Una data che ricorre, e ora divide, in Europa con la sconfitta del nazifascismo e in Italia, paese sempre più smemorato, con l’epoca del terrorismo e delle stragi fasciste e di Stato
Piazza Fontana, Banca Nazionale dell'Agricoltura il 12 dicembre 1969 - Ansa
Nello smarrimento del tempo presente il 9 maggio è diventata una ricorrenza con cui la nostra società politica e civile sembra fare i conti in modo sempre più complicato e contraddittorio. Eppure è un giorno che richiama tre momenti storici molto diversi. Ma particolarmente importanti per angolatura, prospettiva e interpretazione del nostro passato.
IL 9 MAGGIO 1936 Benito Mussolini dal balcone di Piazza Venezia declamò con tono trionfale «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» per annunciare l’ingresso delle truppe italiane, guidate dal maresciallo Pietro Badoglio, ad Addis Abeba in Etiopia a conclusione di una guerra coloniale e imperialista ideologicamente strutturata sul razzismo di Stato e caratterizzata dai crimini contro la popolazione civile e le forze della Resistenza.
UNA VICENDA SULLA QUALE a tutt’oggi il Paese, grazie alla «mancata Norimberga italiana» e all’impunità garantita ai «nostri» criminali di guerra dagli equilibri della Guerra Fredda, preferisce guardare attraverso la lente deformante del falso mito degli «italiani brava gente» oppure tramite la rimozione tout court dei fatti coronata nel 2012 dalla costruzione del mausoleo al criminale fascista Rodolfo Graziani ad Affile e ribadita dalla postura pubblica assunta sul tema da Giorgia Meloni nel suo recente viaggio nella capitale etiope.
IL 9 MAGGIO 1945 l’annuncio del governo dell’Urss della capitolazione della Germania nazista, che faceva seguito alla resa tedesca alle forze Alleate sul fronte occidentale, apriva al mondo la porta della fine della seconda guerra mondiale in Europa (il conflitto avrebbe avuto il suo tragico epilogo in agosto con le bombe atomiche sul Giappone). Tuttavia, secondo la logica che vuole la rivisitazione del passato come forma di governo del presente, nel contesto bellico di oggi anche questi eventi, che rappresentano la radice fondativa della nostra società contemporanea, vengono sottoposti ad un uso pubblico della storia che ne fa strumento propagandistico dei governi. Così a Mosca la sconfitta del nazifascismo ad opera dell’Armata Rossa serve a legittimare l’aggressione militare all’Ucraina ad opera dell’armata russa, mentre a Kiev (dove il collaborazionista filo-nazista e antisemita Stepan Bandera è considerato eroe nazionale) il giorno della vittoria contro il III Reich cambia data e significato per volere di Zelensky e, con il consenso della presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen, si trasforma in una «festa dell’Europa» (e della Nato).
IL 9 MAGGIO, INFINE, ricorre l’anniversario del ritrovamento a Roma del corpo di Aldo Moro sequestrato e ucciso dalla Brigate Rosse nel 1978 e per questo è stata istituita dal Parlamento la giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Un’operazione di «memoria per legge» che interpreta una scelta tanto politicamente «logica» per le istituzioni quanto discutibile per la storia, al netto della drammaticità e della sensazione che l’assassinio dello statista dc provocò allora ed ancora oggi evoca.
UNA SCELTA CHE temporalmente scavalca tutte le stragi compiute dai gruppi neofascisti coadiuvati dagli apparati di forza dello Stato, da Piazza Fontana in avanti senza dimenticare Portella della Ginestra, e colloca nell’immaginario collettivo il fenomeno del terrorismo tutto dentro «gli anni di piombo» quasi ad obliare gli «anni del tritolo». Una raffigurazione che crea un vuoto di memoria pubblica rispetto alle responsabilità nel decennio dello stragismo, rappresentando l’attacco di un nemico esterno, le Brigate Rosse, «al cuore dello Stato» e contestualmente «dimenticando» che il fenomeno del terrorismo in Italia è nato, molti anni prima del 1978, proprio da quel cuore.
