VERSO LE ELEZIONI EUROPEE. La campagna elettorale delle destre punta su quell’interclassismo ostile alla transizione ecologica. Redistribuirne diversamente i costi e gli oneri è quindi una delle condizioni principali per arrestare il dilagare dell’onda nera in Europa
Protesta degli agricoltori a Madrid - Ap
“Ideologica” è un insulto riservato alla sinistra e a quell’Unione europea che, incredibilmente, si ritiene ne sia tenuta in ostaggio. Designa, nel lessico politico corrente che va poco per il sottile, una posizione politica “intellettualistica”, slegata dalla realtà e determinata ad imporre arbitrariamente convinzioni campate in aria o decisamente smentite dall’esperienza. La destra invece non si attribuisce ideologia ma “valori” il cui rapporto con la contemporaneità e la vita concreta delle persone non permette nemmeno di essere interrogato, tanto queste qualità eterne si ritengono connaturate a ogni forma “civile” di umanità.
Come si potrebbe definire “ideologica” l’intenzione, per nulla astratta, di procedere alla limitazione dell’uso di pesticidi quasi certamente cancerogeni se non a partire da questa nebbia della ragione e da queste impudenti mistificazioni?
Delle politiche agricole dell’Unione europea tutto si può dire: che siano sbagliate e inique, che favoriscano la grande proprietà e le concentrazioni, che si preoccupino soprattutto dei profitti dell’industria agroalimentare, che non pongano argine ai ricatti delle grandi catene di distribuzione, che stabiliscano assurdi standard per i prodotti agricoli in ossequio non alla qualità e alla salute, ma al marketing delle forme e dei colori dei produttori più chimicamente sostenuti. Tutto questo si può e si deve dire, ma certo non che si tratti di “ideologia”.
Questa connotazione, tuttavia, viene messa in campo non per ignoranza o approssimazione, bensì per una ragione ben precisa. Si tratta di ostacolare con ogni mezzo la transizione ecologica (che non può essere respinta esplicitamente fino in fondo) sottolineandone il carattere di forzatura arbitraria che non tiene conto delle condizioni reali, che procede a drammatizzazioni strumentali contro gli interessi e le abitudini, nobilitate in tradizioni, dei cittadini europei.
L’invenzione di una “ideologia verde” che minaccerebbe il benessere di tutti maschera malamente i grandi interessi economici, di pochi e certo non dei coltivatori in difficoltà, che remano contro il Green deal per conservare il più a lungo possibile le loro privilegiate posizioni di mercato.
La campagna elettorale delle destre in vista delle imminenti elezioni europee punta le sue carte migliori su quell’interclassismo ostile alla transizione ecologica che accomuna la grande industria chimica, meccanica e agroalimentare allo squattrinato possessore di una vecchia auto o di un trattore d’altri tempi, al piccolo coltivatore che tira avanti a pesticidi e sfruttamento di ogni metro quadrato di terra. Rompere questo interclassismo, redistribuendo diversamente i costi e gli oneri della transizione verde, è una delle condizioni principali per arrestare il dilagare dell’onda nera in Europa.
Ma è una impresa quasi impossibile senza metter mano alla dottrina neoliberale che governa dogmaticamente la vita dell’Unione europea con quell’“ideologia” della concorrenza che sfocia inevitabilmente nelle grandi concentrazioni. E che porta così acqua al mulino delle illusioni nazionali e, in conseguenza, al prevedibile successo elettorale delle destre in Europa.
Tra queste illusioni (valori, per carità, non ideologia) un posto d’onore spetta alla “sovranità alimentare”, titolo di cui si fregia il vecchio, tristemente sobrio ministero dell’agricoltura. Cosa mai possa significare questo potere regale in una stretta, montagnosa penisola con 60 milioni di abitanti se non una spudorata presa in giro è ozioso domandarselo. Roma campava delle province dell’impero, ma al duce, ahimè, è andata male.
La sovranità alimentare o è imperiale o non è. Dunque il problema è semmai come posizionarsi, con un oculato equilibrio tra alti standard qualitativi delle colture locali e decenti partner internazionali, nella globalizzazione agroalimentare.
Ma se proprio vogliamo andare fino in fondo per capire davvero cosa significhi “ideologia” nella sua più miserabile accezione allora non c’è nulla di meglio della tragicomica epopea del liceo del “made in Italy”. Già i puristi del ventennio non avrebbero apprezzato che la quint’essenza dell’italianità non potesse essere nominata che nella lingua della perfida Albione.
L’apprezzamento degli italiani contemporanei è stato se possibile ancor più negativo mandando di fatto deserto un fumoso corso di studi pompato all’inverosimile, fondato sulla più vacua retorica e sull’eterna fata Morgana del rapporto tra scuola e aziende. Il mercato è una ideologia totalizzante e a suo modo rigorosa: nelle sue scelte non lascia spazio alle fantasticherie di mediocrità ministeriali che ne ricercano vanamente il favore. Tentazione della quale la sinistra non è mai stata indenne, soprattutto nel campo della scuola, collezionando fallimenti mai davvero riconosciuti.