PIETRA TOMBALE. La cerimonia a Maryno, distretto a 40 minuti dal centro di Mosca. Lungo la processione decine di agenti in assetto antisommossa. Per tanti russi è stato una speranza. La maggioranza dei suoi alleati vive all’estero
I funerali di Navalny - foto Ap
Da una parte della strada gridano «Navalny, Navalny, Navalny!», ma nessuno a questo punto è più capace di rispondere. La cassa con il corpo dell’ultimo oppositore politico morto in Russia al tempo di Vladimir Putin è già arrivata al cimitero Borisovskij assieme ai genitori, Lijudmila e Anataloij: due russi comuni, i cappotti sbottonati all’inizio di marzo, trattenendo le lacrime.
La vedova, Yulia, e il figlio, Zakhar, sono rimasti per forza a Berlino. L’altra figlia, Daria, è negli Stati uniti. Il gruppo di collaboratori che ha seguito per anni il più tenace critico del Cremlino ha scelto da tempo di vivere all’estero. Così quel grido si perde fra i palazzi di Maryno, distretto dormitorio lontano quaranta minuti dal centro di Mosca, il luogo in cui alcune migliaia di persone hanno preso parte ieri pomeriggio alla cerimonia religiosa. Sembra impossibile che qualcuno possa raccoglierlo. Dopo i palazzi, a Maryno, si vede soltanto la campagna.
IN TEORIA questo funerale non doveva esserci. A Salekhard, nell’estremo nord della Russia, funzionari particolarmente ligi hanno trattenuto le spoglie di Navalny per una decina di giorni prima di consegnarla ai familiari. Dicevano di attendere i risultati degli esami e le decisioni di un giudice del posto. Quando si sono decisi a procedere mancavano gli uni e le altre. Da quel momento è cominciata la ricerca di una sala in cui celebrare le esequie. A Mosca non hanno trovato nulla. Persino i carri funebri erano occupati. Come dire: per la cerchia del potere russo Navalny è stato un problema da morto quanto lo era da vivo. Avevano il timore di
Leggi tutto: Il funerale di Navalny. Anche da morto un problema per Putin - di Luigi De Biase
Commenta (0 Commenti)Non si ha tempo per il lutto nella Striscia, neppure davanti a stragi come quella di via Rashid a Gaza city costata due giorni fa la vita ad almeno 120 persone cadute in massima parte, denunciano con forza i palestinesi, sotto il fuoco dei soldati israeliani. Con il bisogno urgente di trovare cibo non si ha neppure il tempo di piangere i morti. Chi giovedì è scampato alle mitragliate e alla calca è già pronto a tornare alla rotonda Nabulsi ad aspettare i camion con gli aiuti assieme ad altre migliaia di persone. «La gente non ha alternative – ci dice Aziz Kahlout di Tel Al Hawa – perché non si trova nulla a Gaza city e nel nord. Io passo tutto il tempo a cercare generi di prima necessità. Il massacro non può fermarmi, devo sfamare i miei figli».
Adesso gli abitanti di Gaza non scrutano solo le strade devastate dalle bombe sperando di veder apparire i camion provenienti dal sud. Negli ultimi giorni hanno il naso all’insù, guardano gli aiuti lanciati dal cielo con i paracadute. Giordania, Egitto, Francia ed Emirati riforniscono, sia pure con quantitativi limitati di prodotti, le zone del centro e del nord di Gaza. L’iniziativa rappresenta il totale fallimento della comunità internazionale di imporre a Israele l’apertura e la protezione di un corridoio sicuro per la distribuzione regolare degli aiuti ai civili palestinesi travolti dalla sua offensiva militare. Non solo, i morti in via Rashid sono la conseguenza delle restrizioni al ruolo indispensabile a Gaza dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, attuate da Israele e appoggiate dai governi di una ventina di paesi, tra cui quello di Giorgia Meloni (invece l’Ue ha ripreso in parte i finanziamenti). L’Unrwam accusata da Israele di essere «collusa» con Hamas perché 12 dei suoi 13mila dipendenti palestinesi avrebbero partecipato all’attacco del 7 ottobre nel sud dello Stato ebraico, è l’unica organizzazione a Gaza con le capacità e le infrastrutture necessarie per una distribuzione capillare e ben organizzata degli aiuti umanitari (lo fa da decenni). «Questo massacro è la dimostrazione che non si può lasciare agli israeliani la protezione dei palestinesi di Gaza in termini di sicurezza alimentare», ha commentato Chris Gunness, l’ex portavoce dell’Unrwa.
