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RUSSI ALL'ATTACCO. Funziona la guerra dei droni: affondata nave nel Mar Nero, bruciati depositi di petrolio a Belgorod

Ucraina, i fronti in crisi senza forniture alleate Soldati ucraini della regione di Donetsk - foto Ap

La guerra dalla distanza dell’Ucraina al momento è l’unica che ottiene successi. La scorsa notte i media russi hanno dato notizia di tre silos di petrolio in fiamme nei pressi della città russa di Belgorod a causa di un attacco di droni ucraini. Inoltre, nelle acque fatali (per la Russia) del Mar Nero, l’ennesima nave della marina militare di Mosca è stata affondata da un drone marino teleguidato. Si tratta della corvetta di pattuglia Sergei Kotov, una grande nave di recente produzione del valore di circa 65 milioni di dollari, che era in rada nei pressi del porto di Fedosia, in Crimea.

La Kotov era in grado di sparare i devastanti missili Kalibr, terrore delle città costiere ucraine, e per questo era già stata oggetto di un attacco infruttuoso mediante droni marini lo scorso settembre. Stavolta però le esplosioni hanno squarciato la chiglia del natante provocandone l’inabissamento. Lo hanno rivelato al quotidiano Ukrainska pravda i funzionari dell’intelligence militare ucraina (Gur) che sono stati anche gli esecutori dell’attacco. Un altro colpo andato a segno per il temutissimo Kyrylo Budanov, vero deus ex machina di queste frequenti incursioni contro i giganti del mare russi. Nel pomeriggio il portavoce della marina ucraina, Dmytro Pletenchuk, ha riferito che in seguito all’affondamento della Kotov 7 marinai russi sono morti mentre altri 52 membri dell’equipaggio sono stati evacuati. Intanto le autorità ucraine annunciano: «Aumenteremo la produzione di droni, per il 2024 contiamo di superare i due milioni di velivoli».

Questi risultati dei Servizi militari, tuttavia, contrastano con la situazione sul campo dove, secondo le parole di un portavoce delle forze armate di Kiev, i militari ucraini stanno facendo «tutto il possibile» per impedire ai russi di guadagnare terreno, ma «la situazione è estremamente difficile». La sconfitta di Avdiivka ha evidenziato le conseguenze dell’interruzione di forniture militari da parte dell’Occidente e ora i reparti al fronte sono in grande difficoltà. Le forze russe, infatti, hanno iniziato ad attaccare lungo diverse direttrici, sia nel Donbass sia a sud di Zaporizhzhia. Sul fronte meridionale i militari di Mosca stanno tentando di avanzare verso la cittadina di Robotyne. La notizia, apparsa prima sui canali russi due settimane fa, è ormai confermata anche da fonti ucraine che parlano di decine di attacchi al giorno. Secondo l’amministrazione filorussa del Kherson occupato (da dove i russi stanno lanciando gli attacchi) lo Stato maggiore di Kiev continua a inviare rinforzi per evitare che la cittadina cada, ma finora questi non sono riusciti a rompere l’assedio.

Robotyne è una delle roccaforti di Kiev nel sud (come lo era Avdiivka nell’est), teoricamente protetta da una fitta rete di trincee e da campi minati. Sembra, tuttavia, che i russi siano riusciti a superare la prima linea di campi minati e che ora stiano già combattendo ai margini del centro urbano. Intanto nell’est la situazione non accenna a migliorare per i difensori che sono costretti a fronteggiare i continui attacchi missilistici dei russi e le sortite dei reparti di fanteria verso Mariinka, Krasnogorivka, Kupiansk e, più a sud, Ugledar.

Sul versante internazionale la notizia delle intercettazioni agli alti ufficiali tedeschi continua a preoccupare il governo di Berlino. Ieri il ministro della difesa Pistorius ha dichiarato che probabilmente la falla nella sicurezza è stata creata dal generale di brigata Frank Gräfe che si trovava a Singapore per una convention e si è collegato alla riunione con gli altri graduati senza seguire le procedure di sicurezza.

