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Sottotitolo: prova anche tu a far cadere il governo della tua parte. Ci sono vari schemi da adottare e esempi da superare

 

Un nuovo gioco di ruolo telematico viene oggi offerto ai ragazzi: il Renzino, detto anche il gioco dello Scorpione.

Il più classico inizia con un atto di coraggio: il segretario del partito al governo costringe alle dimissioni il presidente del consiglio espresso dal suo stesso partito e prende il suo posto (qui nasce la favola moderna del suo incommensurabile talento).

Il secondo passaggio è la redazione di una riforma costituzionale per ridurre il Senato a camera, a mezzo servizio, dei consiglieri regionali. Il nuovo presidente del consiglio si presenta in aula con la mano in tasca e annuncia che quella è l'ultima volta che un presidente si rivolge al Senato e che se la riforma non passerà lui stesso abbandonerà la politica.

Il terzo passaggio consiste nell'imprevista sconfitta della riforma al referendum. Qui si vede il vero carattere del giocatore. Se abbandona davvero la politica il gioco è subito finito e non c'è più sugo. Se invece il giocatore ha il coraggio di smentirsi il gioco continua.
Il quarto passaggio è la sconfitta del suo partito alle elezioni. Dove però il presidente sconfitto deve avere il coraggio di presentarsi al voto proprio per quel Senato che aveva voluto ridurre. Con un coraggio altruistico supplementare: riempire le liste con i suoi sostenitori, che nonostante la sconfitta risulteranno numerosi e quasi tutti fedelissimi.

Il quinto passaggio è il più delicato. Dopo aver portato alla sconfitta elettorale il suo partito il neo senatore opera una chirurgica scissione che sottrae al suo ormai ex partito una pattuglia di senatori decisiva per gli equilibri della nuova maggioranza che lui stesso ha contribuito a far nascere.

Il sesto passaggio consiste nel togliere la fiducia al governo espresso dalla maggioranza e sghignazzare sulle sue sventure. Ma qui ci vuole uno speciale coraggio per rendere il gioco pieno di suspense. Bisogna esercitare un doppio talento: restare a mezza strada tra la maggioranza amputata e l'opposizione, far capire che ci si considera parte della maggioranza e allo stesso tempo comportarsi da capo dell'opposizione (per il vero giocatore sentirsi capo di qualcosa è fondamentale).

Ma, settimo e ultimo passaggio, il successo del giocatore non è solo far cadere il governo di quella che era la sua parte ma anche e soprattutto evitare il ricorso alle elezioni, perche queste sarebbero letali per il suo gruppo, dato che col 2% dei suffragi previsto sarebbe condannato alla totale scomparsa. Se ci riesce ricchi premi e cotillons, a patto che riesca a barcamenarsi  tra le due parti perché nessuna delle due lo vorrà tra le proprie file.

Il Renzino (ovvero il coraggio e il talento dello scorpione) è il nuovo gioco d'azzardo del nostro tempo. Necessario per ridare fascino all'attività più estenuante dell'uomo: la politica.

Per giocarlo si deve avere precisa cognizione dei propri limiti. Se si ammette di non essere autenticamente stronzi meglio non giocare.

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ll Patto per il lavoro e il clima proposto dalla Regione Emilia-Romagna non è all’altezza della svolta necessaria per affrontare il tema urgentissimo della conversione ecologica e del contrasto al cambiamento climatico, dell’uscita dai combustibili fossili, dell’uso sostenibile delle risorse e della preservazione e valorizzazione ambientale come vettori fondamentali per disegnare un nuovo modello produttivo e sociale. Queste le valutazioni della rete RECAER che hanno spinto la maggioranza dell’assemblea delle 71 associazioni della rete a votare per la non-firma del Patto.

Negli scorsi mesi la Rete ha fatto pervenire agli uffici regionali oltre 700 pagine di proposte con specifici obiettivi temporali e risultati attesi. Nonostante qualche sparuto accoglimento la versione finale non ha raccolto la maggior parte delle istanze che avrebbero reso il Patto un documento vincolante e veramente operativo: non sono indicati obiettivi intermedi, né specificati investimenti e risorse finalizzate al raggiungimento del 100% di energie rinnovabili al 2035, uno degli obiettivi più importanti. Senza questi indicatori non è possibile monitorare i risultati del Patto stesso, il che lo rende uno strumento potenzialmente inerte.

