POLITICA. Riproposto l’emendamento, senza speranze. Al leghista resta l’autonomia. Sembra vana la speranza che Meloni e Tajani non si candidino alle europee. E la premier boccia la commissione sui «dossieraggi»
Matteo Salvini - foto LaPresse
Per la Lega ora tutto è più difficile e già non era facile. Nel pranzo dei leader, alla viglia del consiglio dei ministri di lunedì, la premier è stata chiara: non bisogna dare il minimo segnale di divisione perché in Basilicata si rischia di brutta. Nell’impazzimento della politica italiana c’è sempre una nuova elezione dietro l’angolo e persino un test che coinvolge 400mila aventi diritto appena diventa una prova rilevante anche a livello nazionale. Vito Bardi, il governatore uscente, è debole e infatti sia la Lega che FdI puntavano a sostituirne la candidatura. La botta sarda ha messo fine ai giochi e gelato ogni fantasia ma adesso si tratta di non infragilire ulteriormente il già non saldissimo candidato.
In concreto significa mettere la sordina all’eterna crociata leghista sul terzo mandato. Ma il Carroccio non demorde e dopo una lunga indecisione riemette in campo in aula l’emendamento già bocciato in commissione. La Lega nutriva la speranza, in questo modo, di far emergere le divisioni all’interno del Pd in materia e tenere così la questione calda fino al dopo europee. Ma con Elly Schlein uscita dalla sconfitta tanto forte da ammutolire gli amministratori ribelli che minacciavano sfracelli, la strada appare sbarrata. «Aspettiamo di vedere cosa fanno Pd e governatori» spiegava in mattinata il leghista Tosato.
Da quella parte però c’è ben poco da vedere. Nel Pd la segretaria, con le spalle coperte dai risultati ottenuti in Abruzzo, ha già sigillato ogni spiraglio: «Ribadiamo la posizione già espressa in commissione», taglia corto il capogruppo a palazzo Madama Francesco Boccia, schleiniano della primissima ora. Anzi il Pd reclama lo stralcio della norma che porta a tre i mandati per i sindaci dei comuni sino a 15mila abitanti e elimina ogni tetto per quelli sotto i 5mila. «Questi decreti sono omnibus. Se continua così non ci resterà che chiedere un incontro al presidente della Repubblica», minaccia lo stesso Boccia. Il governo, col ministro dei rapporti con il parlamento Luca Ciriani, risponde picche, «Stralcio impossibile il decreto essendo già in vigore». Senza la sponda del Pd e con alle spalle il magro risultato nelle regionali recenti la Lega non ha comunque alcuna possibilità di forzare e il governo getterà probabilmente acqua sul fuoco con la fiducia.
C’è un’altra questione sulla quale non è permesso mostrare crepe di sorta: la commissione parlamentare d’inchiesta sui dossieraggi, veri o presunti. L’idea era di due ministri tricolori, Crosetto e Nordio, ma era piaciuta subito alla Lega. Non a Giorgia Meloni che ha dato pollice verso nel pranzo di lunedì: tempi lunghi, rischio di dover cedere la presidenza all’opposizione e in questi casi, poi, gli schizzi di fango arrivano dappertutto. Ieri la premier ha ufficializzato il de profundis: «Sta già lavorando l’Antimafia, alla fine valuteremo se c’è bisogno d’altro». Addio Commissione.