 

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MEDIO ORIENTE. Sulla Rubymar ci sono tra 21mila e 41mila tonnellate di diserbante. Greenpeace: bisogna intervenire subito. Se non si ferma la carneficina a Gaza probabile che altre navi finiscano in fondo all'oceano
Mar Rosso, l’ecodisastro in arrivo non interessa a nessuno La nave Rubymar dopo l'affondamento

C’è grande preoccupazione per la libertà dei commerci occidentali che passano dal Mar Rosso, ma nessuno sembra interessato al rischio di disastro ecologico che incombe sull’area. Il 2 marzo, 13 giorni dopo essere stata colpita dai missili degli Houti, è affondata la nave Rubymar.

In una prima comunicazione via X del 24 febbraio, il comando centrale statunitense ha dichiarato che il cargo, battente bandiera del Belize ma di proprietà britannica, trasportava oltre 41mila tonnellate di fertilizzante. In un secondo tweet del 3 marzo le stesse autorità Usa hanno fatto riferimento a 21mila tonnellate di fertilizzante a base di solfato fosfato di ammonio.

Secondo il direttore dei programmi per il Nord Africa e il Medio Oriente di Greenpeace Julien Jreissati si rischiano «conseguenze di vasta portata». Se l’acqua facesse breccia nello scafo entrando in contatto con una simile quantità di prodotti chimici si sconvolgerebbe «l’equilibrio degli ecosistemi marini, innescando effetti a cascata lungo tutta la catena alimentare» con conseguenze su specie animali e comunità costiere.

«Servono misure urgenti per scongiurare un’imminente crisi ambientale e umanitaria. Mentre parliamo, la punta della prua della nave sembra rimanere precariamente a galla. Ritardare gli interventi di emergenza fino a quando sarà sul fondo dell’Oceano aumenterebbe significativamente la complessità delle operazioni. È imperativo che una squadra di esperti venga prontamente inviata sul posto, con il compito di valutare la situazione e orchestrare un piano di risposta», dice Jreissati al manifesto.

La questione, ovviamente, è quale autorità dovrebbe farlo. Nell’area del Mar Rosso mancano unità navali antinquinamento specializzate e mezzi logistici (come panne galleggianti, skimmers, disperdenti, etc.) in grado di contenere e neutralizzare gli inquinamenti marini. Nonostante ciò, a livello internazionale finora non circolano proposte sulla tutela ambientale.

In Italia, che ieri ha votato la missione Aspides a difesa del traffico commerciale marittimo, dal ministero della Difesa fanno sapere che quel fronte non rientra tra i suoi compiti e da quello degli Esteri che non ci sono discussioni in corso. Eppure il nostro paese disporrebbe «delle capacità tecniche e logistiche necessarie ad allestire prontamente una task force di pronto intervento antinquinamento, che andrebbe schierata in un porto ospitante quanto più possibile prossimo allo Stretto di Bab el-Manteb», dice una fonte di alto livello che preferisce restare anonima. Bisognerebbe insistere a livello Ue per accelerare i tempi, ma la questione sembra fuori da qualsiasi orizzonte.

Intanto ieri i ribelli yemeniti spalleggiati dall’Iran hanno colpito la portacontainer Msc Sky, che navigava nel golfo di Aden, con un missile. A bordo sarebbero divampate le fiamme, ma non si registrano feriti. La Msc Sky avrebbe proseguito la rotta senza chiedere assistenza.

La Rubymar è stata la prima nave affondata dagli Houti, ma rischia di non essere l’ultima. Nonostante le missioni militari occidentali. Soprattutto se il governo israeliano di Benjamin Netanyahu si ostinerà a continuare la carneficina a Gaza anche durante il Ramadan, che inizia domenica

 
 
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AIUTI NEL DESERTO. Sono già 15 i bambini della Striscia uccisi dalla malnutrizione. Al Cairo non si muove nulla, la fine della guerra è lontana

 La mano di Yazan Al Kafarna - Ap

Non c’è solo Yazan Al Kafarna, apparso nelle foto pallido ed emaciato, con gli arti scheletrici, morto lunedì e di cui ha parlato due giorni fa l’inviato palestinese alle Nazioni unite, Riyad Mansour. Molti altri bambini rischiano di morire per mancanza di cibo e di aggiungersi ai 15 già uccisi dalla fame all’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahiya, nel nord di Gaza dove la mancanza di cibo è più estrema. Uno dei più a rischio è Ahmed Qannan, non ha ancora tre anni: prima dell’offensiva militare israeliana pesava 12 kg, oggi la metà. Con gli occhi infossati, pelle e ossa, debolissimo, Ahmed giace in un lettino nel centro sanitario Al Awda a Rafah, sul confine con l’Egitto, assistito da una zia. I bambini intorno a lui non stanno meglio. Come Ahmed hanno bisogno urgente di calorie, vitamine, proteine, ma a Gaza sotto attacco israeliano trovare anche solo un pacco di biscotti è una impresa.