Un documento di buone intenzioni che che non mette in discussione le enormi contraddizioni con cui la Giunta avalla, parallelamente, l’operato di ENI di un grande impianto di cattura e stoccaggio della CO2 a Ravenna, (intervento bastevole da solo a invalidare qualsiasi strategia carbon-free). Nulla è detto sull’incremento del trasporto pubblico ferroviario, sulla riqualificazione edilizia, sulla completa elettrificazione dei sistemi energetici, non ci sono indicazioni strategiche sull’idrogeno e i suoi sistemi di produzione e sul superamento della produzione di energia da biomasse.

È irrealistico pensare di raggiungere l’obiettivo della transizione ad emissioni zero della Regione Emilia Romagna entro il 2050 senza la ripubblicizzazione del servizio idrico e della gestione dei rifiuti, senza impegni concreti riguardo la riduzione delle biomasse e un cronoprogramma che porti alla chiusura di inceneritori e discariche; senza interventi incisivi sui temi dell’agricoltura e della zootecnia; senza invertire la marcia di una mobilità fatta di grandi opere infrastrutturali: Passante di Bologna e bretella di Campogalliano sono esempi attualissimi di una pesante contraddizione con l’obiettivo di consumo di suolo zero.

Una Regione Emilia Romagna che propone l’autonomia differenziata o si candida ad ospitare le Olimpiadi non può portare avanti un’azione credibile verso i suoi cittadini che attendono azioni concrete a partire da subito e non l’ennesima operazione di marketing politico senza un corredo solido e coerente di attuazioni. Se vogliamo salvare il nostro territorio dal cambiamento climatico che ogni giorno di più si manifesta nella sua violenza distruttiva, occorre ricominciare da un confronto reale su tutte le tematiche inerenti, con realtà capaci di rappresentare gli interessi dei cittadini in maniera disinteressata ma competente. Per questo RECA si mantiene disponibile a proseguire in un confronto con le realtà istituzionali e sociali, augurandosi che le forme di questo confronto si rivelino, finalmente, realmente partecipative attraverso la presenza a tavoli di lavoro permanenti.

 

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“Un punto di partenza, ora serve concretizzare gli obiettivi. Il primo banco di prova sarà la prossima programmazione dei fondi UE.

I buoni obiettivi del Patto non cancellano le contraddizioni esistenti né gli interessi contrapposti che si misureranno nel confronto”.

Legambiente segnala la propria adesione al Patto Lavoro e Clima della Regione. Un’adesione fatta con la chiara consapevolezza che non si tratta di un punto di arrivo ma solo l’inizio di un percorso di confronto che dovrà dimostrare di attuare i principi (e gli obiettivi numerici) contenuti nel documento di intenti.

Di fronte ad un documento dagli obiettivi climatici ambiziosi (il 100% di rinnovabili al 2035 è una sfida enorme) non sfuggono le tante contraddizioni oggi presenti nelle programmazioni vigenti.

“La firma del Patto non elimina dunque le diversità di vedute e di interessi in campo né la nostra contrarietà alle tante opere sbagliate che consumano il territorio e che alimentano i drammatici effetti della crisi climatica. Riteniamo invece positivo che si sia superata l'esclusione a priori del mondo ecologista dal dibattito sulle scelte economiche e sociali e il confronto di questi mesi.” – commenta Legambiente

La scelta dell'associazione è infatti parte di un percorso iniziato da tempo, con l'istanza di superare gli inconcepibili limiti del precedente Patto per il Lavoro. Nella scorsa legislatura il Patto era aperto a tutta la società regionale (compresi, scuola, università, terzo settore), tranne che al mondo ecologista.

Si trattava di un patto dove la parola ambiente e Clima erano drammaticamente assenti, e che restituiva una rappresentanza della società regionale monca di sensibilità fondamentali. Mancanze che Legambiente ha criticato e stigmatizzato pubblicamente nella scorsa legislatura e a cui ha chiesto di porre rimedio subito dopo le ultime elezioni regionali. Dunque un cambio di metodo importante.

Per questo l’associazione ritiene coerente presentarsi al confronto con altri soggetti della società regionale.

“Riteniamo comunque che gli obiettivi numerici indicati dal documento di intenti sugli aspetti climatici siano importanti. Così come le dichiarazioni su diritti, legalità ed inclusione sociale. Sulla mobilità, finalmente è stato introdotto il tema della riduzione delle auto in circolazione.

Che questi obiettivi trovino applicazione, sarà tutto da dimostrare. Anche per questo abbiamo chiesto che ci fosse un sistema di monitoraggio ed indicatori sull'efficacia del Patto. Aspetto entrato nel documento, ma che dovrà poi essere declinato in dettaglio nella pratica. “

Il primo banco di prova dell'approccio della Regione sarà l'impostazione sull’utilizzo dei fondi Next Generation UE a livello locale. Un dibattito che chiama in causa il tema del clima come le modalità di società con cui uscire dalla crisi.

