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POLITICA. Il commento della direttrice del manifesto alla luce dell'esito delle elezioni comunali

 

Non c’era davvero bisogno di aspettare la serata per capire il doppio segno politico di questa parziale ma significativa tornata elettorale amministrativa. A cominciare dall’aumento dell’astensionismo che fa scendere l’affluenza sotto il 60% riducendo così ancora di circa due punti la partecipazione. Il secondo vistoso elemento del voto arriva invece dal confronto tra la compattezza di un centrodestra che marcia unito tanto quanto il centrosinistra arranca verso i ballottaggi o retrocede diviso verso la sconfitta. Ed è davvero poco il tempo perché alla segretaria del Pd riuscisse di invertire la tendenza al contrario di una destra che ha dissodato il terreno profondamente.

Nella maggior parte dei 13 capoluoghi, i partiti di opposizione hanno deciso di replicare il tafazziano schema del famigerato 25 settembre delle elezioni politiche: correre divisi alla meta, per lasciare tranquilla la falange del centrodestra giunta senza divisioni all’appuntamento, con qualche eccezione a conferma della regola (come a Massa). I due comuni che ben rispecchiano, con modalità diverse, lo sconfittismo del centrosinistra sono Ancona e Pisa.

Dopo aver consegnato la Regione ai fratelli di Meloni, il centrosinistra ha lavorato per provare a perdere anche il capoluogo, capace di resistere agli assedi della sua lunga storia, ma indifeso di fronte al masochismo della sinistra. I candidati sindaci di Ancona erano 6: uno di destra e 5 ben divisi a sinistra tra Pd, 5Stelle, 2 liste civiche, verdi. L’ultima speranza è strappare il ballottaggio. Forte l’istinto a privilegiare le spinte divisive su quelle unitarie anche a Pisa dove pure Pd e 5Stelle hanno fatto fronte comune, ma non sufficiente a strappare la città ai meloniani perché l’ala sinistra dell’opposizione ha trovato nel congruo, meritato pacchetto di voti dell’attivista Ciccio Auletta la crepa perché la torre continuasse a pendere verso destra.

Perseverare nel tirare ciascuno l’acqua al proprio mulino produce poca farina, che sempre meno elettori sono disposti a comprare per impastare il cambiamento

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Per il professore emerito di Scienza politica Gianfranco Pasquino, confusione e poca conoscenza emergono dal tavolo di confronto tra maggioranza e opposizione

 Foto: Picasa

La stabilità non si garantisce cambiando le regole di funzionamento delle istituzioni. Servono classi dirigenti e visione. La presidente Meloni non ha ricevuto il mandato di cambiare la Costituzione, non ne ha nemmeno il diritto ma la facoltà. I padri costituenti, ben consapevoli che la Carta avrebbe potuto essere cambiata, hanno fissato criteri e procedure. Attribuendo al popolo il potere di bocciare le riforme approvate da una maggioranza.

Per Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica dell’Università di Bologna e dal curriculum denso di attività accademica, politica, e saggistica (sua ultima fatica "Il lavoro intellettuale. "Cos'è, come si fa, a cosa serve") la fortuna dell’Italia è stata ed è, nei momenti di difficoltà, quella di avere grandi personalità alla presidenza della Repubblica: Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella.

La settimana scorsa si è aperta con la convocazione delle opposizioni chiamate dalla presidente del Consiglio per “confrontarsi” sulle riforme istituzionali...
Credo sia opportuno che opposizioni e governo si parlino e devono farlo, ovviamente, nelle sedi istituzionali.  Per altro, mi pare che l’incontro sia stato chiesto proprio dalle opposizioni e bene ha fatto Giorgia Meloni a scegliere il Parlamento come sede del confronto.

