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Quinta notte di rivolta francese, sale a 1.300 il numero dei fermi. E la giustizia di Parigi sceglie i processi per direttissima: garanzie ridotte e decine di udienze al giorno. Nel giorno dei funerali di Nahel, Macron cancella il viaggio in Germania e pensa a nuove misure

FRANCIA. Riforma del lavoro, gilet gialli, età pensionabile, violenza della polizia: gli ultimi sei anni, da quando Macron è stato eletto presidente come barriera a Le Pen, la Francia non fa che sollevarsi. E lui si fa scudo con le forze dell'ordine

 Poliziotto delle Bri a Parigi - Ap/Aurelien Morissard

L’antica saggezza orientale prescrive di fare attenzione ai propri desideri perché potrebbero realizzarsi. E il risultato non sarebbe quello aspettato. Dovrebbero ricordarsene, in Italia, i sostenitori del presidenzialismo come soluzione di tutti i mali perché l’esempio francese sta lì, diviso dal nostro Patrio Suolo soltanto dal tunnel del Monte Bianco. E non è un bello spettacolo.

Il presidenzialismo voluto dal generale De Gaulle nel 1958 ha creato quella che gli studiosi di scienza politica chiamano «monarchia repubblicana» perché, in fin dei conti, tutto fa capo al presidente. Non solo la politica estera e quella militare ma sostanzialmente ogni scelta importante, dalle sovvenzioni agli agricoltori fino ai concorsi per le grandi opere pubbliche come la nuova sede della Bibliothèque Nationale voluta a suo tempo da François Mitterrand.

Il primo ministro fa da capo di gabinetto, risolutore dei problemi e all’occorrenza parafulmine per

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COMMENTI. l viceministro Cirielli, senza vergogna, ai giovani di Fd’I: «L’Italia nei suoi cento anni di colonie in Africa ha costruito», perché «abbiamo una cultura civilizzatrice»

L’eterno mito degli italiani brava gente e il falso Piano Mattei L’aviazione, considerata arma privilegiata, durante la guerra in Abissinia, è impiegata per bombardare anche con ordigni all'iprite e gas ustionanti

Disquisendo del ruolo dell’Italia meloniana nel «globo terracqueo» ieri il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli, intervenuto alla festa giovanile di Fratelli d’Italia, ha riproposto un grande classico della falsificazione della storia nazionale. «Sia nel periodo pre-fascista sia durante il fascismo – ha detto Cirielli- l’Italia nei suoi cento anni di colonie in Africa ha costruito e realizzato» perché «abbiamo una cultura civilizzatrice». La goffa uscita del vice-ministro non rappresenta soltanto un tentativo, già grave di per sé, di riqualificare le politiche coloniali ed imperialiste dello Stato liberale e del regime fascista ma punta, attraverso l’uso propagandistico del passato, a legittimare le scelte del governo del presente.

IL PRESENTE SAREBBE il cosiddetto «Piano Mattei» propagandato dal governo post-fascista fin dal suo insediamento e strutturato su tre grandi rimossi sia della storia d’Italia sia della stessa vicenda personale del fondatore dell’ENI. Il primo rimosso riguarda una foto simbolo cara a tutto il Paese democratico.

È il 6 maggio 1945 e nella Milano liberata sfilano le formazioni partigiane che hanno sconfitto i nazifascisti guidate alla testa del corteo dai comandanti del Corpo Volontari della Libertà: Mario Argenton, Luigi Longo, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Giovan Battista Stucchi ed Enrico Mattei.

Dalla radice storica dell’antifascismo muove, dunque, il primo passo della vicenda umana, politica ed istituzionale dell’allora esponente della Resistenza cattolica e futuro presidente dell’ENI.

Il fondamento della Repubblica, l’antifascismo, che ancora oggi la Presidente del Consiglio Meloni ed il suo partito non riconoscono, come d’altro canto fece il loro «padre» politico Giorgio Almirante che nei giorni della Liberazione, al contrario di Mattei, scappava, travestito da partigiano, dall’uscita secondaria della Prefettura di Milano insieme ai gerarchi di Salò.