“Su tutti i temi di criticità aperti  -  dalle nuove autostrade, alle levate di scudi contro l'eolico in Romagna, dai poli logistici alla tutela della naturalità fluviale, allo stoccaggio della CO2 di Eni – manterremo sempre e comunque la piena autonomia di dissenso e di vertenza” – conclude.

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Ufficio Stampa - Legambiente Emilia Romagna 

E-mail: ufficiostampa@Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Web: www.legambiente.emiliaromagna.it

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Cominciamo dalle valutazioni ufficiali dal sito della Regione Emilia-Romagna (seguono altre prese di posizione):

Nuovo Patto per il Lavoro e per il Clima: l’Emilia-Romagna unita per rilancio e sviluppo fondati su sostenibilità ambientale, economica e sociale

Sottoscritto dalla Regione con tutte le parti sociali. Bonaccini: “Il futuro lo costruiamo insieme"

Conferenza stampa Patto per il lavoro e il clima - 15/12/2020Nel tempo dell’emergenza e della lotta alla pandemia, in Emilia-Romagna si disegna un futuro diverso. Per tutti, nessuno escluso. Un progetto di rilancio e sviluppo della regione fondato sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Per creare lavoro di qualità, accompagnarla nella transizione ecologicacontrastare le diseguaglianze ridurre le distanze fra le persone, le comunità e le aree territoriali, ricucendo fratture acuite dalla crisi in atto. Con un investimento senza precedenti sulle persone, il welfare e la sanità pubblica, l’innovazione tecnologica e digitale – con la scienza al servizio dell’uomo, in ogni campo – i saperi e la scuola, la formazione, le eccellenze della nostra manifattura, l’economia verde e circolare, il turismo, il commercio, l’agricoltura, il mondo delle professioni e il terziario, la messa in sicurezza del territorio. Con l’obiettivo di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 e il 100% di energie rinnovabili entro il 2035.

È il Patto per il Lavoro e per il Clima che la Regione Emilia-Romagna sigla con 55 firmatari: enti locali, sindacati, imprese (industria, artigianato, commercio, cooperazione), i quattro atenei regionali (Bologna, Modena e Reggio Emilia, Ferrara, Parma), l’Ufficio scolastico regionale, associazioni ambientaliste (Legambiente, Rete Comuni Rifiuti Zero), Terzo settore e volontariato, professioni, Camere di commercio e banche (Abi).

Un percorso comune che nasce dalla convinzione che da questa crisi l’Emilia-Romagna debba uscire con un progetto di sviluppo nuovo. Un progetto che migliori la qualità della vita di donne e uomini e del pianeta, che punti a una reale parità di genere, che attui la transizione ecologica creando lavoro di qualità, valorizzando tutte le potenzialità e gli spazi che questo cambiamento offre al territorio e alle nuove generazioni. Senza lasciare indietro nessuno. Perché creare nuova occupazione – di qualità, dipendente o autonoma che sia, ma stabile e adeguatamente remunerata - che scaturisca e accompagni la svolta verde, non è solo possibile, è anche necessario.Patto per il lavoro e il clima - Logo

Il Patto si fonda sulla qualità delle relazioni tra istituzioni, rappresentanze economiche e sociali. L’intera comunità regionale impegnata su obiettivi strategici definiti sulla base di una partecipazione democratica e di una progettazione condivisa, e la conseguente assunzione di responsabilità di ciascuno e dell’intera ‘squadra’. Guardando al 2030, in linea con l’orizzonte e gli obiettivi fissati dall'Agenda delle Nazioni unite e dell’Unione europea: in un tempo in cui la pandemia e la crisi costringono ad aggiornare le previsioni giorno per giorno, l’Emilia-Romagna non rinuncia ad un progetto di medio-lungo termine per orientare le scelte strategiche.

Gli obiettivi delineati nel documento saranno oggetto di ulteriori e successivi accordi per definire più nel dettaglio, con lo stesso metodo di confronto e condivisione, come programmare le risorse europee, statali e regionali, ordinarie e straordinarie, che l’Emilia-Romagna avrà a disposizione per un rilancio degli investimenti pubblici e privati, in un momento che rappresenta anche una grande occasione storica. L’Europa ha infatti battuto un colpo decisivo con il Next Generation EU, che destina all’Italia 209 miliardi di euro per il proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che per i sottoscrittori del Patto dovrà vedere protagoniste le Regioni e le autonomie locali.