Oggetto del confronto le riforme costituzionali. Non è chiaro però quale sia il modello scelto. Ciò che sembra evidente è la volontà dell’elezione diretta, ma non si sa se del presidente della Repubblica o di quello del consiglio.
C’è sicuramente grande confusione, ma anche un'enorme ignoranza delle regole istituzionali, anche delle più semplici da capire. E poi c'è manipolazione. Il premierato, ad esempio, non esiste. Se si fa riferimento alla forma di governo inglese, si commette un errore poiché in quel paese il capo del governo non è eletto dai cittadini, ma è il capo del partito di maggioranza parlamentare.  Il primo ministro inglese viene eletto in un collegio uninominale come tutti i deputati. La Meloni sta parlando di questo? Ho la sensazione che stiano riferendosi, facendo appunto confusione, al modello tedesco del cancellierato, ma neanche lì c’è l’elezione popolare diretta, perché questa avviene da parte del Bundestag del capo della maggioranza: questo è il Cancellierato.

E poi c’è il presidenzialismo...
E la questione si complica. Faccio una premessa. A suo tempo, in Assemblea costituente, Piero Calamandrei, discutendo di modello di Stato, propose la repubblica presidenziale americana con una forte rete di autonomie locali, che non erano le Regioni, ma i Comuni. Pensava, infatti, che i comuni fossero la vera storia, la vera spina dorsale dell'Italia. Prevalse un altro modello, ma in sé il presidenzialismo non è costituzionalmente inaccettabile. Detto questo, naturalmente noi abbiamo giustamente delle riserve rispetto a quel modello anche perché intanto occorrerebbe capire a cosa ci si riferisce. E poi da sola l’elezione diretta del presidente non regge, cambierebbe il modello istituzionale, ma come? Si immagina un presidenzialismo sul modello statunitense? Sappiamo che sta dimostrando tutti i suoi problemi e sono tanti. Oppure si guarda a quello latino-americano, che di problemi ne ha sempre avuti ed è assolutamente da evitare? Se rimaniamo in Europa, quello francese è più correttamente un semipresidenzialismo, fu voluto da De Gaulle nel 1958. Mi sembrava di aver capito che questo fosse il modello di riferimento di Meloni. La cosa grave, però, è che non esiste una proposta scritta, si sono tenuti incontri senza nulla su cui confrontarsi.

Forma di Stato e forma di governo, e il Parlamento?
Naturalmente gli equilibri sono diversi a seconda delle forme di governo. Nel caso italiano l'equilibrio non è buono, non perché il modello è sbagliato, ma perché è complicato dal fatto che il governo produce decreti e su quei decreti chiede la fiducia, e quindi schiaccia il Parlamento. Certo, il Parlamento ha lungaggini e lentezze, ma non è questo il modo migliore di governare e rispettare gli equilibri istituzionali. La fiducia deve essere posta solo in casi eccezionali, non su tutti i decreti. Penso, ad esempio, a quello di fine anno – omnibus - che è la somma dei ritardi accumulati dal Parlamento e dal governo. Non bisognerebbe consentire che se la cavino con il voto di fiducia. Dopodiché, a seconda della forma di governo ci sono equilibri diversi.

Quali sono gli equilibri che secondo lei devono essere garantiti, comunque, sempre in una democrazia matura?L'equilibrio che deve essere garantito è sempre quello tra la maggioranza e l'opposizione. La maggioranza non deve mai schiacciare l'opposizione semplicemente con la sua forza numerica. E quindi insisto, l’abuso del voto di fiducia è un elemento di squilibrio nella democrazia parlamentare italiana. Nelle altre democrazie il voto di fiducia è molto raro e dettagliatamente normato. Il Presidente della Repubblica nella democrazia italiana ha qualche volta la possibilità di dire al governo che non deve schiacciare all'opposizione, ma molto di più non può fare.

 

 