Il rifornimento dal cielo, peraltro, si è rivelato un mezzo fallimento. I pacchi spesso finiscono in mare. I più giovani ed intraprendenti, con imbarcazioni improvvisate, si affrettano a recuperarli. Gli altri palestinesi attendono sulla spiaggia che la corrente porti a riva gli aiuti. Ihab Ali, di Al-Jalaa (Gaza City), è uno di loro. E non è soddisfatto. «Nel mio box – racconta – ho trovato un chilo di zucchero, uno di lenticchie, sacchetti di pasta e sale, del formaggio e tre chili di farina. In condizioni normali potrebbero bastare alla mia famiglia per qualche giorno, ma a casa mia ora ci sono più di 30 persone». I pacchi che cadono dal cielo sono molto contesi e il bisogno spinge anche ad usare la forza per conquistarli. «Questi metodi vistosi non metteranno fine alla crisi, dal cielo arrivano quantitativi troppo limitati per le nostre necessità. Comunque sia, è umiliante per noi litigare per qualche chilo di farina. E per uno che prende gli aiuti altri dieci restano a mani vuote», ha detto un abitante di Gaza city al giornale Al Araby al Jadeed.
Su Israele sale la pressione dopo la morte di tanti civili in attesa di cibo e cresce il numero dei paesi che sostengono la richiesta delle Nazioni Unite di avviare un’inchiesta internazionale sull’accaduto. Il Sudafrica, che accusa Israele di praticare il genocidio a Gaza, ieri ha denunciato il non rispetto da parte di Tel Aviv degli ordini della Corte internazionale di giustizia dell’Aia a protezione dei civili palestinesi. L’esercito israeliano non reagisce. Anche ieri ha continuato ad attribuire la maggior parte delle morti di due giorni fa alla calca attorno ai camion degli aiuti, aggiungendo che i soldati hanno sparato in modo «limitato» contro la «folla minacciosa». Il ministro della Sicurezza di estrema destra Itamar Ben-Gvir, già furioso per la scarcerazione di una cinquantina di palestinesi da mesi in detenzione amministrativa (senza processo e accuse formali), ha dato «sostegno totale» ai soldati che hanno sparato sui civili di Gaza sostenendo che «hanno agito in modo eccellente contro una folla che cercava di far loro del male». Tuttavia, in Israele non manca chi vede nell’accaduto il fallimento del governo Netanyahu che pensa solo a continuare la guerra e che non permette ai palestinesi e alle agenzie internazionali di gestire l’emergenza umanitaria a Gaza. Il quotidiano Yedioth Ahronoth non esclude che la strage di giovedì possa «creare un punto di svolta» e porre Israele di fronte a «pressioni che non sarà in grado di resistere, anche da parte della Casa Bianca». Difficilmente il gabinetto di guerra israeliano fermerà l’offensiva di terra sebbene l’Egitto si dica fiducioso di spingere le parti a una tregua a Gaza prima dell’inizio del Ramadan (10 marzo). Ieri sera mentre migliaia di israeliani scendevano in strada a reclamare un’intesa con Hamas che riporti a casa gli ostaggi a Gaza, Abu Obeida, il movimento islamico ha annunciato che sette dei circa 130 sequestrati sono morti in un bombardamento israeliano
GAZA. Israele. morti per la calca. Poi l'esercito ammette di aver aperto il fuoco sulla folla che circondava i camion umanitari
Le ambulanze non bastavano ieri. Molti corpi di morti e feriti li hanno caricati su carretti tirati da asini, altri sulle poche auto disponibili, altri ancora sui rimorchi degli autocarri che avevano portato gli aiuti umanitari. «La sparatoria è stata indiscriminata, (i soldati israeliani) hanno sparato alla testa, alle gambe, all’addome», racconta Ahmed, 31anni, uno dei feriti e testimone di quei minuti insanguinati in cui si è consumata la strage, una delle peggiori dall’inizio dell’offensiva israeliana di terra a Gaza alla fine di ottobre. Nessuno sa quanti palestinesi siano rimasti uccisi ieri mentre albeggiava alla rotatoria Nabulsi in via Rashid a Gaza city. Almeno 114 secondo un bilancio diffuso nel pomeriggio. Molti feriti sono in condizioni critiche e considerando che nel nord della Striscia gli ospedali non sono più operativi, perché privi di tutto, non pochi di questi sono destinati a morire.