Impossibile immaginare la realizzazione di un piano di ricostruzione del Paese senza il loro pieno coinvolgimento. Sulla base delle azioni indicate nel nuovo Patto, l’Emilia-Romagna è pronta a presentare al Governo proposte e progetti da finanziare con i fondi del Next Generation EU. Ci sono poi i Fondi europei della nuova programmazione 2021-2027 destinati a crescere per la nostra Regione (nel settennio precedente 2,5 miliardi di fondi strutturali e 660 milioni di euro di FSC, di cui 55 milioni gestiti dalla Regione) e quelli che il territorio saprà aggiudicarsi candidandosi ai diversi programmi europei (per il solo Horizon 2020 il contributo di cui ha beneficiato il territorio regionale è stato pari a oltre 280 milioni di euro), unitamente alle risorse regionali e statali.

Solo la Giunta regionale ha previsto nel bilancio di previsione 2021 investimenti per un miliardo mezzo di euro, nel contesto più ampio del piano di investimenti per quasi 14 miliardi di euro al 2022 presentato già prima dell’estate, anche in questo caso considerate tutte le fonti di finanziamento, per una ricostruzione partecipata e condivisa da territori, parti sociali, comunità locali.

L’Emilia-Romagna continua dunque a fare sistema. Le firme di oggi confermano e rafforzano il metodo avviato nel 2015 con la firma del Patto per il Lavoro, che in cinque anni ha permesso all’Emilia-Romagna di recuperare terreno rispetto alla lunga crisi economica apertasi nel 2008, portandosi ai vertici italiani ed europei per crescita, occupazione, export e valore aggiunto. Cinque anni nei quali il Patto per il Lavoro ha generato investimenti e movimentato risorse per oltre 22 miliardi di euro (ben oltre i 15 preventivati all’inizio).

Uno scenario radicalmente cambiato nell’ultimo anno con la diffusione della pandemia mondiale e l’esigenza, ora, di fare tesoro dalle lezioni apprese dall’emergenza e di impostare un modello di sviluppo che sia sostenibile. Per affrontare quattro sfide che lEmilia-Romagna, al pari e più di altri sistemi territoriali, è chiamata ad affrontare: crisi demografica, emergenza climatica, trasformazione digitale, contrasto alle diseguaglianze.

Il Patto per il Lavoro e per il Clima indica come proprio orizzonte il 2030, assumendo una visione di medio e lungo periodo, indispensabile per affrontare la complessità dei temi aperti, allineando il percorso dell’Emilia-Romagna agli obiettivi previsti dall’Agenda 2030 dell’Onu, dall’Accordo di Parigi e dall’Unione europea per la riduzione delle emissioni climalteranti di almeno il 55% entro il 2030.

Adesso la transizione ecologica e la neutralità carbonica sono obiettivi concreti e condivisi. Abbiamo dato un indirizzo chiaro e coraggioso alle scelte per il contrasto ai cambiamenti climatici e alle disuguaglianze sociali, di genere e territoriali. Questo Patto segna l’impegno condiviso a fare ciascuno la propria parte per ripartire insieme, avviando un percorso di cambiamento urgente e ineludibile per il futuro della nostra comunità e delle prossime generazioni. In un momento difficile come questo in cui nel Paese, per affrontare la crisi pandemica, sono richieste unità e responsabilità in Emilia-Romagna siamo riusciti a costruire una cornice strategica per non tornare alla normalità di prima, ma migliorare la qualità della vita delle persone e del pianeta.

ELLY SCHLEIN vicepresidente

Il Patto per il Lavoro e per il Clima si conferma un atto importante di democrazia e responsabilità condivisa, in rete con le più grandi progettazioni innovative del nostro Paese, e che si relaziona con l’Europa. La grande novità di questo nuovo documento è contenuta nel titolo, che affianca al ‘Lavoro’ la parola ‘Clima, perché non c’è sviluppo senza sostenibilità ambientale, economica e sociale. Non può esistere contrapposizione fra ambiente e lavoro anzi, al contrario, proprio attraverso il green new deal e l’investimento sui saperi possiamo creare occupazione di qualità, riducendo la forbice delle disuguaglianze.