La Presidente Meloni ha ripetuto ai suoi interlocutori : “io comunque le riforme le faccio perché mi sono impegnata con gli elettori e perché a questo paese serve stabilità”. La stabilità si garantisce con il presidenzialismo?
La stabilità si garantisce quando una maggioranza è compatta, disciplinata, sa che cosa vuole ed è sufficientemente ampia. Però, garantire la stabilità non serve a niente se poi non si hanno idee per fare le riforme, per fare i disegni di legge, per governare. La stabilità bisogna saperla coniugare con l'efficacia decisionale, cioè con il sapere ciò che si vuole e perseguirlo. Quindi, la stabilità è una premessa, non è un valore assoluto. Si può essere molto stabili ed essere totalmente inefficaci. Giorgia Meloni sbaglia a dire che ha avuto un mandato; non ha avuto nessun mandato. Gli elettori hanno votato Fratelli d'Italia per un insieme di ragioni, non esclusivamente per avere l’elezione popolare diretta del capo stato. Certo, una buona parte dei suoi elettori la vuole, ma non c'è un mandato, è una parola sbagliata. In secondo luogo, finché Meloni non dice quale soluzione vorrebbe adottare, non è possibile esprimersi. Però, intendiamoci, le maggioranze hanno la facoltà, attenzione, la facoltà, non il diritto, di fare le riforme. Possono farle seguendo le procedure che i costituenti hanno individuato, consapevoli sia di poter sbagliare sia che con il tempo alcune condizioni avrebbero potuto cambiare e che quindi si sarebbe dovuto porre il tema delle riforme.  Decisero che per cambiare la Carta occorre una maggioranza ampia. Con i due terzi delle assemblee le riforme sono acquisite, ma se la maggioranza parlamentare riformatrice è risicata, è giusto che il popolo possa esprimersi attraverso il referendum costituzionale. Cioè, Giorgia Meloni fa le sue riforme e ha la facoltà di farle, dopodiché chi non le gradisce ha la facoltà di chiedere un referendum contro quelle riforme. Questa è la clausola di garanzia, faremmo un torto ai costituenti se non pensassimo che era esattamente questo che volevano, che il popolo fosse in grado di controllare le riforme fatte da una maggioranza parlamentare.

Nella Costituzione il Parlamento ha una sua centralità nel meccanismo istituzionale del paese, Parlamento, ad esempio, che negli anni 70, pur in presenza di una maggioranza molto segnata politicamente, fece alcune riforme sociali che ancora oggi rendono maturo il nostro paese: dallo Statuto dei lavoratori alla riforma del servizio sanitario nazionale, passando per divorzio e per aborto. L’immobilismo del Parlamento di oggi non dipende né dalla Costituzione né dalla forma di governo. Da cosa allora?
No, non dipende dalla Costituzione naturalmente, dipende dalle persone, dipende dai partiti, dipende dall'ignoranza di quelli che vengono eletti in Parlamento, dalla tracotanza, dalla prepotenza, dal loro non studiare, dal loro non imparare. Se guardiamo a quegli anni in cui presero vita le riforme, troviamo una classe dirigente preparata che spinse per quelle leggi, dai radicali ai socialisti che pur essendo piccoli seppero incidere in Parlamento e fuori. Erano delle minoranze che conoscevano l'argomento, avevano voglia di combattere una battaglia difficile e sono riusciti a vincere. Dopodiché però c'è anche un problema, il Parlamento italiano è l'ultimo rimasto bicamerale – attenzione all'aggettivo, non perfetto, ma paritario – e quindi intervenire sul Parlamento e migliorarlo dal punto di vista strutturale è possibile ed è auspicabile. Anche se si approvasse il presidenzialismo, bisognerebbe migliorare funzione e capacità di lavoro del Parlamento, istituzione che rappresenta i cittadini sia nel legiferare che nella funzione di controllo dell’esecutivo.

Cioè ci sta dicendo che per rispettare gli equilibri istituzionali a fronte di un presidenzialismo andrebbe rafforzato il Parlamento?
Andrebbe rafforzato e migliorato nel funzionamento, assolutamente sì, e anche qui mi faccia fare una digressione di tipo professorale. Nel presidenzialismo americano, il presidente non può sciogliere il Congresso e il Congresso non può sfiduciare il presidente in modo che se le cose funzionano male, sono immobilizzati, cioè sono l'uno di fronte l'altro armati, ma non possono fare nulla. Nel caso del semipresidenzialismo francese, invece, l’Assemblea nazionale può approvare le leggi e il presidente può accettarlo oppure no. Però, il presidente può decidere di sciogliere l’Assemblea nazionale una volta all'anno, con la motivazione che funziona male, ma lo stesso presidente può anche trovarsi in una situazione difficile, quando in quella Assemblea nazionale non ha la maggioranza e quindi quella maggioranza sceglie il primo ministro, che riceve la fiducia dell’Assemblea, e governa. Si ha la cosiddetta coabitazione tra due maggioranze differenti, quella che ha eletto il capo dello stato e quella parlamentare che ha eletto il primo ministro. Ma c’è sempre chi governa e si assume la responsabilità del fatto, non fatto, fatto male.