Insomma non è che le cose dopo le montagne russe sardo-abruzzesi siano cambiate di molto. La tendenza della premier a comandare era già spiccata. Ora lo è un po’ di più. Solo su un punto Meloni rassicura Matteo Salvini: «Stiamo rispettando gli impegni presi sull’autonomia differenziata». Non è poco: è lo scudo col quale nei congressi lombardo e nazionale della Lega, non più rinviabili, il leader pericolante farà fronte alle proteste dei bossiani. C’è però un altro punto critico che resta irrisolto: le candidature alle elezioni europee. Meloni vuole essere in campo. L’azzurro Tajani aveva escluso l’ipotesi però, vista la fase positiva, ha cambiato idea e scalpita per candidarsi. Salvini invece non vuole e nemmeno può farlo, quindi chiede agli alleati di sacrificarsi e rinunciare. Non gli hanno detto di no. Neppure di sì però
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REGIONALI. L'analisi del voto: «Rispetto alle politiche 2022, un pezzo di elettorato 5S diserta le urne, una parte di quello del terzo polo ha scelto Marsilio»
Il rieletto presidente dell'Abruzzo Marco Marsilio - LaPresse
Al netto della fortunata vittoria di Alessandra Todde su Paolo Truzzu, le tendenze sottostanti le elezioni regionali in Sardegna a Abruzzo «sono simili». Parola dell’Istituto Cattaneo di Bologna, che ha analizzato i due appuntamenti elettorali. «L’area elettorale del centrodestra si consolida, grazie ad un astensionismo relativamente basso tra i suoi elettori del 2022 e a piccoli apporti aggiuntivi che vengono per lo più dall’astensione o dal cosiddetto Terzo polo».
Segno che, nell’elettorato di centrodestra, «la fiducia nel governo guidato da Giorgia Meloni rimane stabile». Il cosiddetto campo largo, tanto nella geometria sarda (Pd, M5s, altri minori da un lato; Azione, Iv, +Europa dall’altro), tanto in quella abruzzese (tutti insieme), soffre di fuoriuscite più consistenti verso l’astensione o di flussi diretti verso la coalizione avversaria.
Un fenomeno che il Cattaneo ritiene quasi inevitabile, visto che l’elettorato di quest’area è attraversato da «varie linee di frattura al suo interno», oltre che «da una reciproca ostilità» deliberatamente tra i leader di partiti potenzialmente alleati (in particolare Conte e Calenda, ndr), da una «diversità di posizioni su vari temi (di politica interna ed internazionali) più profonda rispetto all’elettorato di centrodestra».
«Non a caso, le due componenti più volatili di questa area sono rintracciabili da un lato tra gli elettori del M5S e dall’altro tra gli elettori della componente liberale ed europeista (Azione, Iv, +Europa)». Nel caso dei 5S prevale, come già in passato, «la tendenza ad astenersi in occasione di elezioni locali». Nel secondo, «la tendenza a ricollocarsi o a tornare verso il centrodestra, soprattutto quando, come nel caso abruzzese, i partiti dell’area liberale ed europeista sono alleati con il M5s».
In questo quadro, «gli equilibri all’interno del centrodestra rimangono abbastanza stabili, con variazioni che di volta in volta riflettono specificità locali». Forza Italia «si giova della stabilità del quadro governativo e si riafferma come forza moderata all’interno della maggioranza, in un rapporto proficuo con la presidente del Consiglio», ma non regisstra «alcun balzo in avanti».
Secondo il Cattaneo il successo delle destre nella provincia de L’aquila «riflette una caratteristica di lungo termine del voto abruzzese, questa volta più accentuata». Ma questo dato «non è risultato determinante» per la vittoria di Marsilio «perché, a parte il consueto successo del centrosinistra nelle grandi città, e segnatamente a Pescara, il centrodestra è risultato prevalente in tutte le province». (red.pol.)
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L’Europa potrebbe trovarsi ad affrontare situazioni «catastrofiche»: l’avvertimento è dell’Agenzia europea per l’ambiente, che ieri ha pubblicato i risultati della prima European Climate Risk Assessment, una valutazione dei rischi climatici a livello continentale, molti dei quali sono già in una situazione critica. «Il caldo estremo, la siccità, gli incendi boschivi e le inondazioni che abbiamo sperimentato negli ultimi anni in Europa peggioreranno, anche in scenari ottimistici di riscaldamento globale, e influenzeranno le condizioni di vita in tutto il continente» ha spiegato l’agenzia nel comunicato stampa di presentazione. «Questi eventi rappresentano la nuova normalità» ha insistito il direttore dell’Agenzia, Leena Ylä-Mononen, durante un incontro con la stampa. «Dovrebbero anche essere un campanello d’allarme».
