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GUERRE E PACE. Intervista al vescovo di Altamura e presidente di Pax Christi: «Oggi in cammino con la PerugiAssisi. Ora con gli F-16 si imbocca una strada senza uscita». E il Vaticano conferma: Francesco ha affidato al cardinale Zuppi l’incarico di una missione di pace

Monsignor Ricchiuti: «Il paese sta affondando e noi finanziamo una guerra» La marcia PerugiAssisi - Aleandro Biagianti

Il messaggio di papa Francesco ai leader del G7 riuniti a Hiroshima era chiaro: le armi «rappresentano un moltiplicatore di rischio che dà solo un’illusione di pace». La risposta arrivata dai sette grandi altrettanto chiara: nuovi aiuti militari a Kiev, fra cui i caccia F-16.

Cosa che ha fatto dichiarare al presidente ucraino Zelensky su Twitter: «Sicurezza e cooperazione rafforzata per la nostra vittoria. La pace diventa più vicina oggi». E, sul fronte russo, al vice ministro degli Esteri, Grushko: «Rischi colossali» per i Paesi occidentali se forniranno a Kiev gli F-16.

Insomma l’escalation è evidente. Contrariamente agli auspici del pontefice che, nella lettera inviata al vescovo di Hiroshima, monsignor Shirahama, si augura che il vertice del G7 «dia prova di una visione lungimirante nel gettare le fondamenta per una pace duratura».

Proprio Hiroshima «proclama con forza l’inadeguatezza delle armi nucleari per rispondere in modo efficace alle grandi minacce odierne alla pace», aggiunge Bergoglio, «né dobbiamo sottovalutare gli effetti del persistente clima di paura e sospetto generato dal mero possesso delle stesse».

Intanto va avanti – nonostante le chiusure di Kiev e Mosca – la «missione di pace» della Santa sede di cui si parla da quando il papa è tornato da Budapest.

Tempi e modalità sono ancora «allo studio», ma il direttore della sala stampa vaticana ieri sera ha confermato che Bergoglio ha affidato al cardinale Zuppi «l’incarico di condurre una missione, in accordo con

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malterritorio romagnolo

La narrazione che imperversa sulle alluvioni in Emilia-Romagna è  tossica e nasconde le responsabilità reali. Responsabilità che non sono del «meteo». E nemmeno, genericamente, del «clima», termine usato da amministratori e giornalisti più o meno come sinonimo di «sfiga».

Le piogge di questi giorni stupiscono, sembrano più eccezionali di quanto non siano, perché arrivano dopo un inverno e un inizio di primavera segnati da una protratta, inquietante siccità. E di per sé non sarebbero affatto «maltempo», concetto fuorviante, deresponsabilizzante e dannoso. Come diceva John Ruskin, «non esiste maltempo, solo diversi tipi di buontempo». A essere mala è la situazione che il tempo trova.

Veniamo da lunghi mesi a becco asciutto: montagne senza neve, torrenti e fiumi tragicamente in secca, vegetazione e fauna in grave sofferenza, contadini disperati, prospettive cupe per l’estate prossima ventura (già quella scorsa è stata durissima)… In teoria, le piogge dovremmo accoglierle con giubilo.

Giubilo moderato, certo: chi conosce la situazione sa che, per vari motivi, queste piogge concentrate in pochi giorni non compenseranno la siccità. Quest’ultima tornerà ad attanagliarci. In Nord Italia – arco alpino e val padana – nel 2022 le precipitazioni sono state inferiori anche del 40% rispetto alle medie del ventennio precedente. Questo è il nuovo clima, ed è qui per restare. Non solo: gran parte dell’acqua venuta giù in questi giorni sarà inutile (ne parliamo tra poco).

Nonostante tutto ciò, a rigore, che finalmente piova è buona cosa. Piace a tutti che quando si apre il rubinetto esca l’acqua, no? Da dove si crede che venga, quell’acqua, se non dal cielo?