VINCENZO COLLA assessore allo Sviluppo economico, lavoro e green economy
 
In Emilia-Romagna il futuro lo costruiamo insieme. Ancora una volta dimostriamo coi fatti che si possono unire le parti per un progetto condiviso di sviluppo sostenibile, che punti al lavoro di qualità e ad una transizione ecologica non più rinviabile. Mettiamo il bene comune avanti a tutto, scegliendo confronto e condivisione, patrimonio di questa terra, soprattutto nei momenti più difficili. Ringrazio tutti i firmatari, sensibilità diverse al servizio del sistema territoriale dell’Emilia-Romagna. Questa regione intende svolgere un ruolo primario anche nella programmazione e nella gestione delle risorse straordinarie che il Paese avrà a disposizione, in quantità mai viste prima. Come dimostrano gli stessi numeri e indicatori che ogni anno il Governo fornisce - qualsiasi Governo di qualsiasi colore -, se c’è una regione che sa programmare e spendere bene e in fretta le risorse europee e nazionali questa è l’Emilia-Romagna. Per questo, in accordo con tutte le rappresentanze del territorio, ci candidiamo a svolgere una parte importante anche nell’impiego migliore delle risorse del Next Generation EU. Per recuperare ogni posto di lavoro perduto, per potenziare ulteriormente la sanità pubblica, per investire in saperi e innovazione, per la qualità del nostro ambiente e la sicurezza del nostro territorio. Credo che l’Emilia-Romagna stia indicando un percorso di valenza nazionale che farebbe davvero bene a tutto il Paese: nel momento durissimo che stiamo vivendo, qui decidiamo ancora una volta di uscirne insieme, tutti, attraverso partecipazione e democrazia, condividendo ogni risorsa disponibile in termini economici, progettuali e di conoscenze. Lo stesso che credo debba fare l’Italia.
STEFANO BONACCINI presidente della Regione Emilia-Romagna
 
 

 

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Sindacato/Ambiente. I nostri avversari hanno cercato di dividerci. Soprattutto da quando si è cominciato a parlare di dissesto ambientale, di cui è stata offerta una versione spesso del tutto infondata: una rivendicazione dei privilegiati, un po’ più di verde e di aria pulita per vivere meglio

Manifestazione contro il global warming.

 

Cari compagni della Cgil, non siamo certo le sole che sono rimaste sconcertate leggendo quanto i sindacati Filctem-Cgil, Femca e Flaei-Cisl e Unitec-Uil hanno proposto qualche giorno fa per far fronte alle urgenze del disastro ambientale. Ci rivolgiamo a voi perché, pur con diverse sensibilità legate alle nostre età differenti, ci sentiamo, per storia e collocazione politica, parte integrante di un fronte di cui da sempre la Cgil ha costituito il nucleo decisivo.

Per questo partiamo da voi, ma cercheremo il confronto anche con Cisl e Uil. Per dirvi con sincerità che proprio per via di questo legame non ci sembra giusto limitarsi ad esprimere sconcerto, sentiamo l’obbligo di rendere pubblico il nostro dissenso per avviare fra noi una discussione seria che impedisca che un tema decisivo come le sorti della Terra che abitiamo venga utilizzato per dividerci. Sappiamo bene che la linea assunta dai sindacati menzionati non è quella delle confederazioni,e però ci sembra non possa esser passata sotto silenzio.

I nostri avversari hanno cercato di dividerci. Soprattutto da quando si è cominciato a parlare di dissesto ambientale, di cui è stata offerta una versione spesso del tutto infondata: una rivendicazione dei privilegiati, un po’ più di verde e di aria pulita per vivere meglio.

Insomma, l’odioso ricatto imposto agli operai dell’Ilva: «meglio morire di cancro che di fame».

E però, adesso siamo arrivati a un punto cruciale, il processo di distruzione del nostro ecosistema ha fatto un salto di qualità, la pandemia, che ne è un aspetto, è lì a provarlo. Se non innestiamo subito la svolta indispensabile, che significa governare la riconversione verso un diverso e nuovo progetto di produzione e di consumo, il prezzo che pagheranno i più deboli sarà tremendo.

Può il sindacato tirarsi fuori dallo scontro che si aprirà, lasciando che chi lucra su questo modello di economia e di società decida del nostro destino? O non deve, al contrario, decidere di stare in prima linea nella lotta per chiedere e imporre che si imbocchi un’altra strada? L’urgenza di affrontare seriamente i nodi irrisolti del nostro confronto l’abbiamo avvertita quando abbiamo preso conoscenza delle proposte del documento unitario dei tre sindacati che rappresentano i lavoratori dell’energia, del tessile e dei chimici. Il documento unitario proposto ci sembra abbia lo sguardo rivolto al passato, un passo indietro per l’intero movimento sindacale, in particolare per un sindacato come la Cgil.

Può la Cgil, che si è sempre distinta proprio perché ha sempre saputo guardare lontano, oltre la rivendicazione immediata, rinunciare a svolgere il proprio ruolo storico proprio nel momento in cui la rivoluzione forse più difficile del nostro tempo è entrata nel nostro ordine del giorno?