L’analisi elenca 36 grandi rischi climatici per l’Europa. Tra questi, almeno 21 richiedono un’azione immediata e otto una risposta di emergenza. Tra questi, i principali sono i rischi per gli ecosistemi, soprattutto marini e costieri. Gli effetti combinati delle ondate di calore marine, dell’acidificazione e dell’esaurimento dell’ossigeno nei mari e di altri fattori antropici – come l’inquinamento e la pesca – stanno minacciando il funzionamento di quelli marini e «il risultato può essere una perdita sostanziale di biodiversità, compresi eventi di mortalità di massa» spiega il rapporto.
«L’Europa si trova di fronte a rischi climatici urgenti che si acuiscono più rapidamente di quanto le nostre società riescano a prepararsi. Per garantirne la resilienza i responsabili politici europei e nazionali devono agire immediatamente con interventi volti a limitare i rischi climatici, sia mediante una rapida riduzione delle emissioni sia con l’attuazione di politiche e di interventi di adattamento forti» ha insistito Ylä-Mononen. Per l’Agenzia europea dell’ambiente, la priorità è che i governi e le popolazioni Ue riconoscano in modo unitario i rischi e decidano di fare di più e più rapidamente. E questo nonostante i «notevoli progressi» compiuti «nella comprensione dei rischi climatici e nella preparazione ad essi». Le aree più a rischio sono quelle dell’Europa meridionale, di cui fa parte il nostro Paese.
Le cause sono incendi, scarsità d’acqua e relativi effetti sulla produzione agricola, impatto del caldo sul lavoro all’aperto e sulla salute. Allarme rosso anche per le regioni costiere a bassa quota, a causa di inondazioni, erosione e intrusione di acqua salata. L’Europa settentrionale non è comunque risparmiata, come dimostrano le recenti inondazioni in Germania e gli incendi boschivi in Svezia, il Paese di Greta Thunberg, che assieme a un gruppo di altri attivisti proprio ieri ha inscenato una protesta davanti al parlamento svedese per chiedere più giustizia climatica.
«Questa azione è un atto di resistenza contro il proseguimento di questo sistema ingiusto e mortale. I più ricchi consumano un’enorme quantità di risorse, a scapito di gran parte della popolazione mondiale che non vede soddisfatte neanche le necessità di base» ha poi scritto Thunberg su X. «È un dovere democratico farsi coinvolgere attivamente nel definire la direzione di questo cambiamento» ha aggiunto. L’appuntamento è al 19 aprile, quando è in programma il prossimo Global Climate Strike promosso da Fridays for Future
REGIONALI. Il leader prende atto del voto abruzzese al di sotto delle aspettative Ma non chiude all’alleanza con il Pd e rilancia il «modello Todde»
Le condizioni sembravano esserci: un candidato civico e non diretta espressione dei partiti come Luciano D’Amico, l’onda lunga della vittoria di Alessandra Todde in Sardegna e il tour elettorale di Giuseppe Conte in lungo e in largo per l’Abruzzo, alla ricerca del consenso popolare che facesse la differenza tra il cosiddetto «campo larghissimo» e la destra. Insomma, tutto lasciava pensare che il Movimento 5 Stelle non avrebbe dovuto appigliarsi anche in questo caso alla storica debolezza per le amministrative, anche perché qui alle regionali di cinque anni fa si presentava in solitaria e sfiorò il 20% dei consensi. Ma era tutt’altra epoca: Conte era ancora lontano dal diventare leader e il governo con il Pd andava muovendo i primi passi. Va anche detto che l’ex presidente del consiglio ci ha tenuto anche questa volta a rimarcare il suo aplomb istituzionale, telefonando a Marco Marsilio quando ancora Elly Schlein non lo aveva fatto.
IL LEADER AMMETTE che le cose non sono andate per il meglio: il contributo dei suoi alla coalizione di D’Amico è al di sotto delle aspettative. «Registriamo il risultato modesto del Movimento 5 Stelle – è la nota che lo staff di Conte detta alle agenzie e diffonde via social – Questo esito ci spinge a lavorare con sempre più forza sul nostro progetto di radicamento nei territori, per convincere a impegnarsi e a partecipare soprattutto i troppi cittadini che non votano più». Eppure, trova il modo di tenere la barra dritta verso l’alleanza: «Dobbiamo farlo sulla scia della vittoria ottenuta in Sardegna, che ci ha portato qualche giorno fa ad eleggere la prima Presidente di Regione M5S della storia, Alessandra Todde. Un segnale da cui ripartire».
