoloso, come dimostrò in quello stesso anno il conflitto tra Georgia e Russia, accorsa in armi a difendere il «suo Kosovo» in Ossetia e Abkhazia. E la guerra in Ucraina con l’aggressione russa del febbraio 2022, che però dopo gli oscuri fatti di Majdan era iniziata nel 2014 come guerra civile, con la secessione del Donbass-Kosovo e la riannessione della Crimea, dopo referendum, alla Russia. Tante le ferite che si sono riaperte. E che si ripropongono a specchio una dell’altra. Perché in Kosovo nel 1999 la Nato fu protagonista, contro l’Onu, di una guerra d’aggressione con una operazione speciale di polizia internazionale che chiamò «guerra umanitaria».

QUALE SEGNALE HA inviato questa scellerata decisione – con tutte le altre guerre in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria – alla Russia di Putin se non quello di riaccreditarsi a sua volta, in chiave guerrafondaia, ipernazionalista e di potenza militare, con una nuova guerra d’aggressione e di crimini contro i civili, anche per lui sinonimo di impunità e che dura ormai da un anno e tre mesi? E a che cosa è servita se dopo 24 anni sotto la maschera della pax atlantica, la crisi riesplode. Ora tutti commentano che «la Russia soffia sul fuoco». Certo Putin fa il suo sporco gioco e soffia sul fuoco… ma il fuoco in Kosovo chi lo ha acceso?

Un fatto è certo. Quella del 1999 è stata la prima guerra post-moderna in Europa, nel suo sud-est, sospesa tra l’uso della forza che riproduce la forza e l’immaginario del potere occidentale, dopo l’89 e l’implosione dell’Urss, gestita dalla sinistra atlantica di governo alla ricerca insieme del nuovo nemico e della sua «costituente» legittimazione attraverso un conflitto armato.

 

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COMMENTI. Che le carceri turche siano piene di prigionieri politici, oppositori curdi e giornalisti (molti in esilio) e che i media siano nella morsa del potere, sembra importare a pochi

Congratulazioni a Erdogan e ai “nostri” amici dittatori Foto Ap

In un conciso libretto dal titolo “Il malessere turco” (edizioni il Canneto), il saggista Cengiz Aktar fa notare che l’ascesa dell’autocrazia e delle derive ultranazionaliste e fasciste in questo Paese non è avvenuta come accadde in Europa come conseguenza di crisi sconvolgenti ma in uno stato storico membro della Nato, con un’economia promettente (naturalmente salvo l’ultima fase) e l’ambizione (ormai lontana e non più desiderata) di entrare nell’Unione europea. Risultato: oggi nel nuovo Parlamento saranno non più di 100 su 600 i deputati che potremmo definire autenticamente democratici e anti-fascisti.

Eppure oggi tutti si congratulano con Erdogan artefice massimo di questa deriva: dalla Casa Bianca a Macron, da Israele agli europei, oltre naturalmente all’ «amicone» Putin, che Erdogan ha elogiato nella sua ultima intervista alla Cnn. Erdogan è l’unico filo-putiniano che nessuno si permette di criticare anche qui in Occidente, visto che media sul grano ucraino e russo mentre sul Bosforo tiene le chiavi del Mar Nero. Che le carceri turche siano piene di prigionieri politici, oppositori curdi e giornalisti e che i media siano nella morsa del potere, sembra importare a pochi.

Questo purtroppo è il segnale che l’Occidente è già pronto a convivere con Erdogan e nessuno si aspetta di avere a che fare con un leader più malleabile. Del resto sono il suo ultra-nazionalismo, il mito rinato dell’impero ottomano, la politica estera spericolata, che gli hanno ridato la vittoria, non i calcoli sull’inflazione in aumento oppure i suoi errori nella gestione della tragedia del terremoto. Persino l’opposizione ne è stata contaminata visto che faceva a gara con Erdogan su come liquidare la presenza di alcuni milioni di profughi siriani.

Se è vero, come sottolineava ieri Michele Giorgio sul manifesto, che per le sue ambizioni regionali Erdogan ha bisogno di Israele e Golfo, il “reiss” turco comunque nella regione sta sfilando insieme a un lungo corteo di autocrati e dittatori che si sta riposizionando.

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Per le sue ambizioni regionali Erdogan ha bisogno di Israele e Golfo

La rielezione di Erdogan coincide con il ritorno del siriano Bashar Assad nel grembo al mondo arabo, come se nulla fosse accaduto, il generale egiziano al Sisi, finanziato dagli Usa e dai sauditi, riceve il nostro ministro della Difesa Crosetto ma anche il procuratore generale di Mosca, il principe Mohammed bin Salman cerca la pace con l’Iran e accoglie a Gedda il dittatore siriano come pure il leader ucraino Zelenski. E che Zelenski abbia accettato di farsi fotografare al vertice della Lega araba con un corteo di despoti e monarchi assoluti la dice lunga sulla sua affannosa ricerca di alleati.

Ma ci vorrà più di un visita per allontanare il principe assassino – mandante dell’omicidio del giornalista Jalal Khashoggi – da Putin, compagno di strada del regno saudita nell’Opec allargato, e rinunciare alla manna finanziaria piovuta sui produttori dei petrolio e gas con la guerra in Ucraina.