Siamo anche noi consapevoli che nel porre mano al progetto di una trasformazione del sistema energetico non si può non prevedere una fase di transizione, ma vorremmo segnalare che se si parla di transizione bisogna indicare la nuova sponda dove si vuole arrivare, che non può essere il ritorno alle centrali a gas a ciclo combinato, solo poco meno inquinanti di quelle a carbone, sapendo peraltro che quelle avviate già 15 anni fa sono restate sottoutilizzate.

Non si transita, ma si ristagna, se non si indica, anzi nemmeno si nomina, l’approdo strategico: di fare dell’Italia un paese capace di ridurre i suoi bisogni di energia e di produrre quella di cui necessita con le fonti energetiche rinnovabili, quelle vere e non quelle assimilate, già oggi anche più economicamente convenienti.

Citate fra le rinnovabili solo l’idroelettrico, ma sapete anche voi che questa è stata una fantastica risorsa usata dai nostri avi, oggi tuttavia insufficiente, soprattutto in Italia, e comunque incapace di offrire una produzione energetica quale quella possibile ricorrendo al solare fotovoltaico e termico, o all’eolico, le tecnologie su cui tutto il mondo sta puntando.

Altrettanto sconcertante è la proposta di fare centrali a metano per produrre l’idrogeno blu, come a Civitavecchia, una scelta che fa capire la centralità che viene data dal documento sindacale al gas rispetto alle rinnovabili, visto che viene pressoché ignorato l’idrogeno verde, quello prodotto con fonti rinnovabili, come sostenuto da gran parte del mondo scientifico. Così non si transita, si rafforza solo la catena che ti inchioda alla riva da cui dovresti salpare.

C’è da chiedersi, infine, quali siano i centri di ricerca scientifica che forniscono queste indicazioni ai tre sindacati e colpisce negativamente che la sola società ricordata nel documento sia la Sogin, quella incaricata di gestire i rifiuti nucleari, tristemente famosa per aver totalmente fallito il suo compito. Ma c’è anche un altro, decisivo aspetto:: quello relativo al decentramento della produzione e distribuzione, universalmente riconosciuto come essenziale al nuovo modello fondato su altre fonti, ma anche sul risparmio energetico.

In proposito non c’è nel documento neanche una parola sul carattere democratico e di partecipazione popolare di cui è portatore. E questo sebbene stia qui la vera chiave di un progetto che vuole davvero «transitare» verso le fonti rinnovabili. Se manca finisce per prendere piede uno sviluppo come quello realizzato in quasi tutto il mezzogiorno dove si sono sottratti migliaia di ettari all’agricoltura per riempirli di pale eoliche e successivamente di pannelli solari, senza alcun criterio programmatorio, ma spesso solo per una corsa, a volte mafiosa, agli incentivi.

Un nuovo modello energetico non può che avere al suo centro le comunità energetiche, nel quadro dell’invocata economia circolare. Non si può cioè fare affidamento solo su ciò che sono oggi, pur nelle loro diversità, Enel e Eni, grandi aziende ricche di competenze, ma figlie di un modello centralizzato e monopolistico in larga parte da superare.

Sappiamo tutti quali e quanti sono i temi su cui ragionare assieme. Negli anni ’50 Di Vittorio lanciò il Piano del lavoro; negli anni 90 Sergio Cofferati sottoscrisse con Legambiente un patto di consultazione che portò a numerose piattaforme unitarie ed infine prima Epifani e poi Susanna Camusso avevano cercato di dare continuità a queste iniziative; Maurizio Landini ha subito e più volte riproposto questo tema ora annunciando una conferenza di programma; e indicando nella sua prima relazione a segretario generale a Bari, anche un nuovo modo di organizzarsi del sindacato: non più solo in categorie ma anche in «sindacato di strada», capace di aggregare i tanti soggetti diversi che vivono nel territorio e che potrebbero costituire un nuovo assai interessante soggetto rivendicativo capace di tradurre il discorso ecologico in vertenza.

Oggi abbiamo l’occasione di un finanziamento pubblico, quello del piano europeo Next Generation, per innescare la transizione. Evitiamo che queste risorse vengano disperse per soddisfare i tanti «ecofurbi» in circolazione. Abbiamo poco tempo: ancora ieri un’altra esondazione di fiumi in Sardegna, altri morti, altri danni. Investire in un rinnovamento profondo non è spesa, è risparmio.

 * Portavoce Taskforce Natura e Lavoro

** Deputata LeU, ex presidente Lega Ambiente

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Maria Paola Patuelli presenta il libro “Polvere e perle”, tra storia e  vicende personali Eventi a Ravenna

Sono giorni, questi, di un autunno che si annuncia difficile per il mondo intero, e che invitano a riflessioni che ci impongono di mettere il naso fuori di casa. Almeno con il pensiero che - non di rado - aiuta molto più di tanti affannosi spostamenti.

