RIFORMA DI FATTO. La morte impone rispetto, e non si discute. E l’impatto di Berlusconi sulla storia d’Italia nemmeno si discute. Ma ha diviso il paese da vivo, e continuerà a farlo da […]
La morte impone rispetto, e non si discute. E l’impatto di Berlusconi sulla storia d’Italia nemmeno si discute. Ma ha diviso il paese da vivo, e continuerà a farlo da morto. Già ora, una parte del popolo italiano non condivide i sette giorni di lutto parlamentare e la giornata di lutto nazionale. Perché pensa che Berlusconi sia causa non ultima dell’indebolimento istituzionale e politico del paese.
Berlusconi decide di scendere in campo nel 1993. Non prima, e nessun altro prima di lui, perché partiti fortemente strutturati e radicati nel territorio avevano fino ad allora imposto un cursus honorum che preveniva l’incursione ai piani alti della politica del tycoon di passaggio. Il collasso dei partiti in quei due terribili anni – 1992 e 1993 – e il vuoto che ne derivava erano condizioni necessarie per Berlusconi.
Nella seconda parte del 1993 viene ad arte creata nel paese l’attesa sul tema «scende, non scende». Arriva infine alle tv il 26 gennaio 1994 la videocassetta «L’Italia è il paese che amo». I professionisti della politica non capirono il cambio di passo nella comunicazione. Come non capirono che
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Commenta (0 Commenti)ASCESO IN CIELO. La realtà era quella di rapporti personal-familistici. Con Bush, Putin, Erdogan e Gheddafi
Se ne è andato, nel bene e nel male, unico anche nel peggio. Che da anziano era apparso a molti persino il meno peggio. In realtà è stato il primo e più avanzato dei populisti europei, così avanti da anteporre il suoi interessi personali e delle sue aziende a quelli del Paese. Come quando decide di frammentare in sei quote le forniture di gas dell’Eni dalla Russia per favorire imprese e imprenditori amici: la sua grande amicizia con Putin – che «non è più comunista, io lo conosco bene» ripeteva – nasce da questa combinazione in cui i due erano compagni di merende, un vero e proprio sistema di import-escort. Ecco perché ieri il leader russo nel rievocarlo è apparso, per una volta, quasi commosso. Si sentivano almeno una volta al mese.
ANCHE LA VICENDA di Pratica di Mare, il vertice in cui mise insieme la Russia e la Nato, è da rivedere per ridimensionare la mitopoiesi berlusconiana. In primo luogo bisogna ricordare che Berlusconi – ferocemente anticomunista in assenza ormai di comunisti – nel suo rapporto privilegiato con Bush junior fu un sostenitore convinto delle missioni disastrose in Afghanistan 2001 – la guerra di vendetta dell’11 Settembre – e in Iraq nel 2003 in prima fila nella coalizione dei volenterosi, per niente condivisa quest’ultima dalla Russia ma anche dal centro destra europeo: la Francia di Chirac si astenne dal partecipare. C’è da chiedersi poi come i governi italiani successivi a Berlusconi abbiano potuto avallare la narrazione falsa su quelle guerre sprofondate nel dramma di centinaia di migliaia di morti e in clamorosi fallimenti.
BERLUSCONI, CHE in seguito si scontrò con Obama per le solite gaffe inopportune, era in realtà all’epoca il più filo-americano dei leader italiani come dimostrò l’invito al Congresso degli Stati Uniti per parlare addirittura in sessione plenaria. Presso i «moderati» italiani, orfani dopo tangentopoli della Dc e del partito socialista, Berlusconi si faceva scudo delle politiche mediterranee di Andreotti e Craxi, ma stando ben attento a non urtare gli americani: a differenza del leader socialista, protagonista di Sigonella, che diffidava dei rapporti dei nostri servizi («troppo legati al Mossad», diceva) e non lisciava il pelo alla leadership israeliana. Ma allora Arafat andava a pranzo da Pertini e i palestinesi non erano dei pariah come nell’Italia di oggi. Berlusconi fu invece il primo premier italiano invitato a parlare alla Knesset.
IL VERTICE di Pratica di Mare del 2002 non se lo era inventato Berlusconi: nella base dell’aeronautica militare alle porte di Roma venne stilato un documento, il “Nato-Russia Relations: A New Quality”, sugli auspici di un nuovo rapporto di fiducia tra Occidente e Russia. In questo documento Nato e Russia sottolineavano il comune rispetto degli obblighi derivanti dalla Carta dell’Onu, dall’Atto finale di Helsinki e dalla Carta per la sicurezza europea adottata sotto l’egida dell’Osce. Senza questi precedenti Pratica di Mare non sarebbe mai avvenuta: il consiglio a 20 Nato-Russia esisteva già.