La versione israeliana, come previsto, addossa tutta la responsabilità dell’accaduto ai palestinesi. «Questa mattina (ieri) i camion degli aiuti umanitari sono entrati nel nord di Gaza, i residenti li hanno circondati e hanno saccheggiato i rifornimenti in consegna. In seguito agli spintoni, al calpestio e perché investiti dai camion, numerosi abitanti di Gaza sono rimasti uccisi e feriti», ha scritto il portavoce militare. Che poi ha ammesso che i soldati del vicino posto di blocco «hanno aperto il fuoco quando si sono sentiti in pericolo per l’avvicinarsi della folla». E ha anche diffuso un video, ripreso forse da un drone, che mostra centinaia di puntini (i civili palestinesi) che si ammassano intorno ad autocarri. Immagini che non dicono granché. I palestinesi invece raccontano che, come accade spesso in questi casi, una gran numero di persone sin dalla prime ore del giorno si erano riunite in via Rashid in attesa di un convoglio di aiuti umanitari. Nel nord della Striscia e a Gaza city manca tutto, a cominciare dal cibo, e la gente affamata aspetta gli aiuti e altri generi di prima necessità come se fosse l’ultima possibilità di vita. Non si trattava di
Leggi tutto: 114 uccisi, la strage degli affamati: spari su chi cercava pane - di Michele Giorgio
Commenta (0 Commenti)SARDEGNA. Con la presidente tre liste a sinistra del Pd. Sarebbero, se fossero un unico partito, la terza forza politica regionale dopo Pd (13,9%) e Fratelli d’Italia (13,8%)
L’ex sindaco di Cagliari Massimo Zedda - foto Ansa
Hanno raccolto il 10,6% dei voti. Chiuse in Sardegna le urne, i numeri dicono che le tre liste a sinistra del Pd sarebbero, se fossero un unico partito, la terza forza politica regionale dopo Pd (13,9%) e Fratelli d’Italia (13,8%). Ma Alleanza Verdi Sinistra, Progressisti e Sinistra futura insieme non sono. In campagna elettorale ciascuna di queste sigle è andata per conto proprio, anche se tutte si sono schierate nella coalizione che ha portato Alessandra Todde alla guida dell’isola. Avs è arrivata al 4,6%, i Progressisti di Massimo Zedda si sono attestati sul 3,1% e Sinistra futura ha totalizzato il 2,9%. Complessivamente un potenziale più che rilevante.
L’implosione di Sel ha lasciato sul campo schegge sparse. Rimetterle insieme è complicato. Ma si è attivata una sintonia che ha dato ottimi risultati
Avs e Progressisti non hanno, diciamo così, bisogno di molte presentazioni. Avs Sardegna è emanazione di Avs nazionale. I Progressisti invece sono un partito regionale la cui storia comincia con il movimento dei sindaci arancione che, nelle amministrative del 2011, si affermò in grandi città come Napoli, Genova, Milano e Cagliari (Zedda è stato sindaco del capoluogo regionale). Anche Sinistra Futura è un partito regionale, che però è nato solo un anno fa e che fuori dall’isola non è granché conosciuto. È necessario quindi spiegare un po’. Sinistra futura è il risultato della confluenza tra iscritti a Leu-Articolo 1 che non hanno seguito i loro compagni di partito ritornati dentro il Pd e un gruppo di transfughi di Sinistra italiana. In Sardegna una scissione ha portato fuori dal partito di Fratoianni militanti e dirigenti che non hanno condiviso la scelta del segretario di entrare, per le politiche del 2022, nell’alleanza di centrosinistra che Letta aveva costruito tenendo fuori i Cinquestelle.