Quindi, in realtà l'idea che attraverso le riforme costituzionali si garantisce la stabilità – intesa per come l'ha raccontata Meloni come una sorta di potere assoluto, – nei parlamenti dei paesi democratici non c'è.
Quasi nessuno può garantire quella “stabilità”, neanche gli inglesi, che io trovo straordinari da molti punti di vista. Quello in carica è il loro terzo primo ministro nel corso di questa legislatura. La stabilità e l'efficacia vengono garantite soltanto quando ci sono dei partiti che funzionano bene e delle classi politiche preparate, adeguate, capaci di avere personalità che riescono a fare funzionare organismi complessi. Classi politiche di alto livello le abbiamo trovate di tanto in tanto, in Gran Bretagna, certamente in Germania, nei paesi scandinavi. In passato anche noi le abbiamo avute, perché in buona misura la Democrazia Cristiana aveva queste capacità, i socialisti e i comunisti stessi ebbero notevoli capacità. Poi negli anni 80 è cominciato il declino. Abbiamo avuto situazioni difficili e stiamo stati fortunati perché nelle situazioni difficili dalle classi politiche parlamentari sono emerse delle personalità di grandi capacità alla presidenza della Repubblica come Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Ma, adesso?

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SCENARI . Mentre la Cina dispiega il proprio inviato a Mosca e Kyiv, c’è da registrare per la prima volta il cauto ottimismo del Segretario di Stato USA Blinken circa il ruolo che Pechino potrà avere nel portare la Russia a sedere a un tavolo negoziale

Retorica della vittoria e vie della pace Conferenza stampa di Zelensky e Meloni dopo il loro incontro a palazzo Chigi - Getty Images

I combattimenti di queste ore preparano il campo della massiccia controffensiva. La visita a Roma del comandante in capo Volodymyr Zelensky è parte di un lungo tour interamente volto a rinsaldare il supporto alleato, compattandolo nella fase decisiva.
Non si tratta di una missione per parlare di pace, come hanno titolato alcuni media italiani, ma di una missione di guerra, nella quale si è riaffacciata con enfasi la retorica della vittoria.

Incontrando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni il leader ucraino ha incassato l’appoggio all’ingresso nella Nato e stretto i rapporti con quella parte del governo italiano che, spesso convertendosi last-minute, ha tenuto la linea di deciso sostegno impostata da Mario Draghi.

Per ragioni di sicurezza ormai spesso vediamo Zelensky parlare su uno sfondo bianco e spostarsi con un corteo di macchine uguali, anche se il messaggio resta invariato: servono urgentemente armi a gittata più lunga ed occorre rafforzare la capacità di manovra. A sottolineare lo stretto nesso che esiste, sul fronte atlantico, con le opinioni pubbliche, Zelensky ha significativamente dichiarato che l’Ucraina porterà a termine la liberazione prima delle elezioni statunitensi del prossimo anno.

Un’immagine di efficienza, dunque, a rassicurare sui rischi di escalation e protrazione della guerra e dei suoi costi per tutti. E così arrivano sia i missili Storm Shadow da Londra, sia un nuovo pacchetto di carri armati Leopard e Gepard da Berlino, dove domani è atteso il presidente ucraino.

Sul piano diplomatico, mentre la Cina dispiega il proprio inviato a Mosca e Kyiv, c’è da registrare per la prima volta il cauto ottimismo del Segretario di Stato USA Blinken circa il ruolo che Pechino potrà avere nel portare la Russia a sedere a un tavolo negoziale, verosimilmente a Parigi.