E NON DIMENTICHIAMO il contesto: Putin non appariva come il leader che è oggi, la guerra al terrorismo aveva unito le potenze internazionali e gli Stati Uniti, vincitori della Guerra Fredda, oltre a giurare che la Nato non si sarebbe allargata ad est, avevano concesso alla Federazione russa una certa libertà di manovra convinti di essere ormai entrati in un mondo unipolare. Vent’anni dopo la distanza da quell’epoca è siderale. Dalla guerra in Georgia a quelle in Siria e Libia fino alla crisi ucraina del 2014, all’annessione della Crimea e l’invasione dell’Ucraina non solo lo scenario è radicalmente cambiato ma ormai il protagonismo di Cina, India e dei Brics, ci parlano di un mondo multipolare.
MA È PROPRIO LA POLITICA estera, condotta con i rapporti personali e familistici con Putin, Erdogan, Gheddafi, che dai sogni di gloria cullati con Pratica di Mare, segna il declino di Berlusconi. Oltre al rapporto personale, da padrino, con Erdogan, per lui fu fatale quello con Gheddafi con cui firmò il patto tra Roma e Tripoli su gas, migranti – sempre da respingere e detenere in campi di concentramento – e infrastrutture (un controvalore economico stimato 55 miliardi di euro, quasi due finanziarie). Per sancire l’alleanza, che allora appariva indissolubile, il 30 agosto 2010, fu inscenato a Tor di Quinto un spettacolo con caroselli di carabinieri e cavalli arabi e un seguito di 5mila tra imprenditori, uomini d’affari, politici, faccendieri e questuanti vari, tutti proni con il cappello in mano davanti al rais libico.
SEMBRAVA UN TRIONFO. Ma pochi mesi dopo con la rivolta di Bengasi Francia in primis, Usa e Gran Bretagna decidono come Nato di intervenire militarmente con i raid aerei contro Gheddafi. Berlusconi è con le spalle al muro.
La sera del 17 marzo 2011, un mese dopo l’inizio della rivolta in Libia e mentre il Consiglio di sicurezza Onu stava definendo la risoluzione 1973 che autorizzava l’intervento, al Teatro dell’Opera di Roma era in programma il Nabucco diretto da Muti per i 150 anni dell’unità d’Italia. In un vertice cui parteciparono tra gli altri il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Berlusconi e il ministro della Difesa La Russa, Berlusconi pronunciò la frase: «Sull’intervento militare dell’Italia rimetto ogni decisione a lei, presidente, come capo delle forze armate». L’ex scatolone di sabbia inghiottiva miseramente le glorie del Cavaliere in politica estera.
Commenta (0 Commenti)SILVIO BERLUSCONI 1936-2023. Quando muore una figura pubblica, in questo caso un uomo politico, specialmente del calibro di Silvio Berlusconi, il momento del trapasso fatalmente tende a purificarne e a riscattarne la biografia. […]
Silvio Berlusconi e Marta Fascina - LaPresse
Quando muore una figura pubblica, in questo caso un uomo politico, specialmente del calibro di Silvio Berlusconi, il momento del trapasso fatalmente tende a purificarne e a riscattarne la biografia. Scompaiono le zone d’ombra, gli abusi di potere, i conflitti di interessi, le pagine più imbarazzanti.
Ma pur immaginando che nel momento del pubblico cordoglio, Berlusconi sarebbe stato felice di ricevere solo lodi e apprezzamenti, noi non vogliamo fargli il torto di associarci al rito ipocrita dell’encomio nazionale.
Specialmente di fronte all’eccesso di una Camera dei deputati chiusa per due giorni, di un Pd che rinvia la sua direzione, delle bandiere a mezz’asta e della proclamazione del lutto nazionale.
Leggi tutto: Un paese a sua immagine - di Norma Rangeri
Commenta (0 Commenti)JULIAN ASSANGE. Dopo un’interminabile attesa, il giudice monocratico dell’Alta Corte del Regno Unito ha respinto gli otto motivi di appello del collegio di difesa di Julian Assange, contro l’ordine di estradizione negli […]
Dopo un’interminabile attesa, il giudice monocratico dell’Alta Corte del Regno Unito ha respinto gli otto motivi di appello del collegio di difesa di Julian Assange, contro l’ordine di estradizione negli Stati Uniti siglato dall’allora ministra degli Interni Priti Patel.