STA TUTTO qui, il paradosso dell’Avvocato: ha bisogno di rivendicare la sua appartenenza a una coalizione che nelle settimane scorse ha dimostrato di poter vincere ma al tempo stresso registra che i 5 Stelle non riescono a recuperare quei voti che avrebbero potuto marcare la differenza. E non è un caso che nei giorni scorsi avesse speso parole di afflato verso l’alleanza con il Pd praticamente inedite o che si vociferi sulle intenzioni di Nicola Zingaretti (sempre lui, che da segretario assegnò a Conte il ruolo di «federatore») di trascinare i 5 Stelle nel gruppo dei Socialisti e democratici al parlamento europeo. Persino Danilo Toninelli, membro del collegio dei probiviri e non esattamente vicino al Pd, semina dubbi sull’alleanza con i terzopolisti ma non mette in discussione gli accordi coi dem.
«SULLE RAGIONI della sconfitta ci sarà il tempo di riflettere – dice Pietro Smargiassi, ormai ex consigliere regionale pentastellato in Abruzzo – Sono stati fatti degli errori alcune zavorre andavano lasciate fuori dalla scialuppa. Altrettanto chiaro è che l’idea di una corsa in coalizione non paga, gli elettori mal digeriscono la nostra presenza accanto a certi simboli. Poi Smargiassi registra la sua bocciatura ripercorre il tabellino delle ultime regionali (Sardegna a parte): «Molise, Lazio, Lombardia, Abruzzo. Ma questa è anche la linea che proviene da via Campo Marzio: «Per noi le ultime 24 ore sono state di ascolto dei territori – dicono dal quartiere generale – E ci pare evidente che, al netto della consapevolezza del fatto che non siamo autosufficienti, forse certe micro-sigle allontanano i nostri elettori».
INTANTO, a proposito di radicamento territoriale e quadri locali, si è dimesso il coordinatore regionale del M5S in Abruzzo: si tratta di Gianluca Castaldi da Vasto. È uno di quelli che aveva risposto all’appello del leader: dopo aver esaurito i due mandati al Senato, ed essere stato anche sottosegretario ai rapporti con il parlamento nel Conte bis, si era messo a disposizione del nuovo corso. «Chiedo scusa per non aver fatto di più – dice ora Castaldi – Apro la mia personale riflessione sul ruolo da Coordinatore e la metto nelle mani di Conte»
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REGIONALI. Le proiezioni indicano una vittoria di Marsilio: 54,7% contro 45,3%. M5S crolla al 7%, il Pd tiene, Fdi perde quasi 4 punti rispetto al 2022 ma resta il primo partito
Marco Marsilio durante il comizio di chiusura della campagna elettorale per le elezioni regionale in Abruzzo, Pescara, 05 marzo 2024 - ANSA/ALESSANDRO DI MEO
Il centrosinistra non ha fatto l’impresa in Abruzzo. La seconda proiezione di Noto Sondaggi attorno a mezzanotte e trenta chiude la partita: il governatore uscente Marco Marsilio di Fdi è stimato al 54,7%, lo sfidante del centrosinistra Luciano D’Amico si ferma al 45,3%. Un risultato assai più netto di quanto suggerito dal clima dalla vigilia, e dai primi exit poll delle 23 che indicavano un testa a testa come quello di due settimane fa in Sardegna.
I dati delle proiezioni sono stati salutati con dei boati al comitato di Marsilio, mentre le bocche restano cucite in quello di D’Amico, dove si attendono dati reali prima di qualsiasi commento. La delusione è comunque palpabile, dopo che nelle ultime settimane la campagna elettorale del centrosinistra aveva preso ritmo e fiducia, mentre la destra era parsa molto nervosa.