Ahmed Salem

Le mamme sono malnutrite e non possono allattare i loro bambini. Non possiamo aiutarle, non abbiamo il latte artificiale
EPPURE, il cibo è lì vicino a Rafah, dall’altra parte della frontiera, sul versante egiziano dove sono fermi i camion che non riescono ad entrare a Gaza e a consegnare il

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PALESTINA. L’Egitto autorizza il gruppo di 14 deputati e molte ong. Tajani lancia «Food for Gaza» ma l’Italia mantiene i tagli all’Unrwa, l’agenzia Onu che Israele accusa

Aiuti umanitari vengono lanciati su Gaza foto Getty Images Aiuti umanitari vengono lanciati su Gaza - Getty Images

C’è aria di Ramadan al Cairo. Lungo le sopraelevate che legano i quartieri, sopra le piazze dall’architettura caleidoscopica – antica bellezza, decadenza, modernità e stile sovietico – svettano i cartelloni pubblicitari delle emittenti tv. Gli attori delle serie sorridono a passanti e automobilisti, un classico del mese sacro. Il modo per ritmare il tempo in famiglia in attesa del primo dattero che al tramonto rompe il digiuno.

Il Ramadan arriverà anche a Gaza, e non è la prima volta che capita nel pieno di un’offensiva israeliana.

Successe nell’estate 2014 con Margine Protettivo. Per dieci anni quell’operazione è stata considerata un apice irraggiungibile di violenza. Quella attuale l’ha stracciata. Sarà un Ramadan di fame a Gaza.

«UNA COLLEGA epidemiologa è rimasta a vivere a nord. Nutre i quattro figli con tre cucchiai di mangime per animali al giorno». La voce è quella di Helen Ottens-Patterson, responsabile dell’Unità di emergenza a Gaza di Medici senza Frontiere. Si rivolge alla carovana solidale arrivata dall’Italia, organizzata da Aoi (Associazione delle Ong italiane) con Arci e Assopace. Quattordici deputati di Avs, Pd e M5S, decine di giornalisti e rappresentanti dell’associazionismo italiano.

Helen Ottens-Patterson, responsabile dell’Unità di emergenza a Gaza di Medici senza Frontiere

«Una collega epidemiologa è rimasta a vivere a nord. Nutre i quattro figli con tre cucchiai di mangime per animali al giorno»

È la prima volta che le autorità egiziane autorizzano una delegazione simile a mettersi in marcia verso il valico di Rafah. È quella la destinazione, scorta politica agli aiuti ma soprattutto alla richiesta che giunge dalle società civili globali: cessare subito il fuoco.

Il Cairo è la prima tappa. Fa già caldo, il cielo è opaco. A ovest la strada è segnata dai tanti progetti infrastrutturali che modellano le politiche interne.

Poi appaiono i tratti di una storia antichissima. Nel quartiere Zamalek le librerie ambulanti si nascondono tra hotel maestosi. Tra i libri, anche i versi del poeta nazionale palestinese, Mahmoud Darwish. C’è anche «Ritorno ad Haifa», di Ghassan Kanafani.

LA CAROVANA raccoglie le testimonianze delle ong palestinesi e le agenzie Onu. Con la cadenza di una supplica, la fame ritorna in ogni racconto, accanto all’incredulità per una crisi senza precedenti.

«I nostri camion sono presi di mira, cerchiamo disperatamente di consegnare aiuti a nord. Siamo riusciti a compiere solo 12 missioni – spiega Sahar al Jobury, la responsabile di Unrwa in Egitto – Siamo un punto di riferimento. Quando la gente ha fame, viene all’Unrwa. Quando è arrabbiata, protesta con l’Unrwa. Eppure ci stanno delegittimando. Anche in Cisgiordania e a Gerusalemme est: Israele ha bloccato i conti, limita i nostri movimenti, non riconosce visti allo staff internazionale».