Ora verrà presentato un ulteriore appello. Finita simile procedura alquanto barocca, non rimarrà che il ricorso alla Corte europea dei diritti umani, la cui legittimità la Gran Bretagna potrebbe persino non riconoscere dopo la Brexit. Insomma, in questi giorni pare consumarsi un delitto perfetto, contro WikiLeaks e il suo fondatore; e contro l’autonomia e l’indipendenza dell’informazione. Di questo, infatti, si tratta. Chi suppone che sia in questione la sorte, pur di enorme importanza, di una singola persona o non ha capito o finge con malcelata complicità.
Assange non è in libertà da tredici anni e da quattro è rinchiuso nel carcere speciale di Belmarsh, la Guantanamo d’oltre Manica. Tuttavia, non vi è stato finora alcun procedimento di merito sulle presunte accuse di violazione dell’Espionage Act del 1917, la legge varata nel corso della Prima Guerra mondiale e utilizzata cinicamente per impedire il ricorso al primo emendamento della Costituzione statunitense che considera sacrale il diritto di cronaca.
Le lungaggini di appelli e contrappelli inducono a pensare malissimo: si spera che il quadro psicofisico del giornalista peggiori definitivamente.
Del resto, il recente volume redatto dall’ex relatore speciale delle Nazioni unite sulla tortura Nils Melzer (2023) spiega la parabola della tragedia in modo chiaro e documentato, ivi compreso il riferimento della docente dell’università di Boston – chiamata a svolgere la perizia in carcere- al dolore e alle sofferenze inflitte ad un imputato a rischio suicidario.
Quindi, i mesi trascorsi per dipanare la competenza territoriale del futuro dibattimento reale sembrano una condanna preliminare, che le menti spietate ispiratrici vorrebbero anticipasse la conclusione di una faccenda meno marginale e dimenticata di qualche tempo fa.
Appelli, cittadinanze onorarie, prese di posizione di ex ambasciatori, oltre ai riconoscimenti professionali decisi dall’Ordine dei giornalisti e da numerose organizzazioni sindacali della stampa europee hanno un po’ rivoltato la frittata. Si è capito, dove si tirano le fila della macchinazione (l’asse tra Stati uniti, Gran Bretagna, Svezia ed Ecuador), che la coscienza democratica diffusa potrebbe risvegliarsi dal sonno irragionevole di diversi lustri.
In fondo, a guardare a situazioni in parte omologhe, il Premio Nobel per la pace Pérez Esquivel si salvò dalla morte nell’oceano (il metodo che segnò la macelleria della dittatura argentina) proprio per la mobilitazione dell’opinione pubblica.
Vi sono state iniziative significative del presidente del Brasile Lula e dello stesso premier laburista australiano Albanese. L’associazione Articolo21 ha recentemente promosso un’importante assemblea con la presenza del Sacro Convento ad Assisi in occasione della Marcia Perugia-Assisi.
In quella sede aveva preso la parola il direttore di WikiLeaks Kristinn Hrafnsson, descrivendo il panorama inquietante della vicenda, confortato dalla moglie avvocata Stella Moris, in collegamento. Mentre la storia politica e giudiziaria veniva delineata da colei che in Italia più di tutti ha scritto libri e articoli, Stefania Maurizi.
Siamo arrivati, probabilmente, al dunque. Poco prima, forse, dei titoli di coda.
Se mai vi fossero stati dubbi, sarebbe il caso di scioglierli e di costruire un’azione civile di resistenza.
È possibile che non si levino voci critiche e non asservite all’amico americano nel parlamento italiano e in quello europeo? Non è una storia particolare, bensì la prova generale di una spirale autoritaria
Nel gioco delle parti al quale abbiamo assistito per l’ennesima volta in un summit europeo sull’immigrazione, gli unici due Paesi che hanno votato contro, presentandosi come i cattivi, hanno portato a casa il risultato che volevano: un impegno unitario per cancellare il principio cardine del diritto d’asilo, il principio di non respingimento, e un investimento prioritario sull’esternalizzazione delle frontiere, ossia sull’impedire alle persone di arrivare in Europa, costi quel che costi.
Ma Polonia e Ungheria non hanno votato l’accordo così da continuare a dire al loro elettorato che sono gli unici a difendere i sacri confini.