E’ trascorso più di un mese dal referendum costituzionale, vicenda grande per l’Italia e quasi invisibile nel resto del mondo. Per chi, come è il mio caso, ne esce con una annunciata sconfitta, è doveroso fermarsi e cercare di capire. La sconfitta era annunciata, per non meno di due ragioni. Una ragione parte dai numeri. Quando, in marzo, il referendum sembrava imminente, le proiezioni ci dicevano che il nostro NO si aggirava sul 9%. Per il resto, erano tutti Sì. A seguire, un lock down che ha fatto mettere tutto, tranne il virus, in secondo piano. Alle parole - in questo caso lock down - ci abituiamo troppo velocemente, soprattutto quando diventano vulgata ripetuta ogni momento. Down, giù, per terra.  Come chi getta le armi. Un linguaggio fra il miliare e il rinunciatario. Perché, mi dice un caro amico di lingua madre inglese, non lock in? Chiudere la porta al pericolo, è qualcosa di più attivo e razionale del gettarsi giù per terra. Ma noi, tutte e tutti, a dire e a ripetere lock down. Almeno per quanto riguarda il virus. Ma per quanto riguarda il referendum costituzionale, noi “resistenti costituzionali”, ci siamo ritrovati in, e molto connessi fra di noi.

Abbiamo avviato esperimenti di attivismo civile a distanza, di riflessione sulla inedita esperienza in corso, tutte e tutti dentro casa, ma non per terra. Ci siamo preparati al referendum, pur sapendo che non lo avremmo vinto. La seconda ragione della sconfitta annunciata? L’opinione popolare, ampiamente diffusa, che il Parlamento, pur con tutti i suoi alti numeri, lavorasse male. Ma non da poco tempo. Da molto, moltissimo tempo.  Quale migliore occasione di un referendum popolare, per dirlo con voce alta e forte? La voce del popolo che parla è sempre alta, anche se non sempre è giusta. Ma noi “resistenti costituzionali”, con ostinazione, a partire da luglio, e durante un agosto vacanziero e troppo imprudente, con grandissime difficoltà, e scarsi mezzi - media in altre faccende affaccendati -, con pazienza quasi certosina, abbiamo cercato di portare la discussione sul piano del ragionamento, storico e politico. E’ tagliando che si migliora il Parlamento? Vale la pena reagire con la rabbia e punire, in questo caso, la incolpevole Costituzione, anziché criticare chi ha fatto leggi elettorali incostituzionali e mandato in Parlamento personale politico quasi sempre, e da molto tempo, al di sotto di quanto esige l’art.54 della Costituzione “ … I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore  …”? Abbiamo cercato, con poche forze a disposizione, di metterla in politica, di entrare nel merito, di informare, discutere, parlare, chiarire le nostre ragioni. Il contrario dell’immaginare una bacchetta magica che taglia e rimodella, a prescindere. Non abbiamo vinto, ma dal 9% di marzo abbiamo superato il 30% di settembre.

Sconfitti, ma in piedi e dignitosamente. E avendo fatto incontri importanti. Con giovani colti e impegnati che stanno scoprendo il valore della politica, fatta in prima persona, e organizzata in modo permanente. Un giovane del partito democratico ha scritto una Lettera ai miei compagni, in cui rendeva pubbliche le ragioni del suo NO. La lettera si conclude con una citazione. Nella vita a volte è necessario saper lottare, non solo senza paura, ma anche senza speranza. Sandro Pertini. Una lezione di buona politica, che mi ha commosso e che mi incoraggia, nonostante questi giorni difficili in cui il Parlamento è troppo silente, dimostrando così ancora una volta che i parlamentari non hanno compreso quanto sia ampia la sfiducia popolare in chi lo abita. Con un Presidente del Consiglio che sembra non avere fiducia neppure nel Governo che presiede, se è vero che continua la pratica di suoi Decreti, a volte sconosciuti anche ai suoi ministri, che poi protestano. Parlano poco fra di loro, i ministri del Governo. E parlano poco fra di loro anche i parlamentari. Sembrano spesso preferire conferenze stampa o esternazioni extraparlamentari. Non va bene. E non c’entra la Costituzione, ma il danno è fatto da chi la onora poco e male.