IN QUESTA CORNICE, meno definita di quanto sarebbe invece necessario, ieri al Quirinale sono stati ricordati da Sergio Mattarella (figura che incarna una unicità assoluta essendo fratello di una vittima del terrorismo mafioso che parla ad altri parenti delle vittime del terrorismo politico) alcuni degli eventi di quella stagione politica. Ha avuto una sua peculiarità ascoltare il ricordo dell’assassinio dell’agente di polizia Antonio Marino. Morto a Milano il 12 aprile 1973 nel corso di una manifestazione non autorizzata del Msi dalla quale i neofascisti Vittorio Loi e Maurizio Murelli lanciarono una bomba a mano che lo dilaniò. A guidare quel corteo insieme ai massimi dirigenti missini Franco Maria Servello e Franco Petronio vi era Ignazio Benito La Russa, ieri seduto in prima fila alla cerimonia in qualità di Presidente del Senato. Così come un sussulto ha provocato la frase pronunciata dal Presidente della Repubblica a proposito della strage del 17 maggio 1973 alla questura di Milano avvenuta «per mano anarchica». Una versione poi rettificata nella comunicazione ufficiale pubblicata sul sito del Quirinale.
QUELL’ATTENTATO VENNE realizzato da Gianfranco Bertoli, finto anarchico in realtà neofascista di Ordine Nuovo e già agente informatore del Sifar, nome in codice «Negro». Lanciò una bomba a mano con l’intento di uccidere il ministro dell’Interno democristiano Mariano Rumor «reo», agli occhi degli ordinovisti, di non aver proclamato lo «stato d’emergenza» e sospeso la Costituzione la notte del 12 dicembre 1969 dopo l’eccidio di Piazza Fontana.
Prima della strage Bertoli aveva alloggiato per settimane a Verona nella casa di Marcello Soffiati, ordinovista e agente informativo della Nato in Veneto, dove era stato istruito rispetto alla versione da dare in caso di arresto: dichiararsi anarchico e rilanciare la falsa pista messa in piedi contro Giuseppe Pinelli e Pietro Valpreda. Una goccia nel mare per uno smemorato Paese.
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RIFORME. Si avvia il secondo atto sul palcoscenico delle riforme. Meloni convoca le opposizioni, non è chiaro se per scrivere insieme il copione, o per diffidarle ad accettare il ruolo di […]
Giorgia Meloni alla Camera - foto LaPresse
Si avvia il secondo atto sul palcoscenico delle riforme. Meloni convoca le opposizioni, non è chiaro se per scrivere insieme il copione, o per diffidarle ad accettare il ruolo di comparse. Nemmeno sappiamo se c’è, e nel caso quale sia, la proposta della destra. Unico dato è l’investitura popolare diretta. Ma di chi e per fare cosa?
In ogni caso, sarebbe una innovazione incompatibile con l’architettura fondamentale della Costituzione vigente, fondata sulla forma di governo parlamentare.
Inevitabilmente stravolgerebbe il ruolo e i poteri del presidente della Repubblica, sia che fosse il prescelto per l’unzione popolare, sia che invece lo fosse il capo del governo. Una riscrittura di tale portata da rendere insignificante la diatriba sul ricorso all’art. 138 o altri metodi. Quale che fosse la modalità prescelta, si tratterebbe in ogni caso di una successione tra ordinamenti. Una Costituzione muore, una Costituzione nuova nasce.
Può stupire che la destra sia rimasta ancorata alle vecchie bandiere. L’investitura popolare non è più sinonimo di stabilità e solidità politica e istituzionale. Nel mondo di oggi l’elezione diretta divide e contrappone, non unisce. I due modelli di riferimento – gli Usa per il presidenzialismo e la Francia per il semipresidenzialismo – lo dimostrano in questa fase storica con
Leggi tutto: Riforme, un presidenzialismo fuori tempo e il baco delle Autonomie - di Massimo Villone
Commenta (0 Commenti)NUOVA FINANZA PUBBLICA. La rubrica settimanale di politica economica. A cura di autori vari
Giornate di attivismo per diverse banche centrali. Tutte, salvo quella Giapponese, hanno nuovamente alzato i tassi d’interesse per contrastare l’inflazione. Un’inflazione che sebbene sia in ribasso rispetto alle punte raggiunte lo scorso anno, registra tra marzo e aprile un rialzo in Europa e Italia. Solo negli Usa il tasso d’interesse reale (cioè la differenza tra quello nominale e l’inflazione) è in territorio positivo, mentre in particolare in Europa i tassi restano fortemente negativi.
L’inflazione rimane importante: 5% negli Usa, 7% nel Vecchio continente. D’altronde, come abbiamo già scritto su queste pagine, risulta complicato raffreddare un’economia che ha un’elevata inflazione, ma una bassa crescita. Le banche centrali sembrano strette tra due esigenze contraddittorie del capitale: una politica monetaria restrittiva rischia di spingere alla recessione, contemporaneamente un’inflazione elevata porta in territorio negativo le rendite finanziarie.