Allo stesso modo gli altri governi possono affermare di aver votato un buon accordo proprio perché Ungheria e Polonia hanno votato contro.
Una farsa che diventa tragedia sulla pelle delle persone che più di prima saranno obbligate a rivolgersi ai trafficanti, non potendo chiedere ai governi di attraversare le frontiere legalmente e in sicurezza.
Una tragedia che rischia di trascinare l’Europa in un baratro, poiché apre una campagna elettorale europea che la destra vuole vincere nel 2024 usando il razzismo come principale strumento di consenso.
Gli elementi principali dell’accordo non sono delle vere novità. Tuttavia alcune delle misure previste si presentano come delle vere schifezze, che puntano a stravolgere il diritto d’asilo.
Un primo segnale che va verso la negazione del diritto d’asilo è il tentativo di cancellare il principio di non respingimento, che è il principio cardine della Convenzione di Ginevra.
Se possiamo respingere chiunque arrivi alle nostre frontiere verso Paesi definiti “sicuri” autonomamente da ciascun governo europeo, abbiamo di fatto cancellato con un colpo di spugna ogni possibilità di chiedere asilo in Europa.
Un’Europa che, è bene ricordarlo, negli ultimi dieci anni, se si esclude l’eccezione degli sfollati ucraini, accoglie una parte irrilevante di persone in cerca di protezione.
Se consideriamo infatti che nel mondo abbiamo superato già nel 2022 i 100 milioni di persone obbligate a lasciare le loro case (dati UNHCR), l’UE con i suoi 450 milioni di abitanti dovrebbe accoglierne quasi il 7%. Ma siamo ben lontani da questi numeri.
Eppure, nonostante i dati e nonostante la realtà, i governi UE scaricano su Paesi che hanno meno risorse e che, spesso, non garantiscono il rispetto dei diritti umani, quel poco di responsabilità che sono obbligati ad assumere in virtù delle convenzioni internazionali.
Il principio è quello già sperimentato con la Turchia: paghiamo qualsiasi dittatore per fare il lavoro sporco che noi non possiamo fare perché in Europa vigono leggi che tutelano le persone e ci sono giudici che le fanno applicare. Ma c’è adesso un ulteriore peggioramento nelle politiche di esternalizzazione.
Finora ci siamo infatti “limitati” a pagare Erdogan per impedire alle persone che fuggono da guerre e persecuzioni di arrivare in Europa. Se passa il principio contenuto in questo terribile accordo, potremo anche rimandare in Turchia gli afghani e i siriani che hanno attraversato la Turchia semplicemente respingendoli.
In effetti la Turchia è già considerata un posto sicuro. Eppure Erdogan ha respinto in questi anni centinaia di migliaia di afghani e siriani che certamente avrebbero ottenuto asilo in Europa e che, rimandati indietro, rischiano di subire violenze e anche la morte.
Allo stesso modo abbiamo siglato un accordo con la Libia, dove solo nel mese di maggio sono state rimandate indietro più di 500 persone, ricorrendo alla cosiddetta guardia costiera che opera dei respingimenti per conto nostro.
Ma il razzismo dell’UE, non sazio, punta adesso a applicare direttamente, senza la mediazione di Turchia o Libia, il respingimento di richiedenti asilo alle nostre frontiere.
In sostanza oltre alle destre xenofobe, che hanno molti elementi per cantare vittoria, sono i trafficanti, a festeggiare, poiché i governi continuano a perseguire l’obiettivo di impedire alle persone di partire, di arrivare e di accedere alla procedura di asilo e non hanno alcuna intenzione di introdurre vie d’accesso sicure e legali.
Per contrastare questo accordo spregevole sarà necessario mettere in campo nei prossimi mesi, proprio in vista della campagna elettorale europea, una mobilitazione della società civile che dia voce all’Europa dei diritti e della solidarietà contro la cultura dei muri e del razzismo
IL PNRR DEL GOVERNO. Lo scontro tra governo e Corte dei Conti non può essere rubricato come una vicenda contabile o procedurale. È la punta di un iceberg ben più massiccio
Il voto di ieri alla Camera sul testo di conversione del decreto-legge sulla Pubblica Amministrazione che inglobava l’emendamento contro i controlli della Corte dei Conti sulle spese del Pnrr – sul quale il governo aveva posto la questione di fiducia – rappresenta un ulteriore grave passo compiuto verso una concezione puramente autoritaria di governo. Se si vuole, un ulteriore atto di quella dittatura della maggioranza che Meloni intende praticare.