IL SECONDO RIMOSSO riguarda l’eredità del fascismo rispetto ai crimini di guerra compiuti in Africa nel corso della nostra «missione civilizzatrice» che alla fine della seconda guerra mondiale, pur meritevole di un processo di Norimberga sulla falsariga di quello celebrato contro i nazisti, venne rappresentata attraverso il falso mito auto-assolutorio degli «italiani brava gente».

Un mito evidentemente ancora caro a Cirielli che «senza vaneggiamenti» ne ha voluto rinverdire i fasti: «l’italiano è da sempre una persona che rispetta il prossimo. Noi non siamo, per natura, gente che va a depredare e a rubare al prossimo». Sarà stato per questa nostra innata bontà d’animo che l’aviazione fascista, nella ricerca del «posto al sole» voluto da Mussolini, scaricò nella sola «battaglia dello Scirè» del febbraio-marzo del 1936 oltre 200 tonnellate di esplosivo, bombe all’iprite e gas asfissianti (vietati dalle leggi internazionali) contro la popolazione civile. Una verità che solo nel 1996 e solo grazie agli studi storici di Angelo Del Boca (che subì per questo il linciaggio mediatico da parte dei noti «liberali» e «maestri di giornalismo» nostrani) venne ufficialmente ammessa dallo Stato italiano. Crimini di guerra sistematici confermati ormai da una mole ingente di documenti che illustrano la campagna di occupazione di Addis Abeba e le stragi di centinaia di migliaia di civili e partigiani etiopi insieme ai massacri ordinati da Rodolfo Graziani gerarca fascista, vicerè d’Etiopia, criminale di guerra e ministro delle Forze Armate dell’esercito collaborazionista di Salò a cui la Regione Lazio, guidata da Renata Polverini, nel 2012 ha costruito un mausoleo nella cittadina di Affile.

PROBABILMENTE per celebrare «la nostra cultura antica» che secondo il viceministro Cirielli di Fd’I «non ci fa essere un popolo di pirati che vanno in giro a depredare il mondo». La stessa cultura che spinse Graziani ad ordinare il 19 febbraio 1937, a seguito di un attacco contro di lui realizzato dalla Resistenza etiope, uno sterminio di massa (14.294 ribelli uccisi e passati per le armi e 50.000 case incendiate) culminato con la strage dei monaci coopti di Debrà Libanòs.

IL TERZO RIMOSSO del Piano Mattei della Meloni è l’autentico Piano Mattei pensato e praticato dal presidente dell’ENI fino al suo assassinio. Un’azione politica, economica e diplomatica interamente proiettata verso l’obiettivo dell’autonomia strategica dell’Italia sul piano energetico. Una scelta che pose Mattei in una condizione di scontro e rottura frontale non solo con gli interessi delle compagnie petrolifere delle «Sette sorelle» anglo-americane ma anche con il sistema delle relazioni internazionali di cui l’Italia faceva ed ancora oggi fa parte: l’Alleanza atlantica.Questo fattore rappresenta il rimosso più evidente e scomodo, e per questo più taciuto, della vera eredità di Mattei. Un lascito che mal si acconcia con la postura ultra-atlantista del governo post-fascista che ne usurpa il nome

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FRANCIA. Intervista ad Alain Bertho: «Il confronto con la rivolta scoppiata del 2005? Credo che stavolta Macron, l’allievo, abbia superato Sarkozy, il maestro. Sono molto preoccupato. Temo nuovi drammi»

La pedagogia della repressione conduce la Francia alla catastrofe La polizia durante la terza notte di proteste a Nanterre, fuori Parigi - foto Ap

Dal suo osservatorio di Saint-Denis, nella periferia parigina – dove è nato, cresciuto e vive ancora oggi – Alain Bertho è uno degli intellettuali francesi che meglio hanno affrontato il tema delle banlieue e del significato politico e culturale delle rivolte che vi hanno luogo. Professore emerito di antropologia all’Università Paris 8-Saint-Denis, Bertho ha dedicato a questi argomenti decine di opere, tra cui: The Age of Violence (2018), Les enfants du chaos (2016), Le temps des émeutes (2009).