A rendere più complicato il quadro è la strana natura di questa inflazione. Il costo delle materie prime energetiche negli ultimi mesi è tornato ai prezzi precedenti lo scoppio della guerra in Ucraina, con un recente parziale rialzo, cosa che conferma come le ragioni dell’inflazione non siano riducibili alla questione energetica, ma abbiano carattere più strutturale.
Accesa preliminarmente dai blocchi produttivi della pandemia e dalla successiva crescita da rimbalzo sostenuta da misure espansive, l’inflazione è stata spinta da un ripiegamento selettivo della globalizzazione che ha reso più costoso produrre alcune merci. La guerra ha rafforzato queste tendenze preesistenti, ma ora ricerche recenti, riprese persino dalla Bce, ci mostrano sempre più il ruolo della crescita dei profitti. In Europa quest’ultimi, al netto dell’inflazione importata dall’estero, hanno contribuito per circa il 60%, crescendo di oltre 9 punti percentuali nel 2022 (i salari solo il 4.7%). Profitti delle aziende dell’energia, ma anche del settore alimentare, agricolo, delle costruzioni, dei trasporti e del turismo. Come ha sottolineato l’ISPI, le aziende nel 2021/2022 hanno potuto alzare i prezzi in un contesto di strettoie e balzi della domanda che mettevano il venditore in una posizione di forza.
La cosa che colpisce è il fatto che in particolare in Europa, negli Usa la dinamica è parzialmente differente, l’inflazione perduri. La spirale prezzi-salari non si è affermata, la crescita è tornata asfittica, per quale motivo l’inflazione permane? Tali domande ne sollecitano altre. Se la crescita è tuttora bassa, dunque la domanda stagnante, com’è possibile che i profitti salgano scaricandosi sui prezzi? Teoricamente la concorrenza dal lato dell’offerta, per soppiantare i potenziali concorrenti, dovrebbe frenare il rialzo dei prezzi.
Non abbiamo una risposta convinta e documentata, ma vogliamo esplicitare il nostro dubbio. Il grado di concentrazione raggiunto dal capitale in diversi settori, e su cui ha scritto analisi di indubbio interesse Emiliano Brancaccio, rende più facile giocare sul prezzo per alzare i margini? La deglobalizzazione selettiva, restringendo alcuni mercati, potrebbe alimentare ulteriormente questa dinamica. In tal caso, se ci trovassimo di fronte ad una inflazione da costi e da concentrazione, l’azione delle banche centrali sarebbe particolarmente spuntata e rischiosa, perché potrebbe anche ottenere una riduzione dell’inflazione, ma pagando un prezzo particolarmente elevato sul lato della crescita. Non solo, sarebbe un ulteriore segnale di un mercato che si fa sempre meno regolatore e sempre più regolato da grandi concentrazioni e alleanze geopolitiche.
Varrebbe la pena chiedersi, persino, se svolga ancora la sua primaria funzione di generare concorrenza tesa ad abbassare i prezzi. L’inflazione è una manifestazione ulteriore della crisi del mito della mano invisibile?
COMMENTI. I nuclei “non occupabili” sono famiglie con almeno un figlio, un disabile o un over 60 e gli viene negato un collegamento al lavoro affidandoli in blocco ai servizi sociali dei Comuni. Le persone "occupabili" non hanno percorsi di formazione specifici
Il decreto sul lavoro del governo Meloni poteva essere un’occasione straordinaria per la destra. Mentre si cacciano gli scafisti per tutto il globo terracqueo e si cerca di far dimenticare il blocco navale, tra i provvedimenti del nuovo decreto, il superamento del Reddito di Cittadinanza, poteva essere l’argomento perfetto per marcare una profonda differenza rispetto agli esecutivi precedenti. Sia il governo Conte II che quello Draghi, infatti, non erano stati capaci di affrontare in maniera compiuta l’argomento. Si era avviato il piano di potenziamento dei Centri per l’Impiego ma molte Regioni non avevano dato seguito alle assunzioni previste; si erano prorogati i Navigator ma senza alcun disegno strategico; si era commissariata Anpal che doveva essere il network attraverso cui coordinare il nuovo programma per le politiche attive Gol (Garanzia Occupabilità Lavoratori) contenuto nel Pnrr ma con scarsi risultati; si era istituto il Comitato di Valutazione sul Reddito di Cittadinanza presieduto da Chiara Saraceno ma poi non si era dato alcun seguito; ancor meno era stato fatto sul fronte della formazione dove il meridione è il grande assente e anche gli altri territori scontano forti ritardi.
