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No ad un’altra sconfitta. Bisogna neutralizzare i gravi effetti distorsivi della rappresentanza prodotti dal Rosatellum, concordando candidature comuni nei collegi

Pd e M5S, subito il nodo «alleanze» e un progetto alternativo alle destre

Cosa pensano di fare, specie il Pd e il M5S, di fronte all’esito deludente delle elezioni amministrative? È evidente che è saltato lo schema che li stava ispirando: visto che le prossime elezioni europee si svolgeranno con il proporzionale, l’idea era che ciascuno puntasse intanto a consolidare la propria posizione, senza assumere impegni troppo vincolanti per il futuro (che, poi, tanto distante non è: nel 2024 votano molte città e nel 2025 importanti regioni).

Questo schema non è più sostenibile, ci si illude se si pensa che questo gioco delle distinzioni «paghi» in termini di consenso, e lo si è anche appena visto nelle urne. E si illude Conte, in particolare, se ritiene che, a preservare un elettorato del M5S quanto mai volatile, possa bastare il richiamo identitario ad alcuni temi o il marcare le distanze dal Pd. La realtà è che l’assenza di un progetto politico alternativo alla destra produce un effetto di smobilitazione e un senso di impotenza, non trasmette l’idea di una partita aperta e competitiva. E tutto ciò è causa non ultima di un astensionismo che continua a colpire soprattutto a sinistra. E allora, forse occorre richiamare i termini nudi e crudi della questione: scontati, forse, ma che evidentemente molti pensano ancora di poter eludere.

A partire da un dato di fatto: la legge elettorale non cambierà. È del tutto evidente la convenienza della destra a conservare un modello che obbliga alla costruzione di coalizioni preventive. E allora, cosa fare per evitare il remake del 25 settembre? Abbiamo sotto gli occhi le conseguenze della miopia (una vicenda che deve essere ancora ricostruita, in tutti i suoi risvolti) con cui molti «sonnambuli», nell’estate del 2022, non hanno capito, o hanno finto di non capire, cosa sarebbe successo. Non possiamo permetterci che la storia si ripeta.

Per questo, non porsi già ora la questione delle alleanze è deleterio. Gli aspetti tecnici di futuri accordi elettorali tra tutte le forze della «non-destra» saranno discussi a tempo debito; ma bisogna aver ben chiaro che non c’è altra strada se non quella di provare a neutralizzare i pesanti effetti distorsivi della rappresentanza prodotti dal Rosatellum, concordando candidature comuni nei collegi. Non si può giocare una partita a prescindere dai vincoli che impongono le regole date. La mossa di Sanchèz in Spagna si spiega anche sulla base di un presupposto: costringere Sumar e Podemos, che stavano litigando, a presentare una lista unica a sinistra, fattore fondamentale – dato il sistema elettorale spagnolo – per contendere a Vox la terza posizione nei vari collegi e il conseguente, decisivo pacchetto di seggi.

Il problema immediato è invece quello di costruire le premesse politiche di questa futura alleanza elettorale. E qui occorre inventarsi qualcosa: ad esempio, si potrebbe ipotizzare che, tra tutte le forze interessate, si costruisca un accordo a più livelli. Una convergenza programmatica quanto più ampia possibile (e su questo si deve subito cominciare a lavorare); ma anche la schietta ammissione che su alcuni temi resteranno delle differenze, evitando che queste si traducano in distruttive divisioni. Troppo astruso? E quale sarebbe l’alternativa? Se qualcuno ha un asso nella manica, lo tiri fuori.

Cosa si oppone alla ricerca di questa via? In genere, ci si riferisce alla «litigiosità» dei gruppi dirigenti, alla loro auto-referenzialità. Giusto, ma forse esistono ostacoli altrettanto rilevanti, e che riguardano gli elettori. Chi si oppone alle grandi alleanze lo fa in genere appellandosi ad un argomento: le «ammucchiate» non pagano, meglio «stare da soli» nella chiarezza delle proprie posizioni. Sulla base di questo presupposto, il bipolarismo asimmetrico e squilibrato che abbiamo di fronte si potrebbe risolvere solo «spostando» gli elettori; cioè, convincendoli. Ottimo proposito; ma obiezione del tutto astratta: è chiaro che le elezioni si vincono innanzi tutto sulla base della capacità di mobilitazione del proprio potenziale elettorato.

Il blocco della destra è molto forte, ma non è maggioritario: decisivo è il fatto che gli elettori della destra-centro sono coesi e «di bocca buona», e scelgono ciò che, di volta in volta, offre loro più garanzie: non pretendono troppo dalla politica, se non la salvaguardia dei propri interessi o di quelli che ritengono tali. Dall’altra parte, no: ci sono molti elettori puntigliosi, esigenti, sospettosi. E ci sono culture e tradizioni gelose della propria storia. E una pletora di idiosincrasie. È una virtù, ma solo fino ad un certo punto. Si paga qui il prezzo anche di una singolare subalternità alla cosiddetta «cultura del maggioritario»: ogni alleanza «elettorale», di per sé, viene vissuta come «politica».

Ma è solo la fragilità della propria identità che porta ad attribuire un’enfasi smodata al problema del «chi sta con chi», ai proclami roboanti sul mai con questo o quello», e a definirsi così solo in funzione delle buone o cattive compagnie. È bene discutere, tra le non-destre, anche di questo: non vorremmo che, accanto alla celebre invettiva di Nanni Moretti (che conserva sempre una sua attualità) se ne debba introdurre un’altra, rovesciata: «Con questi elettori non vinceremo mai!»