Tragedia, dolore, rabbia. Cosa ci dice della Francia di oggi l’uccisione a bruciapelo di Nahel, 17 anni, da parte di un poliziotto, avvenuta a Nanterre martedì e che sta incendiando l’intero Paese?

Credo ci parli prima di tutto degli esiti delle due logiche politiche messe in campo dal governo e da Macron. Da un lato, un ulteriore aggravamento della violenza poliziesca e della repressione non solo nei confronti degli abitanti delle banlieue, ma anche dei movimenti sociali, come chi ha manifestato per le strade del Paese contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente. Dall’altro, il varo di una legislazione che rende possibile tutto ciò e che spinge nella direzione dello «Stato d’eccezione» ricorrendo all’uso nella vita quotidiana delle norme varate contro il terrorismo, con esiti sempre più gravi. Solo per fare un esempio, la prima conseguenza delle nuove regole sulla possibilità da parte degli agenti di fare ricorso alle armi da fuoco, adottate alla fine dello scorso decennio, è stato il raddoppio delle morti di questo tipo rispetto agli anni precedenti: nel solo 2020 sono state 40, ben 52 nel 2021, 39 nel 2022 e quest’anno già 13. Parliamo di persone uccise «a sangue freddo» in seguito a un intervento degli agenti.

In queste ore in molti evocano la grande rivolta scoppiata nelle periferie nel 2005 dopo la morte di due adolescenti, Zyed e Bouna, fulminati in una cabina elettrica per sfuggire alla polizia…

Credo che questa volta la pedagogia messa in campo dall’esecutivo rischi di condurci alla catastrofe. Nel 2005 fu assaltato un solo commissariato, oggi se ne contano già 25 in pochi giorni. Perché anche di fronte a milioni di francesi che sono scesi in piazza, penso ancora alle grandi mobilitazioni a difesa delle pensioni, il governo ha deciso di continuare ugualmente per la sua strada, praticando la repressione o un po’ di bricolage parlamentare per far passare ciò che voleva: il senso è, qualunque cosa accada e dicano i francesi, «decido io, comunque!». Di fronte a un tale scenario, come spiegare ai giovani delle periferie, che sono sottoposti quotidianamente alle pressioni delle forze dell’ordine, di stare tranquilli, rispondere con le petizioni e gli appelli, o rivolgersi alle forze parlamentari per far sentire la propria voce? Devo essere sincero, sono molto preoccupato. Temo nuovi drammi e che la risposta del governo sia quella di aumentare ancora di più l’armamentario della repressione. E, nel frattempo, si cominciano ad accusare gli esponenti dei partiti di sinistra di essere degli «incendiari» perché condividono le ragioni delle proteste che sono in corso.

Alain Bertho foto di Francine Bajande

Nel frattempo è però diventato evidente che la repressione un tempo applicata nelle banlieue si estende oggi all’intera società…

Assolutamente. Anche in questo caso si possono fare degli esempi concreti: l’uso dei Lbd (lanceur de balles de défens), i cosiddetti Flash-Ball che sparano delle palle di caucciù semi-rigido con grande forza e velocità è iniziato nel 1995 nelle periferie, poi si è cominciato a utilizzarli anche contro le manifestazioni, a cominciare da quelle dei Gilets jaunes, provocando ogni anno decine di feriti gravissimi, persone che hanno spesso perso la vista in seguito ai colpi ricevuti. E anche le Bac, le Brigade anti-criminalité della polizia, che oggi intervengono regolarmente contro i manifestanti hanno mosso i loro primi passi nelle banlieue. Perciò, in particolare in seguito alle manifestazioni dei Gilets jaunes, è andata emergendo una nuova sensibilità intorno alla brutalità della polizia. Si è capito che quella violenza non veniva esercitata soltanto sulla «racaille», ma nei confronti di chiunque si opponga. Che il tema della situazione delle banlieue e di cosa vi accade non riguardi più solo chi abita in queste zone, è del resto stato chiarito anche in questi giorni dalla vasta partecipazione alla marche blanche che ha avuto luogo giovedì a Nanterre e a cui hanno partecipato diverse migliaia di persone arrivate da tutta Parigi, compresi gli esponenti di alcuni partiti della sinistra.