Vedo però novità che credo di potere definire di natura sicuramente politica. Giovani, fino a non molto tempo fa poco visibili, che si muovono in autonomia, per il clima e per l’ambiente - questioni politiche di prima grandezza - e con ostinazione, nonostante il covid. Le sardine in Italia, che non vogliono legarsi. Cercano interlocuzioni che trovano con fatica, ma insistono, anche se i media ultimamente le trascurano, le sardine. Invece hanno agito molto nei luoghi dove in settembre si sono avute le elezioni amministrative e regionali. C’è un certo risveglio democratico, in Italia? Lo spero. Alcune intelligenze politologiche che ascoltiamo sempre con attenzione, anche dopo il referendum, insistono su un tasto che sarà difficile fare risuonare in positivo. Debbono rinascere i Partiti - dicono - senza i quali il populismo vince. Già, ma a cosa è dovuta la crisi della democrazia rappresentativa, e non solo in Italia? Cosa erano un tempo i Partiti, cosa sono poi diventati, e perché? Il nostro faticato 30% è il risultato di un nostro impegno che ha messo al centro la Costituzione e la cultura politica che la attraversa. Possono i Partiti - nessuno escluso - fare la stessa affermazione, per quanto riguarda per lo meno gli ultimi decenni? Stanno, i Partiti, studiando bene i risultati che il Cattaneo ci ha spiegato, in merito al risultato referendario? Lo sta facendo la sinistra, variamente collocata? Quanto populismo c’è nel 70% dei Sì?

Non mi nascondo - sto cercando di non accantonare il problema - che un numero non grande ma significativo di costituzionalisti si è espresso per il Sì, o non si è espresso. Pensando e dicendo, a ragione, che la grave crisi in cui versa l’Istituzione Parlamento non è questione di numeri, ma di strumenti per fare funzionare bene il Parlamento, a partire da una legge elettorale che rimetta nelle mani dei rappresentati il diritto di scegliere i propri rappresentanti. Grandi promesse in tal senso, prima del referendum. Ora il tema è silente. Come ridare ai Partiti il ruolo che la Costituzione indica, se non rinasce una cultura politica, per quanto plurale, che alla politica ridia valore? Le giovani e i giovani che stanno agendo e facendo proposte, sono, in genere, studenti o persone di buon livello culturale. Conoscono la storia, la politica e il mondo. Studiano. E, in buona misura, hanno votato NO al referendum, dicono le analisi del Cattaneo. E’ una buona notizia. Ci consente - penso alla mia generazione - di passare la mano. Sarà questa nuova generazione che, forse, farà rinascere il ruolo dei Partiti. Se i Partiti avranno una forma, una cultura e metodi diversi da quelli che li hanno resi morituri, o stravolti. C’è un ritardo di molti decenni. Poche mosche bianche, e inascoltate, lo dicevano, ben prima di Mani Pulite.

E, sempre per mettere il naso fuori di casa, quello che più ci preoccupa, in queste giornate di fine ottobre, sono le elezioni presidenziali in USA.  Una parte - vedremo presto quanto grande - di popolo americano ha vissuto questi quattro anni di Trump come un incubo. Non è una metafora, è stato veramente un incubo, che testimonia quanto anche una democrazia di lunga durata come è quella statunitense, possa contenere demoni latenti, ma che esplodono quando trovano una fenditura, o un vuoto. Ma le democrazie contengono anche anticorpi. E’ quello che abbiamo visto quando straordinarie manifestazioni di donne hanno protestato contro la volgare misoginia di Trump. Quando manifestazioni antirazziste hanno scosso tutti gli Stati dopo la orrenda uccisione di George Floyd. Quando, recentemente, idee socialiste sostenute da giovani e bravissime donne del Partito democratico, stanno arrivando nelle Istituzioni, al Congresso e al Senato. Ho pensato, nei lunghi e difficili mesi del covid.

Chissà che non si inveri, in questo nostro tempo, la previsione di Marx, smentita fin qui. Che il socialismo si faccia strada nei paesi a capitalismo maturo. Ma di nuovo smentendo Marx, almeno in parte. Non sarà la classe operaia a fare la rivoluzione. Stanno facendo una rivoluzione culturale senza armi donne, uomini, giovani e non, che hanno studiato, che conoscono la storia, che non intendono più vivere in un mondo dove economia, politica e scienza marciano separati e non di rado ostili a ciò che è comune. Il vivere, il soffrire, e la ricerca della felicità. Come Jefferson scrisse all’inizio della prima rivoluzione moderna perché repubblicana. Res publica, grandi parole. Che siano in mente ai più di settanta milioni di cittadine e cittadini statunitensi che hanno già votato? Un numero così alto di voti prima del tre novembre non si era mai visto, nel secolo scorso e fino ad oggi, negli States. Per uscire subito dall’incubo? Lo speriamo. In caso contrario, l’incubo continuerebbe anche per noi.

 

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