Insomma, da molto prima che, con la vittoria alle primarie di Elly Schlein, il Pd si orientasse verso il Campo largo, in Sardegna Sinistra futura proponeva di allargare lo spettro delle alleanze sino a comprendere il partito di Conte, anche se questo avesse dovuto significare rompere con il centro calendiano.
Storie e percorsi diversi, dunque, che si sono ritrovati nel programma della coalizione che ha vinto le elezioni. Il bottino di consiglieri non è male: quattro per Avs, tre per i Progressisti e due per Sinistra futura. Una forza consistente, ma frantumata dal punto di vista organizzativo. Perché? Se lo si chiede a Massimo Zedda il leader dei progressisti risponde che lui lavora da anni a ricomporre un quadro unitario tra le forze a sinistra del Pd: «Ci abbiamo tentato in tutti i modi. Ma non è semplice.
L’implosione di Sel ha lasciato sul campo tante schegge sparse. Rimetterle insieme è molto complicato. Il dato positivo di queste elezioni regionali è che su una prospettiva programmatica unitaria, quella definita dentro i confini del campo largo, si è attivata una sintonia, a sinistra ma anche dentro il quadro più largo delle forze progressiste, che in termini di consenso ha dato ottimi risultati. Nelle due città principali, Cagliari e Sassari, noi, Avs e Sinistra futura raccogliamo più del 13%: il 13,33% a Cagliari e il 13,58% a Sassari. Per capire che cosa significa bisogna considerare che a Sassari il Pd è al 13,77% e a Cagliari è al 12,06%».
Considerazioni simili le fa Maria Laura Orrù, sindaca di Elmas eletta consigliera regionale nella lista dell’Alleanza Verdi Sinistra: «C’è, a sinistra, una grande potenzialità. Bisogna saperla tradurre in peso politico. In consiglio regionale, dentro l’alleanza che ha portato Todde alla vittoria, credo esista la possibilità, per tutte e tre le formazioni di sinistra, di incidere in maniera efficace sui contenuti dell’azione di governo della nuova presidente, in particolare su alcuni temi che a noi stanno particolarmente a cuore: riconversione verde, tutela dei diritti del lavoro, difesa della sanità pubblica e inclusione sociale».
Per sinistra futura parla Luca Pizzuto, neo consigliere regionale ed ex segretario sardo prima di Sel e poi di Leu-Articolo1: «Noi nasciamo con l’intento di federare dal basso le tante realtà di sinistra attive nei territori. È questa la strada giusta sia per costruire a sinistra una prospettiva unitaria sia per dare rappresentatività effettiva alla nostra azione politica»
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Più di sei anni fa hanno sequestrato questa nave che salvava vite in mare. Hanno indagato, infiltrato, intercettato gli operatori delle Ong. I testimoni dell’accusa sono stati utili alla propaganda di Salvini. Ora la procura di Trapani dice che si era sbagliata: «Il fatto non costituisce reato». La Iuventa arrugginisce in porto. I migranti non soccorsi continuano a morire
BUCO NELL'ACQUA. Le 30mila pagine del fascicolo: giuridicamente inconsistenti, storicamente emblematiche. Intercettati giornalisti, politici, attivisti, avvocati, medici e prelati vaticani. Senza trovare prove
Naufraghi a bordo della nave Iuventa - Selena Magnolia
Quella che sta per concludersi a Trapani è un’udienza preliminare della durata portentosa di quasi due anni che riguarda il più importante procedimento contro il soccorso civile nel Mediterraneo centrale costruito dalle autorità italiane. A otto anni dai fatti, ieri il procuratore aggiunto Maurizio Agnello ha chiesto il proscioglimento affermando che «il fatto non costituisce reato». È proprio tra i corridoi della procura di Trapani che nel 2016 sono stati gettati i semi di quello che diventerà il maxi-processo contro le Ong. L’unico, a eccezione dell’inchiesta contro Mediterranea, ancora in piedi.