Enrica Morlicchio: «Una controriforma crudele e punitiva del reddito di cittadinanza»
Il governo Meloni poteva farsi carico di questi problemi e dimostrare che la destra era capace di trovare soluzioni strutturali. Poteva sfruttare la maggioranza schiacciante nella Conferenza Stato-Regioni per mettere un po’ di ordine ad una materia come quella delle politiche attive che conosce disomogeneità rilevanti sui territori. Poteva, insomma, mostrare lungimiranza, quasi un’eresia nel panorama politico italiano, dicendo al Paese che per vedere risultati apprezzabili in materia di contrasto alla povertà e reinserimento lavorativo, non esistono applicativi magici ma solo un lungo lavoro di pazienza e costanza.
Ovviamente non è successo nulla di tutto questo. L’unica visione strategica mostrata dal governo è stata: quanto posso risparmiare sul Reddito di Cittadinanza per fare cassa? Da una parte si è deciso, in maniera piuttosto singolare ed estremamente rigida, chi fossero i nuclei “non occupabili” e chi, invece, gli “occupabili”. I primi sono le famiglie con almeno un figlio, un disabile o un over 60 e viene loro negato un collegamento al mondo del lavoro affidandoli in blocco ai servizi sociali dei Comuni; gli “occupabili” invece, potranno usufruire di un contributo, nettamente minore, solo se frequenteranno un percorso formativo (non è ancora chiaro se scuola e università rientreranno in questa fattispecie).
Il 1 maggio di Meloni & Co: Workfare per i poveri e più precarietà
Non si è avuta la premura di consultare i dati Anpal e Inps che raccontano la platea del Reddito di Cittadinanza: il 70% dei beneficiari hanno un livello di scolarizzazione molto bassa, terza media o quinta elementare, non hanno lavorato, se non per brevissimi periodi, negli ultimi 3 anni e quando lo hanno fatto è sempre stato in settori a bassa professionalità. Inoltre spesso hanno grosse lacune digitali e non possiedono alcun mezzo di trasporto.
Non ci si è preoccupati di costruire dei percorsi di formazione specifici per i soggetti “occupabili” che in molti territori, di fatto, hanno un’offerta a disposizione scarsamente professionalizzante e di durata estremamente ridotta. Non si è intervenuti minimamente nei confronti delle politiche attive del lavoro né si sono rilanciati i Centri per l’Impiego né si è previsto un percorso per i Navigator frattanto rimasti senza lavoro.
In compenso si è pensato all’ennesima nuova piattaforma centralizzata per l’incrocio domanda-offerta prevista fin dal 2015, riportata in auge dal Conte I grazie all’intervento del docente Parisi dal Mississipi e mai realizzata. È facile credere che neanche stavolta vedrà la luce e se realizzata non sarà in grado di superare la frammentarietà regionale rimanendo un guscio vuoto.
Non è poi chiaro come, gli utenti con le caratteristiche sopra descritte, possano autoprofilarsi attraverso questo strumento.
L’aspetto più sconcertante, però, sono le tempistiche del provvedimento: gli “occupabili” perderanno il sussidio da luglio di quest’anno e, nell’ipotesi seguano un percorso formativo, potranno usufruirne per soli 12 mesi. Finito questo periodo, con o senza un lavoro, vengono lasciati a sé stessi.
I “non occupabili” invece potranno chiedere il nuovo Reddito per 18 mesi con un’ eventuale proroga di altri 12. Dopodiché verranno abbandonati, come se, dopo 40 mesi, una famiglia con un disabile vede quest’ultimo guarito o un over 60 di colpo ringiovanito.
Era difficile deludere qualsiasi aspettativa e rendere ancora più precaria l’esistenza di chi già vive una condizione di emarginazione. L’attuale governo c’è riuscito istigando un popolo rabbioso per cui la povertà è una colpa che va punita. Ed è questa la battaglia culturale più importante che purtroppo la destra ha vinto. Un salto indietro di cui il Paese non aveva bisogno.