Dopo quasi un anno di lentissimi e sanguinosi avanzamenti, l’arretramento di Mosca verso posizioni difensive anche sul fronte di Bakhmut è avvenuto in modo precipitoso, con tanto di voci di miliziani Wagner che sparano sui soldati russi in fuga. Gli ucraini hanno ristabilito una via di rifornimento, e questa circostanza segna probabilmente un punto di culmine per l’iniziativa militare russa: affrontando costi umani molto alti gli ucraini hanno assorbito le molteplici offensive russe, disarticolandole.

Le incognite principali delle prossime settimane riguardano la capacità di sfondamento delle linee pesantemente fortificate dalle forze di occupazione. Nel frattempo, i sistemi militari occidentali hanno mostrato la loro efficacia: il tentativo russo di affossare le difese antimissile Patriot con un missile ipersonico è stato affossato dalla risposta del sistema Patriot stesso.

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Le iniziative diplomatiche sono condizionate da questi eventi sul campo di battaglia. Nella politica internazionale Roma è anche (talvolta soprattutto) il Vaticano: quando si entra nella Santa Sede, però, si esce dai binari dell’atlantismo, per incontrare i fili di una diplomazia esplicitamente schierata sul dialogo e per la pace. Nei mesi scorsi la posizione del Papa ha attirato le pesanti critiche dei più accesi sostenitori di Kyiv, convinti che in ogni appello a far tacere le armi si celi un favore fatto all’aggressore che ormai sarebbe sempre più all’angolo.

Il Vaticano gestisce le complesse vicende del dialogo ecumenico, e non perde occasione per ricordare come il ‘martirio dell’Ucraina’ sia una guerra fra popoli fratelli, famiglie vicine per lingua e religione. Rispetto al solco di odio e crescente disumanizzazione su cui si erigerà questa frontiera europea il messaggio di fratellanza e perdono cristiano agisce su molteplici livelli. Il Vaticano dichiara di essere disponibile in ogni momento per iniziative che facciano tacere le armi.

Sappiamo di canali diplomatici vaticani che agiscono discretamente e sottotraccia, sappiamo del desiderio del Papa di portare di persona il proprio messaggio ai popoli in guerra. Di rientro dall’Ungheria, Francesco ha spiazzato tutti parlando apertamente di un’iniziativa di pace in corso.

Difficile sapere quale ruolo di preciso la Chiesa cattolica si stia ritagliando rispetto ai calcoli strategici e tattici delle Grandi Potenze o aspiranti tali. È possibile l’impegno su alcune iniziative che ri-umanizzino il conflitto, ad esempio sul ritorno alle famiglie dei bambini ucraini portati in Russia.

Di certo il messaggio del Papa è fra i pochi che si sono distinti, in questo anno orrendo, per rifiuto della logica che porta alla crescita senza fine della spesa per armamenti. L’unico lontano dalla retorica della vittoria, fra i pochi a prendere le distanze dal nazionalismo armato e dalle ossessioni identitarie come fucina della storia europea

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ELEZIONI TURCHE . Che Paese sarà se vince l’opposizione? Il progetto di egemonia interna ed estera di Erdogan, in crisi per il disastro economico e per la tragedia del sisma, ha soffocato la società civile

Inshallah

Quale Turchia avremo se dovesse vincere le elezioni Kemal Kilicdaroglu, nato a Dersim nel 1948, alevita, laico e progressista?
Una domanda che è ormai più che legittima visto che Erdogan è al potere da oltre un ventennio, quasi una generazione, e andranno alle urne per la prima volta cinque milioni di giovani. E se la sua vicenda politica è realmente all’epilogo, è ancora più legittimo chiedersi come potrebbe essere la transizione.

In questo ventennio la Turchia, che celebra i 100 anni della repubblica fondata da Ataturk, è assai cambiata. Una generazione fa era dominata da una élite militare e secolarista, con Erdogan si è allargata agli strati più popolari e tradizionalisti rappresentati dall’ascesa del partito Akp. Erdogan ha cavalcato questa ascesa con piglio cinico e autoritario, come prevedibile. In un’intervista al quotidiano Milliyet del 14 luglio 1996 – mentre era ancora sindaco di Istanbul – affermava: «La democrazia è come un tram, quando raggiungi la tua fermata scendi».