La paura, più che concreta, è che il taglio dei fondi deciso da 16 paesi occidentali provochi un’implosione definitiva. Perché è Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, che coordina le attività delle altre: «È la spina dorsale dell’assistenza, la fornisce e facilita il lavoro altrui – aggiunge Adnan Abu Hasna, portavoce di Unrwa nella Striscia, appena uscito da Rafah, lasciandosi dietro casa sua – Ci occupiamo anche di distribuire le quantità limitate di carburante a ospedali e panetterie».

LE PANETTERIE, quelle ancora in piedi. Sono pochissime. E gli aiuti arrivano col contagocce, troppo scarsi e troppo lenti, a volte troppo pericolosi se è il fuoco a disperdere gli affamati.

È in tale contesto che ieri il ministro degli esteri Tajani ha lanciato, sulle colonne de La Stampa, l’idea di un’iniziativa umanitaria, “Food for Gaza”, invitando a Roma «tutti gli attori del polo delle Nazioni unite», mentre rivendica i tagli all’Unrwa, anche in assenza di prove – mai consegnate da Israele – sul presunto coinvolgimento di 13 dipendenti nell’attacco del 7 ottobre.

Punizione collettiva, la chiamano in tanti. E tanti insistono: serve aprire i valichi, ma soprattutto cessare il fuoco. Alfio Nicotra, co-presidente di Un Ponte Per, risponde a Tajani dal Cairo: «Può essere una buona notizia ma necessita di una più attiva iniziativa del nostro paese per l’immediato cessate il fuoco. E serve il coinvolgimento delle ong italiane che invece non sono citate dal ministro».

«L’IDEA andrà esplorata – gli fa eco Laura Boldrini (Pd) – A Gaza servirà una massiccia operazione di ricostruzione. L’Italia giochi un ruolo ma lo deve fare con tutti gli attori, Onu, Croce rossa e Mezzaluna e ong italiane che lavorano in Cisgiordania e a Gaza».

«Serve prima il cessate il fuoco – aggiunge Stefania Ascari (M5S) – Poi tutti i valichi vanno aperti». «Gli aiuti ci sono ma sono bloccati a Rafah – dice Nicola Fratoianni – Se non entrano, questo ottimo auspicio rischia di ridursi all’ennesima operazione virtuale». «Bene che l’Italia svolga un ruolo sul fronte umanitario ma senza un’iniziativa di carattere politico questo sforzo rischia di essere frustrato», conclude Andrea Orlando (Pd).

LA CAROVANA si muove, accompagnata dalle parole di Yousef Hamdouna, cooperante di Gaza. Un viaggio così, in un autobus che ha il sostegno dell’ambasciata italiana, non l’aveva fatto mai. Passare dall’Egitto per tornare a casa era una via crucis: costi enormi, giorni e notti in una stanza sotto terra in attesa che il valico di Rafah aprisse.

«Oggi la mia famiglia è riunita in una sola casa, sono 57. Non hanno abbastanza da mangiare. Al telefono con me, si vergognano a lamentarsi: almeno non stiamo in una tenda, siamo fortunati. Abbiamo ancora un tetto sulla testa»

 

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DALLE ACLI A PAX CHRISTI. Associazionismo cattolico in difesa della legge 185 in corso di riforma

«Mobilitare tutta la Chiesa» per non uccidere la legge sulle armi Ap

Si trovano nell’area fra Golfo Persico e Mar Rosso alcuni fra i migliori clienti delle industrie armiere italiane: il Qatar negli ultimi cinque anni ha acquistato armi made in Italy per oltre tre miliardi di euro, l’Arabia Saudita per 432 milioni.

Ma l’intero Medio Oriente è un grande mercato per i produttori italiani di armamenti, dalla Turchia (oltre un miliardo) a Israele (90 milioni).

Tutto ciò nonostante esista una legge, la 185 del 1990, che proibisce la vendita di armi a Paesi in guerra, governati da regimi dittatoriali o che non rispettino i diritti umani. A meno che – ecco il grimaldello che consente di aggirare la norma – non abbiano accordi di cooperazione militare con l’Italia.

In realtà è l’intero impianto della legge che rischia di essere demolito, dopo l’approvazione in Senato di alcune modifiche che rendono ancora più facile esportare armi e riducono la trasparenza finanziaria.

È per questo che ieri, in attesa del voto finale alla Camera, alcune associazioni cattoliche (Azione cattolica, Acli, Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari, Pax Christi e gli scout dell’Agesci) hanno rilanciato l’appello della Rete italiana pace e disarmo per «fermare lo svuotamento della legge 185».