Il dato dell’affluenza si è fermato al 52%, un punto in meno delle regionali del 2019. Un dato che ha evidentemente penalizzato il centrosinistra, che puntava sul recupero dei tanti elettori progressisti che negli ultimi anni si erano spostati sull’astensione. Un tentativo che non è riuscito, nonostante gli sforzi di Schlein e Conte. Il segretario regionale del Pd Daniele Marinelli parla di “grave disaffezione e grave distanza dei cittadini nei confronti della politica”.
I primi dati sulle liste segnano un tracollo del M5S, che scende al 7% dal 18.5% delle politiche 2022. Il Pd è al 18%, in leggero aumento rispetto al 16,6% delle politiche. A destra Fdi al 24% (due anni fa aveva il 27,9%) , Fi sale al 14,3%, la Lega tiene rispetto a due anni fa: 8,7%,
Uno dei primi commenti arriva dal sindaco di Pescara Carlo Masci, di Forza Italia: “Mi sembra che Marsilio, rispetto a 5 anni fa, abbia migliorato la sua performance”. Nel 2019 il candidato di Fdi si era affermato col 48%.
Stefania Pezzopane, ex presidente della Provincia de L’Aquila (Pd) e ora consigliera comunale di opposizione parla di “uno scontro che era difficilissimo. Comunque sia il centrosinistra è ripartito, una grande unità e un campo larghissimo, siamo in campo. E’ importante quello che abbiamo fatto, può essere un messaggio che mandiamo all’Italia”
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l candidato in Abruzzo Luciano D'Amico con Elly Schlein
Per Giorgia Meloni l’appuntamento di oggi in Abruzzo è un voto di fiducia. A concederla, o negarla, non saranno 600 parlamentari, ma circa 1,2 milioni di elettori potenziali, di cui solo 6-700 mila andranno probabilmente alle urne. Un test piccolo in termini numerici, ma molto robusto politicamente: questa è la prima regione che nel 2019 è stata governata da un uomo di Fdi, il fedelissimo Marco Marsilio, la premier nel 2022 ha scelto il collegio de L’Aquila per farsi eleggere in Parlamento.
Perdere qui sarebbe molto peggio che in Sardegna, uno schiaffo, tanto che un altro pretoriano, il ministro dei Rapporti col Parlamento Luca Ciriani si è già affrettato a giurare che il governo non cadrà. Probabilmente ha ragione, e del resto i governi, salvo eccezioni, non cadono per una sconfitta locale, ma quando perdono la maggioranza parlamentare.
QUELLO CHE POTREBBE CADERE, e forse è già caduto, è l’incantesimo di Giorgia, l’underdog post-missina arrivata a palazzo Chigi soprattutto grazie alle sciagurate divisioni nel campo democratico alle ultime politiche. Le scene da basso impero che abbiamo raccontato in quest’ultima settimana, ministri che arrivano in carovana a promettere la luna (Sangiuliano è venuto venerdì a L’Aquila con 200 milioni in tasca, novello Achille Lauro), la premier che lancia avvertimenti agli imprenditori sugli «effetti devastanti» di una cacciata del suo governatore, la giunta regionale che vara provvedimenti assai poco urgenti a due giorni dal voto per 100 milioni sonanti (come il ripascimento dei litorali, cosa buona ma che poteva essere fatta nei 5 anni di governo) sono segnali di grande debolezza.
Così come il fatto che Marsilio dedica quasi tutti i suoi comizi a denigrare gli avversari piuttosto che a parlare dei propri risultati (che sono scadenti). Di solito, quando chi credeva di avere la vittoria in tasca arriva al voto col fiato così corto va incontro a una delusione. Ma attenzione: anche a sinistra ammettono che nelle liste delle destre ci sono i campioni delle preferenze, quelli che portano i voti veri, e senza voto disgiunto (il Pd non lo ha reintrodotto quando ha varato la nuova legge regionale nel 2018, potrebbe essere un errore fatale) Marsilio potrebbe salvarsi con il soccorso nero. Oltre che con le mancette che, in ogni caso, toccano interessi reali e portano consensi.