DA QUEL TRAM Erdogan è sceso da un pezzo mandando in carcere oppositori politici, leader curdi, giornalisti, scrittori e gente comune che ha soltanto osato criticarlo. Il suo progetto di egemonia politica e culturale, incrinato oggi dalla crisi economica e dalla tragedia del terremoto, ha soffocato la società civile turca, che molti casi, per sopravvivere, ha scelto l’esilio. Ma la Turchia riserva sorprese e non sempre in meglio. In 40 anni chi scrive ha assistito a tre colpi di stato, di cui uno fallito, tre guerre, una interna contro i curdi, una in Iraq e un’altra in Siria, oltre al terrorismo con attentati spaventosi nel cuore del Paese.

IL 12 SETTEMBRE 1980 ci fu il colpo di stato del generale Evren: passando in pullman in un villaggio vidi un uomo impiccato che penzolava dal palo della luce. Dieci giorni dopo Saddam Hussein attaccava la repubblica islamica iraniana: la Turchia era già diventata il nuovo fattore strategico della regione accanto al tradizionale ruolo di baluardo anti-sovietico della Nato di cui faceva parte dagli anni Cinquanta.

IL SECONDO GOLPE è stato definito postmoderno o «bianco», nel senso che non ci fu spargimento di sangue. Il 28 febbraio 1997 ai generali bastò far sfilare i carri armati per strada per mettere in riga il premier islamista Erbakan mentre Erdogan finiva dietro le sbarre.

Si pensava che l’islam politico fosse stato ricacciato indietro ma il lavoro condotto da Erbakan ed Erdogan aveva lasciato radici nella società che riscopriva, senza ovviamente averlo mi dimenticato, il suo ruolo di potenza ottomana, dai Balcani, al Medio Oriente, alle ex repubbliche sovietiche e turcofone. Il terzo golpe è stato quello fallito contro Erdogan del 15 luglio del 2016. Con lo scrittore Ahmet Altan, poi gettato in carcere, passammo sui uno dei ponti sul Bosforo dove avevano ucciso un generale, il vice comandante della base Nato di Istanbul. Poche ore dopo Erdogan fece chiudere anche Incirlik dove gli Usa tengono le testate nucleari.

PIÙ CHE LE TEORIE complottiste sul ruolo dei gulenisti e degli americani, preme sottolineare che in quel momento drammatico la Turchia aveva sbattuto le porte in faccia alla Nato, come nel 2003 quando rifiutò il passaggio alle truppe Usa dirette contro Saddam Hussein.

Il fallito golpe, le primavere arabe, le conseguenze della guerra in Siria e del colpo di stato in Egitto nel 2013 contro i Fratelli Musulmani, sono stati eventi vissuti in Turchia come prove dell’ostilità occidentale nei confronti dell’islam in generale e della nazione turca nata dalla maggiore sconfitta subita in un millennio: lo smembramento dell’impero ottomano da parte delle potenze occidentali. È questo sentimento diffuso, rimasto sotterraneo durante gli anni della repubblica kemalista, accompagnato da un senso di rivincita e di rabbia, che è riemerso in questi 20 anni nella politica estera di Erdogan. Un sentimento presente oggi anche nell’elettorato dell’opposizione.

LA STRATEGIA GEOPOLITICA turca, che si basa sulla riconquista della leadership regionale, non è destinata a cambiare ma nel breve periodo, se vincesse Kilicdaroglu, si potrebbe riaccendere il dialogo tra Ankara e l’Ue, con rapporti più distesi con la Nato, accompagnati dalla liquidazione del sostegno ai gruppi islamisti e ai Fratelli Musulmani, spianando così le relazioni tra Turchia, Egitto e Israele, un’evoluzione per altro già cominciata con il presente governo.

MA IN TERMINI strategici i mutamenti non saranno così rilevanti: la politica estera continuerà ad assecondare le ambizioni della Turchia dal Caucaso al Mediterraneo, dall’Azerbaijan alla Libia: in questi anni l’opposizione, sul fronte della politica estera, ha fatto da spalla a Erdogan, al suo governo e alla politica della “Patria Blu”.