Erdogan fa scuola. La Turchia è un alleato nella Nato che non solo non mette sanzioni a Mosca ma collabora con la Russia in ogni campo: dalle importazioni di gas all’energia atomica e da quando è iniziata l’invasione russa ha raddoppiato gli scambi commerciali con il Cremlino. Ankara ha aiutato con i suoi ormai famosi droni Bayraktar il governo di Kiev contro l’aggressione di Mosca ma si guarda bene dal recidere i legami con la Russia.

Eppure la Turchia in Libia è schierata con il governo di Tripoli contro il generale Haftar sostenuto da Mosca e dalla Wagner mentre appoggia l’Azerbaijan contro l’Armenia, vecchio alleato di Mosca. Come pure la Turchia si era schierata contro Assad in Siria, dove occupa militarmente parti di territorio curdo, mentre il leader di Damasco è rimasto in piedi con il sostegno della Russia e dell’Iran.

Contraddizioni che possono sembrare inaccettabili: ma non da Putin, Erdogan e dai loro compagni di strada.
Per la verità un tratto in comune tutti questi regimi dall’Egitto alla Turchia, dalla Siria all’Arabia saudita ce l’hanno: sono amici di Mosca. Anzi continuano a collaborare in vari campi da quello energetico alle forniture militari. Come del resto fanno i governi di Cina e India e di quasi un terzo dell’umanità, dall’Asia, all’Africa al Sudamerica. E se poi andiamo a vedere i parternariati economici ci si accorge che i sauditi sono tra i primi fornitori e clienti della Cina il cui leader Xi Jinping era stato accolto a Riad con tutti gli onori.

Anche l’amicizia con la Cina, che si guarda bene dall’osservare la carta dei diritti umani, è un altra caratteristica comune di questi regimi: nessuno ha dato minimamente retta alla condanna venuta dal recente vertice dei G-7 di Hiroshima per contenere l’avanzata economica, militare e tecnologica di Pechino. Questo si chiama oggi mondo multipolare, dove la maggior parte dei Paesi un tempo legati all’Occidente fanno quello che pare a loro in funzione dei propri interessi nazionali e regionali. Erdogan docet

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Qui come un terremoto", frane e strade interrotte in Appennino

A proposito dei "fiumi diventati piste da bowling", nei primi giorni dell'alluvione essendo sfollato in altra zona ho rivisto Rossi, un ex collega della Cisa che è nato alla Seghettina, zona diga di Ridracoli. Parlando dell'alluvione ha ricordato che il suo nonno e gli altri abitanti di quelle valli appena iniziava a piovere partivano subito con vanga, badile e soprattutto zappa, ognuno a liberare i fossi critici del proprio bosco/terreno.

La stessa cosa ricordo raccontata con enfasi ed ammonimento anche da mio nonno che viveva ad Albero sopra Marradi. Lo facevano per scongiurare che l'acqua piovana non potendo scorrere si accumulasse  provocando una frana (un d'lat lo chiamava in dialetto mio nonno).

Ma stiamo parlando di abitanti insediati nel territorio da generazioni, che pur cambiando podere restavano nella stessa zona e trattavano il tema pioggia come il top delle problematiche, sia quando c'era che quando mancava; anche perché a volte il loro impegno non scongiurava frane ed allagamenti perché anche allora in quelle valli le piogge potevano essere molto forti e durature.

Oggi che.... quelli che avevano questa mentalità sono tutti morti, quelli venuti dopo sono tutti andati via.... penso che sarà impossibile riuscire a ripristinare un equilibrio che non c'è più.

Aggiungo (su quei montanari), che traevano quel poco che ricavavano per vivere dai castagneti e da campi oggi rimboschiti naturalmente, campi che sembra impossibile potessero essere coltivati, per la pendenza elevata, con l'unico ausilio delle mani e di un tiro di buoi quando si poteva.... Quei montanari appunto gestivano la sistemazione del pendio durante tutto l'anno come la priorità su tutto, fosse secco o piovoso, valutavano e commentavano l'esito di un acquazzone decidendo come intervenire, ma soprattutto se pioveva a dirotto partivano (bagnandosi) per controllare la situazione ed intervenire se necessario.

Questa cosa  è continuata come atteggiamento anche quando la mia famiglia è  emigrata sotto Faenza (je avnù zô cun la fiumana li appellavano i residenti storici, ribadendo l'aspetto del legame con il fiume). Ricordo con esattezza la loro ansia se la pioggia continuava a lungo, le loro continue uscite di casa con la "gabanna" aggiunta sulle spalle e la "caplena in sla zôca" per controllare l'effetto della pioggia in un luogo che non era più in pendenza e quindi meno vulnerabile.

L'avevano talmente impresso nel DNA (aspetto che ho citato in un breve ricordo di mio babbo quando è morto), che pulivano 2/3 volte l'anno (con falce, vanga, badile e zappa), i fossi stradali e poderali di pertinenza da erba, terra, ceppi, rifiuti gettati, guardati con curiosità e sufficienza dai confinanti (che svolgevano si questa attività ma solo in presenza di evidenti ostacoli e di erba molto fitta), e ad essere sinceri, anche dal sottoscritto che non comprendeva tale dispendio di fatica.

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