«Siamo a un punto di svolta verso il via libera generalizzato all’esportazione di armi a chiunque», spiega Maurizio Simoncelli, di Archivio Disarmo. «In un mondo sempre più armato e militarizzato, abbiamo ancora più bisogno della 185», aggiunge Alex Zanotelli, comboniano dalle cui denunce negli anni ‘80 sul mensile Nigrizia del traffico di armi in Africa partì la mobilitazione che nel 1990 portò all’approvazione della legge che ora il governo vuole smontare.

L’appello della Rete punta l’attenzione sulle due principali modifiche peggiorative introdotte al Senato: il Comitato interministeriale per gli scambi di materiali di armamento per la difesa, unico debole organismo di controllo delle autorizzazione all’export che, anche in virtù del meccanismo del silenzio-assenso, rischia di liberalizzare totalmente il mercato, e la cancellazione integrale della parte della relazione annuale del governo al Parlamento che riporta i dettagli dell’interazione tra banche e industrie armiere.

«I rapporti di forza a Montecitorio sono negativi», ammette Paolo Ciani, già responsabile romano di Sant’Egidio, ora deputato di Demos, unico parlamentare presente. Occorre allora parlare alla società, per cui Zanotelli si rivolge espressamente alla Chiesa: «Gli enti ecclesiastici dovrebbero dare un segnale forte togliendo i propri soldi dalle banche che sostengono il commercio di armi, i vescovi e i parroci invitare i fedeli alla mobilitazione».

Del resto la Cei – che ancora non ha reciso tutti i rapporti con le banche armate – in passato è intervenuta puntualmente per contestare alcuni provvedimenti legislativi, dalla legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita al testamento biologico: perché non potrebbe farlo anche in difesa della legge 185?

 

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La Corte suprema ha deciso all’unanimità, l’ex presidente non può essere squalificato «a tavolino» dalle elezioni tramite il 14esimo emendamento della Costituzione Usa, che vieta agli insorti contro il governo di ricoprire uffici pubblici. Ma i giudici non entrano nel merito del suo tentato golpe del 2020. Oggi il Super Tuesday: primarie in quindici stati

SUPERTRUMP. La decisione unanime della Corte suprema. Che non entra nel merito del tentato golpe

Washington, manifestanti anti-Trump davanti alla Corte suprema Washington, manifestanti anti-Trump davanti alla Corte suprema - Francis Chung/Ap

Donald Trump è legittimamente candidato alla presidenza degli Stati uniti. Lo ha decretato ieri la corte suprema con una sentenza che annulla la precedente decisione della cassazione del Colorado che alcune settimane fa, in quello stato, aveva rimosso Trump dalle schede delle primarie in quanto protagonista di una insurrezione ai danni della repubblica. Quella iniziale squalifica era stata decretata in base all’articolo 3 del quattordicesimo emendamento alla costituzione, adottato dopo la guerra civile e che, accanto a fondamentali norme sull’uguaglianza (e l’abolizione della schiavitù), introduceva l’interdizione perpetua alle cariche pubbliche per chi avesse sostenuto la secessione.

I MAGISTRATI del Colorado avevano considerato Trump colpevole di insurrezione in base ai suoi ripetuti tentativi di sovvertire i risultati delle elezioni vinte da Joe Biden nel 2020, dapprima attraverso numerosi ricorsi, poi in un’escalation di azioni sovversive, specificamente le pressioni su vari stati per squalificare grandi elettori a lui contrari o «far saltare fuori» i voti necessari a cambiare il risultato. Infine, Trump aveva lanciato i suoi sostenitori all’assalto del parlamento per impedire la ratifica e ribaltare il risultato in extremis. Per il massimo tribunale del Colorado (nonché le autorità in Maine ed Illinois) la profanazione del Congresso corrisponde all’azione insurrezionale contemplata dalla costituzione.

LA CORTE non si è pronunciata sul merito dell’articolo originalmente introdotto per impedire che ufficiali e politici confederati venissero eletti al Congresso, ma ha decretato che la determinazione di idoneità a cariche federali non può essere lasciata alle giurisdizioni di singoli stati.

La sentenza, resa all’unanimità, non è giunta come una sorpresa, visti i commenti dei togati che nella fase dibattimentale si erano mostrati assai scettici sull’ipotesi di una

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