Come pure ha sostenuto la repressione dei curdi siriani nel Rojava e dei curdi di casa. Non cambierà troppo neppure l’atteggiamento nei confronti della Russia: nessuno al comando ad Ankara può alienarsi i rapporti con Mosca per evidenti ragioni energetiche ed economiche. E forse un giorno ci si accorgerà che il problema della Turchia non è soltanto Erdogan ma la Turchia stessa

 

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L’alluvione in Emilia-Romagna: le lacrime di coccodrillo sopra un consumo di suolo senza argine

https://altreconomia.it/lalluvione-in-emilia-romagna-le-lacrime-di-coccodrillo-sopra-un-consumo-di-suolo-senza-argine/

Alluvione fiume Lamone e il problema dell’alveo. La lettera di Maurizio Nieddu (geologo)

 https://ilpiccolo.org/ilpiccolo/2023/05/alluvione-fiume-lamone-e-il-problema-dellalveo-la-lettera-di-maurizio-nieddu-geologo/

 

le cause di questo disastro sono molte e diverse.... ma a proposito di pulizia degli alvei e degli argini alleghiamo una considerazione, ricevuta tra le tante che circolano:

Buongiorno, le considerazioni dell'amico Maurizio Nieddu sono condivisibili per la regimazione dei canali, ma a mio parere non per i corsi d'acqua naturali quali sono i fiumi, tema che indubbiamente trova pareri discordanti da parte degli "esperti" sulla velocità dell'acqua da favorire con la pericolosità che comporta o da rallentare con la presenza ad esempio di vegetazione negli argini, che li rende anche più sicuri contro il rischio di rotture.....alla pag 16 delle Linee guida regionali per la riqualificazione integrata dei corsi d’acqua naturali

dell’Emilia-Romagna troviamo infatti quanto segue:
"Le associazioni vegetali ripariali, oltre a costituire un importante valore ecologico e fungere da agenti di una notevole attività di depurazione del- le acque, possono essere considerate come la più naturale delle difese idrauliche, efficaci per la limitazione dell’erosione e per il rallentamento della corrente nelle zone d’alveo non soggette ad invaso permanente.
Risulta quindi evidente la necessità di mantenere, al di fuori dell’alveo normalmente attivo, la vegetazione esistente, limitando gli abbattimenti agli esemplari di alto fusto morti, pericolanti, debolmente radicati, che potrebbero essere facilmente scalzati ed asportati in caso di piena."

LINEE GUIDA REGIONALI PER LA RIQUALIFICAZIONE INTEGRATA DEI CORSI D’ACQUA NATURALI DELL’EMILIA-ROMAGNA


https://progeu.regione.emilia-romagna.it/it/life-rii/temi/documenti/linee-guida-per-la-riqualificazione-integrata-dei-corsi-d2019acqua-naturali/

 

 

 

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COMMENTI. Il pericolo di una disfida tra i rigidi, antieconomici e inquinanti impianti nucleari e le energie rinnovabili. Con il rischio per il paese di rinviare la decarbonizzazione

 Centrale del Garigliano - Ansa

Ci sarà pure un motivo per il quale la generazione elettrica complessiva da nucleare dal 18% del 1996 è scesa al 10% del 2021 (Iea, World Energy Outlook 2022)? Qualsiasi discussione sul nucleare deve preliminarmente dare risposta a questa e ad altre domande. Soprattutto dopo l’approvazione del Parlamento di una mozione sul nucleare. Un atto propedeutico per un eventuale dispositivo normativo che lascia ancora dubbi e perplessità. La ragione delle necessarie domande è semplice: per non ritrovarsi in una incresciosa ed assurda competizione con le rinnovabili sugli investimenti necessari per la decarbonizzazione, che prevede impegni, come noto, già al 2030.

Prima di tutto di quale tecnologia si parla, con un ruolo dell’Italia tutto da reinventare attraverso partnership internazionali (quali?) per un know-how perduto dopo l’esito di due referendum tranchant. E’ necessario anche sapere l’ammontare dei finanziamenti necessari, in termini di prezzo dell’energia prodotta e del costo di realizzazione, che per il nucleare cresce all’aumentare della taglia.