Clamoroso a Trapani, la procura: «Archiviate Iuventa e le Ong»
A LUGLIO dell’anno scorso era stato spacchettato dalla Cassazione tra
Leggi tutto: Il maxi-processo che segnò la svolta nei soccorsi in mare - di Lorenzo D'Agostino
Commenta (0 Commenti)MARATONA ORATORIA DI 4 ASSOCIAZIONI. Casellati: «L’unico punto che è irrinunciabile è l’elezione diretta del premier»
L’evento organizzato da quattro associazioni per sollecitare una riforma del premierato condivisa e approvata con un quorum dei due terzi, ha certificato l’opposto delle intenzioni dei promotori: la maggioranza ritiene «irrinunciabile» l’elezione diretta del premier, subordinando ad essa l’efficacia di una riforma della forma di governo. Sul palco della Sala Umberto, ieri a Roma, la ministra Casellati non ha usato il fioretto per rigettare le argomentazioni di costituzionalisti e di esponenti delle opposizioni, che hanno sottolineato le contraddizioni del ddl che porta il suo nome, e soprattutto la sua inefficacia nel dare stabilità al governo, che anzi, con il sistema pensato dal centrodestra, sarebbe sottoposto a maggiori fibrillazioni.
La «maratona oratoria» voluta da Magna Carta di Gaetano Quagliariello, Libertà Eguale, dei liberal del Pd, da Io Cambio nonché dall’Istituto Bruno Leoni, ha visto sfilare una quarantina di personalità sul palco dello Teatro romano. Costituzionalisti come Francesco Clementi, Giuseppe De Vergottini, Alessandro Sterpa, Salvatore Curreri, Carlo Fusaro, Serena Sileoni o Stefano Ceccanti (che alla fine ha tirato le conclusioni), politologi come Gaetano Quagliariello o Angelo Panebianco, ex parlamentari come Mario Segni, Natale D’Amico o Fabrizio Cicchitto, e alcuni esponenti delle opposizioni, come Ivan Scalfarotto, Maria Stella Gelmini o Dario Parrini. Le associazioni chiedono al centrodestra di rinunciare all’elezione diretta e puntare semmai al rafforzamento dei poteri del premier, sul modello tedesco, dove il cancelliere può chiedere lo scioglimento del Parlamento. Ma la ministra ha chiuso a chiave le porte: «L’unico punto irrinunciabile è l’elezione diretta del premier. Il coinvolgimento dei cittadini nella scelta della persona che dà l’indirizzo politico al governo è necessaria, dopo dieci anni di disallineamento tra la voce dei cittadini e il governo, un fenomeno che ha condotto all’attuale astensionismo». In questo racconto il centrodestra ha «già ceduto» alle opposizioni su altri punti, come l’introduzione del limite dei due mandati, o l’eliminazione dell’indicazione nel testo del premio di maggioranza del 55%. «Rispetto alle opposizioni abbiamo ceduto su tutto, se cediamo su questo significherebbe che non andiamo avanti a colpi di maggioranza ma di minoranza».
C’è poi stato un siparietto con il dem Dario Parrini, che ha sollevato un brusio nella sala anche tra chi costituzionalista non è, ma che ha visto tanti dibattiti sulle riforme costituzionali: «Parrini mi spieghi – ha detto la ministra – la differenza tra elezione diretta e indicazione sulla scheda. Non c’è differenza. Cedano almeno su un punto, questo». Da parte sua l’esponente del Pd ha ribadito che sull’elezione diretta c’è una «pregiudiziale» del suo partito. Ha tentato di cogliere tutti di sorpresa Peppino Calderisi che, a nome delle associazione promotrici, ha lanciato una mediazione, il «lodo Barbera», vale a dire una soluzione alla quadratura del cerchio proposta il 16 aprile 1997 dall’attuale presidente della Consulta in una seduta della bicamerale: indicazione sulla scheda al primo turno ed elezione diretta nel ballottaggio tra i due candidati più votati. Una polpetta avvelenata per il centrodestra, perché questo significherebbe una soglia del 50% per l’elezione diretta, mentre la maggioranza punta a una soglia del 40%. Questa le darebbe più chance di vincere le elezioni senza ricorrere al ballottaggio, e pazienza se poi si elegge un premier di minoranza, in contraddizione quindi con l’idea che il mandato diretto darebbe più autorevolezza al Presidente del Consiglio e più stabilità al suo governo.
Nelle conclusioni Ceccanti si è detto convinto che dopo le Europee «si aprirà una fase di possibile decantazione e di potenziale confronto effettivo sul merito» perché Meloni – e Schlein – non sanno come potrebbe finire il referendum. Di qui alle Europee la parola passa a Meloni
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