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Video e foto Local Team

“Fu un’opportunità molto allettante, certo”. Momento di pausa. “Ma no, col senno di poi non valeva la pena costruire in quell’area”. Nello Liverani è un faentino fortemente attaccato alla comunità che spala fango da giorni dopo l’esondazione di uno dei tre fiumi di Faenza, dove sono stati estratti tre cadaveri. Un tempo erano occupati dalla “Liverani pelli”, finché la famiglia li ha venduti. Al posto dei capannoni giudicati ormai “incompatibili con l’area” nel 2002 sorge un bel condominio residenziale con 36 appartamenti e 45 garage sotterranei. La particolarità è il nome stesso, che molto dice dell’Italia edificata sul rischio: la “Casa sul fiume” si chiama, ma con la piena è diventata una casa nel fiume, con l’acqua salita a un metro e mezzo seppellendo

tutto.

“Un caso, non l’unico, emblematico di una miopia progettuale generalizzata” spiega Gabriele Bollini, urbanista che lavora con le pubbliche amministrazioni e già dirigente nel comune di Bologna, fa parte del Comitato scientifico della Rete per l’emergenza climatica e ambientale dell’Emilia-Romagna, per la quale ha steso la proposta di legge di iniziativa popolare per il contrasto al consumo di suolo. Insegna Pianificazione e progettazione sostenibile all’Università di Modena e Reggio Emilia. Uno che mangia piani urbanistici a colazione ma urla da 30 anni contro l’incultura dell’edificazione selvaggia che affligge l’Italia. Dopo cinque secondi manda le foto di un negozio a Bologna, in via Saffi, letteralmente “esploso” per la forza del Ravone. Poi quelle satellitari del nuovo polo logistico di Alessandria in costruzione nel bacino del Po, per il 95% in area a elevata pericolosità idraulica. Non dimentica Aulla, dove perfino la sede della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco sono state costruita nell’alveo del Magra, che quando è esondato non han potuto intervenire perché si erano imbottigliati da soli. Il 19 aprile scorso il tribunale di Massa ha assolto 11 imputati per l’esondazione che nel 2011 causò due morti.

 

Bollini non ha risparmiato critiche anche alla legge contro il consumo di suolo sbandierata dall’Emilia Romagna nel 2017: “Abbiamo continuato a consumarlo allo stesso ritmo degli anni precedenti, anche in aree a pericolosità idraulica”. Una chiacchierata con lui è illuminante perché dice le cose come stanno e lo fa da sempre. Tanto che da giorni si deve districare tra le interviste, che sia Piazza Pulita, la tv tedesca o altri giornali quando per anni nessuno o quasi lo ha ascoltato. “Non mi piace la parte del grillo parlante”, dice senza tirarsi indietro, sia mai che stavolta lo ascoltino.

“Il sonno della Regione genera mostri” hanno scritto ieri gli ecoattivisti facendo irruzione in aula. Lei li forma pure, che idea si è fatto?
Che hanno ragione. Non si può continuare a “consumare” suolo a questo ritmo: 19 ettari al giorno, 2 mq al secondo.

Ci spiega bene la questione della legge “a consumo zero”?
Nel 2017 arriva questa legge di governo del territorio che assume come obiettivo il consumo di suolo zero, dovevano seguire piani urbanistici coerenti all’obiettivo ma di proroga in proroga abbiamo continuato a consumare suolo allo stesso ritmo, anche in aree a pericolosità idraulica. Nel 2021 le aree occupate da superfici artificiali è pari all’8 % in aree a pericolosità elevata, ovvero allagabili con tempo di ritorno tra 20 e 50 anni, 11,9 % in aree a pericolosità media (tra 100 e 200) e al 12,3 % in aree a bassa pericolosità (200 anni). Un fallimento annunciato sotto il peso dei soliti interessi cementiferi.

 

Li ha toccati con mano?
Non faccio nomi ma proprio l’altro giorno ricordavo con un collega un episodio tipico. Quando ero dirigente in Provincia un sindaco del Bolognese era venuto da noi a elemosinare una modifica della linea di demarcazione del rischio idraulico che avevamo segnato sul piano territoriale di coordinamento perché impedivano la costruzione dell’area di Pinco Pallo. “Ecco, questa linea qui non è che puoi spostarla un pochettino, raddrizzarla il tanto che basta a fare uscire la parte non edificabile?”.