*Socio fondatore A.N.NA. (Associazione Nazionale Navigator)
Commenta (0 Commenti)COMMENTI. La questione della guerra e della pace non è una delle tante contraddizioni di questa nostra società, ma rappresenta la linea di demarcazione tra socialismo e barbarie, tra la catastrofe globale e la possibilità di dare un futuro alle prossime generazioni
La decisione della Commissione Ue di utilizzare una parte dei fondi del Pnrr per finanziare l’industria bellica, per aumentare lo stock di munizioni, va preso seriamente in considerazione. Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, così la giustifica: « Il Recovery Fund è stato specificatamente costruito per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza. Intervenire puntualmente per sostenere progetti industriali che vanno verso la resilienza, compresa la difesa, fa parte di questo terzo pilastro».
È interessante notare che la resilienza, categoria utilizzata finora prevalentemente nel mondo ecologista, ha significato la capacità degli individui di far fronte alle avversità riuscendone rafforzati. In particolare, nel Pnrr aveva finora un approccio che andava nella direzione di mitigazione degli «eventi estremi» con investimenti, dall’agricoltura all’urbanistica, che dovevano fare i conti con il mutamento climatico in atto. Si diceva e si scriveva che bisognava ripensare all’uso dell’acqua dato che dobbiamo fare i conti con lunghi periodi di siccità, così come ridisegnare le città con una maggiore presenza di verde per ridurre le emissioni di CO2. Grazie al commissario Breton apprendiamo che c’è una nuova accezione: la difesa militare fa parte della resilienza in quanto la guerra è diventato un evento naturale e permanente da cui bisogna difendersi.
La scelta di indirizzare gli investimenti in questa direzione non viene data come fatto eccezionale ma come risposta «resiliente» ad un mondo che ci minaccia.
Questa scelta di politica economica rende chiaro a tutti verso quale modello di sviluppo ci stiamo incamminando. La mitica crescita economica si basa sempre più sulla produzione di merci a «valore d’uso negativo» per l’uomo e per l’ambiente.
Se facessimo una contabilità qualitativa del Pil scopriremmo che una parte crescente di quella che chiamiamo ricchezza nazionale è legata alla produzione di merci che hanno un impatto negativo sull’ecosistema, sulla salute e benessere delle persone, sulla nostra vita quotidiana. Tutto questo è occultato dentro una bolla di falsificazione della realtà dove prevalgono in maniera ossessiva termini quali «sostenibilità» e «green». È bastata la chiusura dei rifornimenti di gas dalla Russia per fare riaprire centrali a carbone, riprendere le trivellazioni in Europa e nel Sud del mondo, a partire dai Paesi africani, costruire i nuovi rigassificatori, e infine accelerare la corsa agli armamenti, una delle prime cause del disastro ambientale. Insomma, dalla tanto sbandierata «transizione green» stiamo passando velocemente alla «transizione bellica» senza trovare una opposizione significativa. I sindacati dei lavoratori sono sempre più soggetti al ricatto dell’occupazione, per cui hanno scarsa capacità di mettere in discussione cosa produrre, per chi e come.
L’ideologia della crescita infinita, fine a sé stessa, ha impedito a quello che rimane della sinistra europea di analizzare criticamente la qualità di questa crescita monetaria, per giunta drogata da una nuova corsa all’indebitamento.
L’Ue si è ormai completamente adeguata all’american way of war come un dato strutturale e permanente del capitalismo a stelle e strisce.
Siamo entrati ormai a pieno titolo in quello che James ‘O Connor definiva “warfare state” nel famoso saggio “The Fiscal Crisis of the State”, edito a New York esattamente cinquanta anni fa. Ovvero in una Economia di guerra ( War Economy) come la definì Seymour Melman nel 1970, invitandoci a prendere atto che si stava formando un nuovo gruppo dominante, una nuova borghesia definita dai suoi rapporti con i mezzi di distruzione più che dei suoi rapporti con i mezzi di produzione, una borghesia criminale che oggi diventa prevalente.
La questione della guerra e della pace non è una delle tante contraddizioni di questa nostra società, ma rappresenta la linea di demarcazione tra socialismo e barbarie, tra la catastrofe globale e la possibilità di dare un futuro alle prossime generazioni: la Next Generation Eu, da cui ora invece vengono presi i fondi per finanziare l’industria bellica
Commenta (0 Commenti)COMMENTI. Due temi centrali citati negli articoli di Ciocca, sul nuovo Patto di Stabilità europeo, e di Pennacchi, su un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile
Guardiamo alla lunga conferenza stampa alla vigilia della prima riunione della Direzione e alla successiva relazione: il dato che risalta è l’indicazione puntuale di un’agenda politica innovativa, fatta di molti, singoli terreni di battaglia politica sui cui il partito si sta ricollocando. Un’agenda di lavoro molto cambiata, nei toni e nei contenuti.