Eppure nel 2017 Macron aveva cercato di conquistare i voti delle periferie, ora c’è chi lo paragona a Sarkozy che ebbe parole, e gesti terribili contro quei giovani…

Potremmo dire che l’allievo ha superato il maestro. Effettivamente, al momento della sua prima candidatura all’Eliseo, si è pensato che il liberalismo di Macron potesse rappresentare un argine al montare del razzismo nel Paese. Dopodiché si è incaricato lui stesso di smentire queste attese, dando vita ad una politica neoliberale che ha fatto dei diritti, a partire da quelli sociali, il proprio avversario principale. Inoltre Macron ha puntato esplicitamente sull’idea di mandare in mille pezzi il quadro politico del Paese, trasformando Marine Le Pen e il Rassemblement National nel proprio sparring partner e contribuendo così a rendere questa forza centrale nello spazio pubblico. Il suo governo ha poi lavorato alla «costruzione del nemico» in particolare criminalizzando, con la scusa del terrorismo, l’islam francese presente, guarda caso, soprattutto nelle banlieue. Il problema per Macron è che però «i poveri bianchi» su cui ha cercato di fare presa indirizzando le loro paure verso i musulmani, se li è poi trovati in piazza a manifestare in massa contro la sua riforma delle pensioni. E così si può dire che alla fine, il suo gioco non è davvero riuscito.

C’è poi anche «un’altra banlieue», quella che vota Le Pen: può la leader dell’estrema destra trarre vantaggio da questa situazione?

Marine Le Pen gode attualmente di una posizione di forza perché i partiti di sinistra non sono stati in grado di capitalizzare quanto è emerso nella società in opposizione alla riforma della pensioni, cosa che hanno fatto invece i sindacati. Questi partiti sono infatti troppo impegnati a decidere quale sarà il loro candidato alle prossime presidenziali. Le Pen si è opposta alla riforma e appare oggi, anche per quanto si è già detto, la più valida avversaria di Macron. Allo stesso modo, in questi giorni si erge a paladina dell’ordine e parla a quanti magari, in quelle stesse banlieue, temono di veder bruciare la propria auto. Questo intreccio di elementi fa sì che ancora una volta sia lei ad essere percepita come l’oppositrice più risoluta e forte del presidente. E visto che in molti guardano ormai alla politica e al voto solo in questi termini, c’è il rischio che su di lei si concentrino i consensi di quanti vogliono soltanto cacciare Macron dall’Eliseo e che si chiedono: «Chi, tra i possibili candidati, può essere davvero in grado di batterlo?»

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Per la sinistra è il momento più difficile. La destra ha conseguito una vittoria storica. È la prima volta dal ritorno della democrazia, dopo la fine della dittatura dei Colonnelli […]

Da Tsipras una scelta di responsabilità Sostenitori di Syriza durante l'ultima campagna elettorale - Ap

Per la sinistra è il momento più difficile. La destra ha conseguito una vittoria storica. È la prima volta dal ritorno della democrazia, dopo la fine della dittatura dei Colonnelli nel 1974, che il raggruppamento delle forze di destra e di estrema destra è molto più forte di quelle di sinistra e centro-sinistra.

Per la prima volta l’opposizione parlamentare è così debole, dal momento in cui la differenza è di circa 22 punti. In sostanza, almeno per un anno, cioè fino alle elezioni europee, il primo ministro e leader di Nea Dimokratìa Kyriakos Mitsotakis si muoverà senza avere alcun oppositore.