Bonaccini dice “ne usciremo come col terremoto”
Il gioco di squadra e la mobilitazione servono, ma terremoto e alluvione sono due cose diverse. Non si può solo ricostruire nello stesso luogo rinforzando gli argini quando la scelta urbanistica a monte è sbagliata. Condomini come “la casa sul fiume” non possono continuare ad essere edificati, e meno che meno situazioni come quella di Aulla nuova, o del negozio esploso dalla forza del Torrente Ravone in via Saffi a Bologna.

 

Andiamo alle soluzioni, come invertire la rotta?
Per ridurre gli effetti di scelte sbagliate non servono più opere, ma una revisione epocale della gestione dei fiumi e del territorio. Certo servono le arginature ma non sono sufficienti, anche perché c’è un limite di altezza degli argini (non possono crescere all’infinito): dobbiamo dare più spazio ai fiumi, invertendo una tendenza secolare e dunque non tanto alzare gli argini ma arretrarli. Solo così si evita l’accumulo di volumi di acqua impossibili da far passare e si risponde anche all’altro fenomeno dettato dai cambiamenti climatici della siccità. Ma ci crede lei che chi governa questo Paese possa mai invertire il paradigma recuperando spazio all’agricoltura e allo sviluppo antropico?

 

Continui l’elenco, magari ora l’ascoltano…
Bisogna riconquistare i terreni al demanio pubblico, ripristinare aree di laminazione naturale delle piene, eliminare le coperture di cemento dai corsi d’acqua prima che lo facciano da soli (come ha fatto il torrente Ravone a Bologna), ricostruire ponti più alti e proporzionati a portate più elevate, delocalizzare aree residenziali e produttive e infrastrutture a rischio. Si deve ristabilire la funzionalità dei sistemi fluviali e attivare una gestione integrata delle acque meteoriche nelle nostre città utilizzando soluzioni basate sulla natura (Nature Based Solutions), così come già previsto dagli indirizzi comunitari e anche dal nostro Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici.

Il cambiamento climatico, l’evento “eccezionale” non sono alibi?
Il clima c’entra eccome, con buona pace di quell’onorevole Lucio Malan che si ostina a dire che ha sempre piovuto così. Prendo i dati di Castel del Rio, un comune che sta nella collina tra Bologna e la Romagna, nel bacino del Santerno. L’evento più grave del Novecento è avvenuto nel ’39 quando scesero 434 mm in tutto il mese. Quest’anno ha fatto 480 mm ma concentrati in 4 giorni.

 

Torniamo alla lezione, tocca combinare rischio alluvione e siccità. Come?
E’ possibile perché i due fenomeni sono connessi. Quando su un terreno con copertura naturale in campagna piove, circa il 50 per cento si infiltra in maniera superficiale o profonda, un 40 per cento evapotraspira dal suolo e dalle piante, e solo un 10 per cento defluisce in maniera orizzontale in superficie. Poi ci sono vari strati di urbanizzazione, si riduce l’infiltrazione e l’evaporazione – perché non ci sono le piante – e nelle nostre città asfaltate, cementificate, impermeabilizzate un 55 per cento dell’acqua che piove defluisce orizzontalmente sulla superficie. È chiaro che in queste condizioni vie e strade possono diventare fiumi in piena, che travolgono qualsiasi cosa creando grossi problemi. Per contro il terreno da cui l’acqua defluisce via si desertifica ulteriormente.

Dunque, come diminuire questa doppia vulnerabilità?
Non abbandonando le campagne, ma mantenendole. Non asfaltando e cementificando in questa maniera, quindi rendendo le città più resilienti e verdi, in modo tale che la pioggia violenta possa essere assorbita di più.

Gli esempi negativi che cita le danno ragione. Ma ci sono esempi virtuosi cui ispirarsi?
Alcuni tentativi in questo senso sono stati fatti anche in Romagna, ad esempio Montone, Rabbi, Ronco, ma di fronte ad eventi di questa intensità serve uno sforzo di ordini di grandezza maggiore, un cambiamento che nessuno ha avuto il coraggio di affrontare, ma che rappresenta l’unica capacità di futuro che abbiamo di fronte