Il motivo per cui la pioggia sta avendo conseguenze dannose e a volte letali è presto detto:

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INTERVISTA AL DIRETTORE DEL CENTRO ITALIANO PER LA RIQUALIFICAZIONE FLUVIALE. Ieri mattina ai microfoni di Radio 24 il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha attaccato «alcuni pezzi di cultura ambientalista», in particolare quelli che vivrebbero «al […]

«Meno argini e dighe, i fiumi hanno bisogno di libertà»

Ieri mattina ai microfoni di Radio 24 il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha attaccato «alcuni pezzi di cultura ambientalista», in particolare quelli che vivrebbero «al loft del ventesimo piano del grattacielo, per cui è più facile dire no che sì». Non sappiamo a che piano viva Andrea Goltara, direttore del Cirf, il Centro italiano per la riqualificazione fluviale, ma è certo che non ha apprezzato le parole del ministro, in particolare quando ha detto che «con questo clima l’assoluta libertà dei fiumi può creare danni», attaccando chi non vorrebbe nessun opera e che frenerebbe l’esigenza «di trovare un punto di equilibrio, per la convivenza dell’uomo con la natura, e qualche opera va fatta». Pichetto elenca dighe, grandi vasche di laminazione, gli argini in alcuni luoghi.

Andrea Goltara

Non serve un piano straordinario per realizzare un’ulteriore cementificazione del territorio, ma per restituire spazio all’acqua
Che cosa vorrebbe dire a Pichetto Fratini?
Le affermazioni del ministro chiaramente dimostrano che questo governo ancora non ha capito l’urgenza di cambiare direzione. In Emilia-Romagna non è che manchino gli argini, che non hanno retto, ma siamo di fronte a contesti di esondazione di fiumi canalizzati da un secolo. Affrontiamo eventi di tale eccezionalità che ci fanno capire come l’assetto attuale di uso del territorio e del sistema di difesa dalle alluvioni non è più sufficiente, la soluzione non può essere rinforzare le opere esistenti, artificializzando ulterioremnte il territorio. Bisogna restituire libertà e spazi ai corsi d’acqua, lo so che è un passo difficile, epocale, che richiede molti sforzi, ma è ineludibile. Non serve un piano straordinario per realizzare un’ulteriore cementificazione del territorio, ma per restituire spazio all’acqua.

È una posizione da ambientalista radical chic?
No, lo dice anche il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Quando il ministro dice che chi non vuole nuovi argini rappresenta la posizione del no, non ha capito: arretrare gli argini, ricostruire opere più lontane dai corsi d’acqua, sono interventi e investimenti importanti che sarebbero anche economicamente vantaggiosi.

Perché l’equilibrio attuale non regge più?
È un sistema fragile, che si basa sul fatto che la struttura arginale tenga sempre e ovunque. Una fragilità locale crea danni enormi. L’Idice dov’è esondato, alle porte di Bologna, era canalizzato così dagli anni Cinquanta, perché l’equilibrio che ha retto per tanti anni oggi non c’è più, gli eventi attuali sono ormai completamente diversi. Le statistiche che danno conto della Mappe del rischio sono costantemente messe in discussione: gli eventi alluvionali diventano molto più frequenti nel giro di pochi anni. Il problema non riguarda solo l’Emilia-Romagna: la Liguria, ad esempio, ha appena approvato una revisione della mappatura del rischio per poter costruire anche in zone oggi considerata a rischio elevato. Far costruire in zona esondabili è una scelta gravissima. Quello che fa il governo è portare avanti o palliativi o interventi contro-producenti, come il decreto che prevede la possibilità di raccogliere il legname dai fiumi, misura che secondo alcuni ridurrebbe il rischio, cosa palesemente senza senso. Questo significa, in concreto, liberalizzare la manutenzione dei corsi d’acqua, un processo assurdo che nega la pianificazione di bacino con interventi locali e spot senza alcun criterio. Tutto questo perché non c’è comprensione dei fenomeni che abbiamo davanti.

L’acqua dei fiumi lasciata libera crea più danni?
Il contrario: restituire spazio ai fiumi significa fare qualcosa di utile e coerente con i piani di adattamento. Non capiscono cosa significhi lasciare spazio ai corsi d’acqua. In Pianura Padana nessuno immagina di lasciarli liberi di esondare, ma di risolvere il problema di un eccesso di canalizzazione che non sta più in piedi

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INTERVISTA . Il presidente dei geologi dell'Emilia Romagna Paride Antolini e il consumo di suolo

«Case e terre coltivate, la pressione dell’uomo è insostenibile» Paride Antolini - Fonte web

 

«Ora è facile parlare di manutenzione degli argini o di casse di espansione. A Cesena le casse di espansione per abbassare la piena del Savio sono in costruzione, com’è giusto che sia. Ma anche ragionando con il senno del poi, con l’acqua caduta in questi giorni avrebbero potuto fare ben poco».