Syriza sta vivendo una crisi esistenziale, dal 2019 ha perso 14 punti, e viene minacciata dal Pasok nella sua posizione di leadership dell’opposizione. Tsipras oggi ha fatto ciò che doveva a se stesso e al partito, ha compiuto un gesto di responsabilità e di dignità. Le sue dimissioni erano necessarie perché più rimaneva al suo posto, più il partito si sarebbe indebolito e la sua stessa figura logorata.

Ovviamente adesso Syriza è chiamata a eleggere una nuova leadership, a mantenere l’unità e a ricostituirsi come partito. È evidente che la prima decisione da prendere è fare andare avanti la nuova generazione dei dirigenti. Non ci sono ancora candidati ma i volti che sembrano più adatti ad affrontare questa prova sono Efi Achtsioglou e Aleksis Haritsis

 

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REGIONALI MOLISE. Il 53% non ha votato e la destra ha vinto con il 29% degli aventi diritto al voto, altro che onda anomala di Meloni e Roberti. Quel che si è avuto è il dissolvimento delle forze che astrattamente si dicono del campo progressista

Il cambiamento radicale che serve ai «progressisti»

«Cronaca di una morte annunciata» è un bel libro di Garcia Marquez. Tutti sapevano che Santiago Nasar sarebbe stato ucciso dai fratelli Vicario, ma nessuno fece qualcosa per fermare quell’omicidio.

In questo mese di impalpabile campagna elettorale molisana è stato ben difficile trovare qualcuno pronto a scommettere sulla vittoria del centro-sinistra, così difficile che gli stessi candidati della coalizione Pd- Cinque stelle hanno pensato a salvare se stessi, ad inseguire preferenze, piuttosto che indicare un progetto di governo, un programma alternativo alla destra di ieri e di oggi. Un risultato annunciato, così come era chiaro che una politica che da anni ripete lo stesso copione con le stesse facce e gli stessi intrighi avrebbe portato ad un astensionismo dal voto senza precedenti.

Il 53% non ha votato e la destra ha vinto con il 29% degli aventi diritto al voto, altro che onda anomala di Meloni e Roberti. Quel che si è avuto è il dissolvimento delle forze che astrattamente si dicono del campo progressista e di sinistra: il Pd al 12%, i Cinque stelle che in cinque anni passano dal 31al 7%, insieme il Pd e i Cinque stelle hanno perso 30 mila voti.

Questi sono i numeri dai quali ogni analisi seria deve partire. Queste elezioni la destra le ha vinte coltivando quelle corporazioni sociali e quel malcostume clientelare che ha coinvolto meno del 30% dei cittadini molisani aventi diritto al voto e l’ha vinte, perché la sinistra, non da oggi, non ha né proposto e tantomeno praticato una reale ed ambiziosa alternativa. Un risultato che per un verso sottolinea, al di là della propaganda, la relatività della vittoria della destra, la miseria del « mondo progressista» e per un altro evidenzia, quanto sia profonda la crisi del sistema democratico e delle istituzioni.

Era destino che finisse così? Era scritto che dopo i disastri, universalmente riconosciuti, del presidente uscente, seguisse un consanguineo politico di destra dello stesso Toma? No, questa rotta elettorale si sarebbe potuta evitare. Un altro progetto, un’altra via non solo era possibile, ma è stata costruita, proposta negli anni e indicata alla Politica e ai vertici dei partiti «progressisti» locali e nazionali da associazioni e movimenti molisani.

Un progetto che chiedeva per il governo della regione discontinuità di principi, di programmi e di uomini. Un progetto capace di parlare a quella maggioranza di delusi dai partiti che si astiene dal voto. In molti avevano chiesto e non da oggi, una rivoluzione dolce capace di rompere la dipendenza coloniale della regione Molise da quel potere che ha fatto dei molisani un popolo di migranti e che ha rubato il futuro a tante generazioni .