I mini-reattori (quando disponibili, pur sempre di 3-400 megawatt) hanno la necessità di individuare più siti sul territorio, cosa molto improbabile in un Paese come l’Italia. Occorre chiarezza anche per i tempi di realizzazione, allo stato attuale assolutamente incompatibili con la decarbonizzazione. Se si sta parlando di reattori di cosiddetta quarta generazione non è al momento possibile quantificare costi e tempi in quanto è ancora solo una tecnologia sperimentale con pochi prototipi funzionanti. Più verosimilmente le proposte potrebbero riguardare reattori di terza generazione plus Epr che annoverano oggi quattro reattori di grande capacità (1,6 GW) in tre impianti diversi, anche qui con costi e tempi elevati.

Attualmente, e questo è bene ribadirlo pubblicamente, il confronto dei costi con le rinnovabili è a tutto vantaggio di queste ultime. Lazard e Iea stimano un valore del fotovoltaico utility scale molto più competitivo (valori medi 40 $/MWh contro 165 $/MWh, cioè quattro volte di meno).

Anche considerando la presenza di sistemi di accumulo per il fotovoltaico, si ha un costo del MWh massimo pari a 120 $, ancora inferiore a quello del nucleare. Tale valore può comunque essere ridotto già oggi sfruttando diverse soluzioni di accumulo energetico non solo legate alle batterie elettriche ma riguardanti tecnologie innovative del pompaggio, dell’idrogeno e dell’accumulo termico. La soluzione nucleare è quella comunque meno adatta a stabilizzare la rete a causa della sua intrinseca rigidità a modulare la potenza.

Ancora, come affrontare il tema dell’inquinamento. La tassonomia europea considera il nucleare una fonte verde, ma anche qui si chiede trasparenza. Ricordiamo che uno dei punti inderogabili del principio di non arrecare danno all’ambiente Dnsh per qualunque tipo di intervento riguarda l’inquinamento dell’aria, dell’acqua ma anche del suolo. Dal punto di vista della riduzione delle emissioni di CO2 derivanti dalla produzione di energia elettrica tra rinnovabili e nucleare, recenti studi hanno mostrato il confronto tra le due fonti energetiche.

Esaminando in modo sistematico modelli diversi caratterizzati da quote diverse di rinnovabili e di nucleare, e sulla base di ipotesi riguardanti scenari diversi di potenzialità di mitigazione nei confronti delle emissioni assegnate al nucleare e alle rinnovabili, i risultati delle analisi effettuate mostrano che le emissioni di CO2 sono inferiori nel caso delle rinnovabili.
Inoltre viene evidenziata anche l’esistenza di una associazione negativa tra lo sviluppo in un unico Paese degli impianti nucleari e di quelli che usano fonti rinnovabili, che di fatto si escludono a vicenda. Un Paese ad elevata penetrazione nucleare risulta a bassa diffusione di utilizzo di fonti rinnovabili, e viceversa. Inoltre, la vicenda del deposito delle scorie radioattive come è andata a finire? E’ stata fatta una mappa per i siti delle ipotetiche nuove centrali? Che procedura mettere in campo per superare l’ostacolo dei referendum? Risposte a domande senza ovviamente entrare nel mondo dell’iperuranio, fatto di reattori a fusione, di quarta generazione o microreattori modulari.

Governo e Parlamento farebbero bene a rispondere preliminarmente a queste domande, anche perché il futuro del nucleare è limitato persino per l’Agenzia Internazionale dell’Energia (Iea) che all’atomo assegna uno scarso 10% per la generazione elettrica a livello mondiale, nulla di più di quanto si riscontra oggi.

Se non saremo tutti più che convinti in termini di costi, tempi e soluzioni, sarebbe ridicolo per il nostro Paese affrontare questa avventura – comunque marginale – al di fuori del perimetro di un necessario e fondamentale impegno in termini di ricerca applicata. Fino a quando non si avrà certezza delle fattibilità tecniche e dei costi, il ricorso al nucleare produrrà solo uno slittamento inaccettabile dei tempi di decarbonizzazione del nostro Paese.

*Prorettore alla Sostenibilità, Sapienza Università di Roma e Presidente del Coordinamento FREE

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