Paride Antolini, il presidente dell’ordine dei geologi dell’Emilia-Romagna, risponde sconsolato a chi gli chiede se qualche opera pubblica in più avrebbe scongiurato l’inondazione nella sua Cesena, la città dove vive e lavora. Antolini però non assolve nessuno. «Va avanti così dal dopoguerra. Oltre alla politica, anche noi cittadini dobbiamo fare autocritica».

Per quali responsabilità?
Chi non ha fatto pressione per avere un permesso per costruire, per ampliare, per cambiare destinazione a un terreno? Basta confrontare le foto aeree scattate nella seconda guerra mondiale e le foto satellitari di oggi per accorgersene. I privati hanno fatto tante richieste e l’amministrazione le ha assecondate. Hanno iniziato i romani, hanno proseguito gli estensi e poi il papato: tutti hanno rubato terra all’acqua per farne terreni coltivabili o per nuove costruzioni. Finché il rischio non era manifesto come oggi, era una prassi sostenibile. Dal dopoguerra in poi, non lo è più».

Cosa si può fare adesso per rendere più sicuro un territorio come l’Emilia-Romagna, generalmente ritenuto ben amministrato?
I meteorologi ci dicono che questi eventi si ripeteranno più spesso, e non ogni uno o due secoli. Le alluvioni, come i terremoti, portano spesso con sé nuove norme e leggi. Adesso è necessaria una legge nazionale sul consumo del suolo. Ma una legge che sia davvero a “saldo zero”, cioè non comporti nuovo consumo di suolo. A parole è già stato fatto, ma poi ogni legge aveva le solite scappatoie.

Non solo le aree antropizzate sono state sconvolte dall’acqua, ma anche le montagne. La Protezione Civile ha contato ben 230 frane.
Credo che gli eventi franosi in realtà siano stati molti di più di quelli ufficialmente registrati. Piogge così hanno un impatto devastante su un territorio montano come quello italiano. Le nostre montagne sono fatte soprattutto di argilla e arenaria, rocce che assorbono l’acqua. È vero, il territorio della Regione è mappato, abbiamo norme e strumenti che molte regioni ci invidiano. Ma la mappatura del rischio si basa su modelli idro-geologici che oggi potrebbero essere superati. Se le previsioni dei climatologi sono corrette e eventi come questo sono destinati a ripetersi più spesso, tutta la cartografia del rischio andrà ricalcolata.

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COMMISSIONE UE. Il Commissario europeo Gentiloni ha espresso grande soddisfazione per la crescita economica dell’Italia, dichiarando che il nostro Pil crescerà nel 2023 dell’1,2%, il tasso di crescita più alto degli altri […]

«Italia in crescita», il grande bluff di Gentiloni 

Il Commissario europeo Gentiloni ha espresso grande soddisfazione per la crescita economica dell’Italia, dichiarando che il nostro Pil crescerà nel 2023 dell’1,2%, il tasso di crescita più alto degli altri paesi europei. A parte il fatto che dovremmo finirla di usare questo indicatore per associarlo al benessere di un paese per i motivi più volti richiamati, anche questo dato è frutto di una manipolazione, che funziona grazie al silenzio della gran parte degli economisti mainstream.

Ci spieghiamo meglio. Non c’è bisogno di aver studiato Keynes per sapere che se si immette liquidità aggiuntiva in un determinato paese, attraverso la spesa pubblica, aumenta il reddito nazionale. Keynes, come è noto indicò questa terapia nei momenti di recessione economica, violando quello che fino ad allora era un tabù: il bilancio in pareggio. Attraverso quello che viene chiamato il “moltiplicatore keynesiano” il Pil aumenterà di x volte il surplus di spesa pubblica, in base alla propensione marginale al consumo. Ovvero, a seconda delle modalità di aumento della spesa pubblica la crescita economica sarà più o meno sostenuta in base all’aumento della domanda di beni di consumo e di investimento. Tutto questo è vero solo se non siamo in una fase di piena occupazione delle risorse umane e materiali, altrimenti un incremento di liquidità può trasformarsi in più inflazione o finire nelle bolle finanziarie.

Certo, se la spesa pubblica aggiuntiva va direttamente nelle tasche dei disoccupati, come Keynes proponeva attraverso le famose buche da riempire e svuotare, l’incremento dei consumi sarà molto rilevante e questo avrà un effetto importante sulla domanda aggregata (consumi + investimenti).

Viceversa, se la spesa pubblica aggiuntiva finisce delle mani dei ceti ad alto reddito potrebbe trasferirsi in parte nel mondo della finanza, o nei beni di consumo di lusso, e avere scarso impatto sulla economia reale.