I soliti noti e una vasta area di cortigiani e figuranti hanno fatto orecchie da mercante, hanno brigato per continuare ad occupare i luoghi della politica e delle istituzioni. E consapevolmente hanno ignorato anche il valore politico generale che questa elezione avrebbe avuto sia per gli equilibri politici nazionali e sia per la prospettiva della coalizione Pd-Cinque stelle.

La «coalizione progressista» può contendere il governo alla destra, ma la condizione decisiva è che si realizzi una mobilitazione di forze sociali e un nuovo protagonismo della società civile, e che i tantissimi che si astengono dal voto, avvertano la possibilità di un cambiamento reale. Verità elementari che sono state rimosse, e né da Roma sono venute parole e scelte chiare. L’argomento con il quale si è voluto rivendicare il monopolio del potere da parte dei vertici del centro-sinistra è veramente sconcertante.

Così hanno sentenziato nei giorni preelettorali: «Solo chi ha una solida esperienza di amministrazione, solo chi ha una dimestichezza con la politica amministrativa è degno di essere candidato alla presidenza della regione».

Con questo paleolitico argomento hanno liquidato la candidatura di Domenico Iannacone. Un giornalista militante molisano che si è occupato per anni dei problemi della gente più debole, di grandi questioni sociali e delle malattie dell’ambiente, e proprio per questo molto amato.

Il problema, come dovrebbe essere evidente, non era Iannacone, ma quel movimento di rottura con il malcostume della politica che chiede discontinuità e rigenerazione della democrazia, un ambiente pulito e giustizia sociale. Perché queste elezioni siano solo un brutto capitolo di una breve stagione è bene che tutti e in primo luogo i cosiddetti partiti «progressisti», a Roma come nei territori, riflettano e si preparino ad un cambiamento radicale. Questa elezione è una sconfitta amara, l’auspicio è che almeno possa essere una lezione utile

 

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INTERVISTA. Parla Mario Pianta, economista alla scuola Normale e membro della campagna Sbilanciamoci: "La denuncia delle misure restrittive della Bce non può essere lasciato al governo delle destre che criticano l’austerità in Europa ma la praticano in Italia colpendo il lavoro e i poveri" Lunedì 3 luglio a Roma un seminario con Landini, Bombardieri, Schlein e Conte su salari e inflazione

 Mario Pianta (Sbilanciamoci)

«La politica della Bce contro l’inflazione è un rimedio che rischia di essere peggiore del male. Il ruolo di denuncia delle misure restrittive non può essere lasciato al governo Meloni che critica l’austerità in Europa ma la pratica in Italia, con politiche che colpiscono il lavoro e i più poveri – sostiene Mario Pianta, economista alla Scuola Normale Superiore e membro della campagna Sbilanciamoci! – L’arrivo dell’inflazione, gli effetti sui salari, le misure per stabilizzare i prezzi evitando una recessione sono questioni complicate che richiedono politiche nuove, coordinate tra di loro, non i dogmi dell’austerità».

Qual’è la situazione attuale?
Partiamo dai dati. Nel 2022 l’inflazione è stata dell’8,7%, nel 2023 resterà sopra il 6%. In Italia non ci sono stati adeguamenti rilevanti dei salari reali con l’eccezione del contratto dei metalmeccanici, chiuso di recente con aumenti di 123 euro al mese, e di contratti di categorie minori. I meccanismi di indicizzazione sono del tutto inadeguati per affrontare il calo del potere di acquisto. Una caduta dei redditi reali dell’ordine del 15% è un serio problema di politica economica e di giustizia sociale. In questa situazione abbiamo la necessità di una discussione pubblica di ampio respiro che coinvolga i partiti, i sindacati e la società.

È quello che sta avvenendo?
Noi ci proviamo. Lunedì prossimo, all’università Roma tre, ne parleremo con Maurizio Landini della Cgil e Pierpaolo Bombardieri della Uil, Elly Schlein del Pd e Giuseppe Conte dei Cinque Stelle. Proporremo una discussione a partire da

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