Con l’aggravante di non avere una reale maggioranza di consensi alle spalle, ma di essere solo l’espressione della parte maggiore di una minoranza del corpo elettorale, diventata prevalente in virtù una legge elettorale sciagurata e anticostituzionale.
Questo governo, passo dopo passo, affondando nel ventre molle di un’opposizione ancora da costruire, sta riplasmando contenuti e forme del potere statuale, cui è funzionale il dominio nei mass-media. Senza nemmeno il pudore di nascondere l’irritazione e di procedere a misure repressive contro pareri divergenti di organi indipendenti, come già nel caso delle obiezioni sulla riforma fiscale da parte dell’Ufficio parlamentare della Camera o del Servizio del bilancio del Senato in materia di autonomia differenziata.
Secondo la felice definizione di Marco Revelli: un governo dalla mano pesante e la pelle sottilissima. Mentre si cerca di portare in porto il ddl Calderoli – qui con più di una difficoltà, fra cui le oltre centomila firme depositate in Senato in calce a una legge di iniziativa popolare di modifica degli articoli introdotti in Costituzione nel 2001 -; mentre si tenta di allargare il fronte favorevole – vedi Renzi – all’elezione diretta del premier, intanto si opera più concretamente per mettere il bavaglio alle istituzioni di garanzia sorte proprio per salvaguardare i cittadini da un potere totalmente libero di lacci e lacciuoli.
Quando invece bisognerebbe proprio accendere fari sull’operato degli organi di governo. Ce lo dice anche l’Agenzia antifrode della Ue, che ha annunciato di avere aperto una serie di indagini sulla gestione dei fondi dei Piani nazionali di alcuni paesi membri. Fra questi l’Italia, la principale destinataria dei fondi Ngeu, al secondo posto con dieci indagini che in nove casi si sono concluse con raccomandazioni specifiche alle autorità competenti. Tante quante quelle rivolte all’Ungheria. Siamo in un campo diverso da quello dei controlli della Corte dei Conti, poiché le presunte frodi comporterebbero il dolo, che fuoriesce dallo scudo erariale relativo alla colpa grave prorogato dal decreto che ora giunge al Senato.
La trappola dell’Europa minima dei nazionalisti
Ma proprio perché le fattispecie sono diverse, ne deriva che le scelte sul Pnrr siano ben ponderate e trasparenti. Il che fin qui certamente non è stato. Altrimenti non si sarebbero alzate le voci, anche entro i nostri confini, contro un eccessivo e precipitoso accaparramento da parte italiana dell’intera posta dei prestiti messi a disposizione dalla Ue. Tesi contro la quale reagisce Gentiloni, qualificando il Pnrr una chance e non una medicina amara, ben cosciente che il fallimento italiano trascinerebbe con sé l’intero impianto del progetto europeo, dandola vinta ai paesi “frugali” e al nuovo asse spostato a Est che si sta formando in Europa, quale una delle conseguenze della guerra in atto.
Come si vede lo scontro tra governo e Corte dei Conti non può essere rubricato come una vicenda contabile o procedurale. È la punta di un iceberg ben più massiccio. La questione che emerge, e non solo in Italia, concerne non tanto la quantità della spesa, ma la sua qualità. Cosa ben diversa dalla realizzabilità dei singoli progetti e della loro tempistica, su cui insiste il presidente della Confindustria, mettendo in primo piano la presunta efficienza del privato rispetto al pubblico. Il tema non riguarda solo l’Italia, ma la Francia e ancor più la Germania entrata ormai in recessione tecnica.
Questi ingloriosi trent’anni di corsa a destra
Solo che non se ne esce, come invece propone l’economista tedesco Daniel Gros, aumentando le dimensioni dei progetti, le cosiddette grandi infrastrutture. Se la polverizzazione degli stessi rivela la mancanza di un disegno unificatore, il gigantismo non lo risolve, ma lo aggrava.
Visti i paesi coinvolti è chiaro che siamo di fronte a un punto di crisi della governance del sistema capitalistico e come tale andrebbe affrontata. La mancanza di una capacità programmatoria da parte del potere pubblico, messa così impietosamente a nudo anche dal rifugiarsi nelle spire di un’economia di guerra, non si risolve né si contrasta con punture di spillo, con il solito e melenso rimbalzo di accuse tra chi sta al governo e chi no. Richiede invece la costruzione di una nuova agenda, a livello europeo e domestico, su cui non solo costruire una opposizione coerente, ma delineare una nuova politica economica alternativa
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