IL CENTROSINISTRA QUESTA volta non ha sbagliato praticamente, e già è una notizia. Ha azzeccato il candidato oltre sei mesi prima del voto, il professore gentile Luciano D’Amico che, di piazza in piazza, ha tentato di riattivare tra i suoi corregionali una speranza di futuro, dicendo cose di sinistra come sanità pubblica e lavoro non precario con i toni giusti. Se dovesse farcela diventerebbe un eroe nazionale, ma in ogni caso la sua parte l’ha fatta.
I leader nazionali, da Schlein a Conte, non si sono risparmiati, girando per decine di piccoli paesi con o senza il candidato: il palco tutti insieme non c’era stato neppure a Cagliari, eppure è andata bene. Anche qui ognuno (compresi gli inusualmente mansueti Calenda e Renzi) ha parlato al proprio segmento di elettorato, e forse è più onesto così che un’ammucchiata di plastica a favore di telecamere che alle destre già ha portato sfortuna in Sardegna.
D’AMICO E I SUOI PARTITI un successo l’hanno già ottenuto: dimostrare che si può far paura a questa destra senza insultare nessuno. Con un programma nettamente di sinistra ha spazzato via tutta la paccottiglia sul lavoro flessibile e precario che tanto male ha fatto al Pd, ribadendo cose semplici: e cioè che se si vuole trattenere i giovani nella loro terra servono un lavoro sicuro, ben pagato e servizi sociali adeguati. E poi netto antifascismo (cita sempre la Brigata Majella), trasporto pubblico locale gratuito perché «a utilizzarlo sono le fasce più deboli della popolazione».
Ha lanciato anche una legge regionale per tutelare tutti i tipi di famiglia, e tra i centristi non è volata neppure una mosca. E ha anche fatto capire che, se governerà, anche il centrosinistra metterà da parte clientele, mancette e altre pratiche da vecchia Dc che non sono mai morte. Ecco, appunto: si può fare. «Comunque vada sarà un successo», diceva Chiambretti in un vecchio Sanremo degli anni 90, e stavolta è proprio vero.
I rapporti tra Conte e Schlein, pur con percorsi separati dall’Adriatico alle montagne della Marsica, si sono tonificati, al punto che il leader 5s parla esplicitamente della necessità di una coalizione nazionale, e dice persino: «Non sarò io a dettare le regole».
A DESTRA HANNO CHIUSO venerdì sera col grido del ministro-giornalista Sangiuliano: «Questa regione non può tornare nelle mani dei comunisti e delle terrazze della gauche caviar». Anche lui, come l’amico Marsilio, deve aver lasciato la testa a Roma, visto che in Abruzzo di terrazze radical chic se ne vedono ben poche. Le sue parole rivelano la rabbia di chi si considera proprietario di una colonia e teme che qualche impostore gliela porti via. L’esatto opposto di D’Amico che si è posto come primus inter pares, proponendo ai suoi concittadini un progetto di sviluppo con una certa dose di empatia verso problemi che, a contatto con migliaia di giovani quando era rettore a Teramo, ha conosciuto bene.
L’ABRUZZO, COME LA SARDEGNA, è anche una prova di forza interna alle destre: a Cagliari Meloni aveva decapitato il governatore di Salvini e si è visto com’è andata. Qui gli ha scippato diversi assessori, compresa la potente titolare della Sanità Nicoletta Verì, che ha fatto il salto poche settimane fa lasciando il leghista in brache di tela, a rischio di scendere sotto la soglia psicologica del 4%.
Queste elezioni potrebbero chiudere, una volta per tutte, il sogno di una Lega nazionale, proprio in una delle terre sotto il Po dove il Carroccio si era più radicato (5 anni fa era il primo partito col 27,5%). Se accadesse, anche il leader che da oltre 10 anni incarna quel progetto nazionalista potrebbe capire di essere arrivato all’ultimo miglio della sua segreteria.A Meloni finora l’umiliazione degli alleati non ha portato bene. Forse l’atteggiamento da marchesa del Grillo si rivelerà il suo principale tallone d’Achille
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