Visti i programmi del Pnrr si può ben ipotizzare che una parte del circa 60 miliardi che quest’anno incasseremo dalla Ue andrà direttamente agli investimenti e ai consumi. In base ad una stima realistica possiamo dire che l’effetto del moltiplicatore della spesa pubblica aggiuntiva sarà per quest’anno di circa 1,5 per cento, che si traduce in una spesa complessiva di 90 miliardi di euro.

Dato che il nostro Pil nel 2022 è stato pari a 1,909 miliardi di euro, questo incremento stimato è pari a circa il 4,7 per cento. Ora è abbastanza facile mettere a confronto questa stima di incremento del Pil con quella del Commissario Gentiloni per dedurne che siamo in netta recessione, che senza questa iniezione di euro dalla Ue avremmo avuto, secondo queste stime, una recessione del 3,5 per cento, fermo restando le altre variabili del mercato interno e internazionale. Inoltre, almeno un terzo di questi 60 miliardi li dovremo restituire e questo significa che ci stiamo ulteriormente indebitando scaricando sul futuro un peso finanziario insopportabile.

Quello che viene sbandierato come un successo è di fatto un grande bluff che le forze di opposizione a questo governo dovrebbero fare emergere anziché cadere nella trappola di questi giochetti da tavolo delle tre carte

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DUE PAESI. Il voto di domenica racconta un'altra realtà, quella di un paese spaccato a metà: da una parte il sud-est curdo politicizzato e la costa occidentale, dall'altra un entroterra conservatore. Erdogan non lo ha plasmato, lo ha interpretato. Per questo non implode
 Sostenitori del presidente Erdogan festeggiano nelle strade di Istanbul - Ap

Per interpretare il voto di domenica basta guardare alle province turche colpite dal sisma del 6 febbraio scorso. Tanti immaginavano che le macerie fisiche e morali della speculazione edilizia marchio di fabbrica del governo Akp e il ritardo colpevole nei soccorsi avrebbero riempito le urne di malcontento. Così non è stato.

Le città devastate dal terremoto non hanno deviato dal tradizionale sostegno al partito Giustizia e Sviluppo del presidente Erdogan. Ad Adıyaman è dato al 66,2%, a Maras al 71,8%, a Kilis al 65,6%. Numeri che sono lo specchio dell’altro risultato, le parlamentari offuscate dalla corsa alla presidenza. Dei 600 seggi da assegnare, l’attuale coalizione di governo ne avrebbe ottenuti 322, maggioranza assoluta.

CHIUNQUE siederà nel palazzo presidenziale di Ankara governerà con un parlamento, di nuovo, di destra. Sta qui il senso della tornata elettorale turca, nella presa di coscienza che no, la Turchia non è Gezi Park. O almeno, non è solo Gezi.

La spinta progressista intravista nell’unità tanto sudata delle opposizioni e nelle piazze da anni piene del Pride e dell’8 marzo ha indotto a percepire l’egemonia di un paese altro rispetto a quello rappresentato dal 2003 da Recep Tayyip Erdogan.

In due decenni di potere pressoché assoluto – mediatico, economico, militare, burocratico, educativo – il presidente non ha plasmato la Turchia a sua immagine, o almeno non del tutto. Ha saputo leggerne l’altra anima, quella che ha vissuto come violenza la discriminazione della propria identità religiosa, marginalizzata dal laicismo su cui è stata fondata la repubblica kemalista.

LA MAPPA ELETTORALE lo conferma: a un sud-est a maggioranza curda storicamente politicizzato da una necessaria resistenza all’assimilazione e a una costa ovest che guarda all’Europa, si contrappone un cuore conservatore, un entroterra che vede nell’islam la primaria fonte di definizione di sé. Erdogan non ha fatto che portarla al potere, quella metà di Turchia conservatrice fatta di un pezzo importante di classe operaia (la meno sindacalizzata) e di classe bassa, con una buona componente femminile, il perno invisibile del successo di Erdogan che percepisce come lontanissima da sé la mobilitazione femminista che da anni infiamma Istanbul.

Alla lettura della società attuale (specchio di un ritorno alla religione nell’intera regione, dal Nord Africa a Israele) Erdogan ha unito il pugno di ferro: da una parte l’occupazione di ogni ganglio dello stato, dall’altra il soffocamento strutturale della società civile progressista, epurata, incarcerata o costretta all’esilio e privata della capacità di parlare al paese. Ci parla lui, ne conosce il linguaggio

 
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