E tuttavia, c’è come qualcosa di inespresso: potremmo dire, la debolezza di una visione politica che tenga insieme i diversi spezzoni programmatici. E’ come se mancasse il necessario respiro di cultura politica, il collante alle diverse proposte: e da qui, anche, una palese difficoltà, e una conseguente prudenza, ad addentrarsi sui molti terreni minati di cui è costellata la situazione politica nazionale e internazionale; e anche la scelta, comprensibile ma che alla lunga rischia di rivelarsi insufficiente, di muoversi su terreni sicuri.
Naturalmente ci vuole un bel coraggio, da parte di quegli esponenti del Pd che sono stati magna pars nella gestione disastrosa degli ultimi dieci anni, a pretendere che Elly Schlein dica la sua, ora e subito, su tutto lo scibile e su tutte le questioni irrisolte che il Pd si trascina dietro. Ma è giusto chiedere alla segretaria, e al suo gruppo dirigente, di dare un seguito concreto all’obiettivo di un radicale rinnovamento nel modo stesso di discutere e di decidere del partito.
Due esempi ci possono venire da due articoli apparsi su questo giornale, sabato scorso: quello di Pierluigi Ciocca, sulla risposta politica da dare alle proposte sul nuovo Patto di Stabilità europeo, e quello di Laura Pennacchi, in cui si lancia l’idea di un “piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile”.
Ebbene, sono questioni che non possono essere affrontate senza un adeguato quadro di riferimento politico e culturale: sulla prima, si tratta niente meno che di ripensare quale idea si ha del futuro della costruzione europea (e poi da qui trarre un giudizio di merito: cosa pensa il Pd delle proposte della Commissione? Come impostare la trattativa dei prossimi mesi? Sarebbe imperdonabile una qualche reticenza solo perché a Bruxelles c’è Gentiloni).
Sulla seconda, si tratta di affermare nuovi paradigmi di politica economica, richiamando la praticabilità di politiche di ispirazione keynesiana, andando anche oltre. E’ sacrosanto battersi, come sta facendo Schlein, sulla lotta alle diseguaglianze, alla precarietà del lavoro e al lavoro povero: ma entro quale cornice si inscrivono le singole proposte? E si potrebbero utilizzare anche analisi e proposte che vengono dall’esterno, come ad esempio quelle recenti del Forum DiseguaglianzeDiversità.
Qualcuno potrebbe obiettare che, in fondo, si tratta di un’istanza di organicità propria di altri tempi (e altri partiti), e che oggi si gioca tutto invece sulla singola proposta ad effetto. Credo sia un errore: è necessario dare questo respiro ad una proposta programmatica, altrimenti non si è in grado di contrastare, nella sfera pubblica, l’egemonia di altri paradigmi politico-culturali.
Detto ciò, è assurdo chiedere ora a Schlein e alla sua nuova segreteria di rimediare in poco tempo ad un decennio di scelte politiche dissennate (e perdenti: un dettaglio, quest’ultimo, che si tende a rimuovere). Non è troppo invece chiedere che si metta presto mano ad una svolta. E qui, mi sia consentito di fare una proposta concreta.
Non c’è bisogno di complesse riforme organizzative, nell’immediato: si prenda lo Statuto vigente, l’art. 33, “Conferenza programmatica annuale” (mai svoltasi finora). E’ un articolo che consente flessibilità attuativa, demandando le modalità di svolgimento ad un Regolamento, e affidando la definizione dei temi ad una proposta della leadership.
Non si tratta di fare un mega-convegno, né di discutere tutto daccapo (a questo servirebbero i congressi): si potrebbero predisporre documenti-base sui temi più urgenti e spinosi, da sottoporre alla discussione interna ed esterna, coinvolgendo mondi sociali e competenze intellettuali, da votare ed emendare nei circoli e poi da portare ad una sintesi finale. Un modo, tra l’altro, per valorizzare davvero il pluralismo interno, al di fuori del chiacchiericcio su questo tema: un modo per sfidare e mettere alla prova le diverse idee. E poi si vedrà: come si diceva un tempo, “chi ha più filo, tesserà la tela”.
Lanciare ora questa scadenza sposterebbe in avanti i termini della discussione politica, e darebbe un senso a quell’impegno che, tutti, dopo le primarie, avevano preso: aprire davvero una fase “costituente”