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REPRESSIONI. Manifestazioni per la Palestina e manganelli. Sta diventando una inaccettabile costante: ieri, a Pisa, Firenze, Catania; pochi giorni fa ai presidi sotto la Rai, a Napoli, Torino e Bologna. La […]

Manganellate della polizia contro gli studenti a Roma a Natale 2023 Manganellate della polizia contro gli studenti a Roma a Natale 2023 - Ansa

Manifestazioni per la Palestina e manganelli. Sta diventando una inaccettabile costante: ieri, a Pisa, Firenze, Catania; pochi giorni fa ai presidi sotto la Rai, a Napoli, Torino e Bologna.

La deriva autoritaria che ha la sua veste istituzionale nella riforma sul premierato si esercita nelle piazze sotto forma di violenza delle forze di polizia, nelle aule di tribunale con la repressione del dissenso, nello spazio pubblico con l’espulsione del pensiero divergente.

Quasi sembra di vivere in una distopia, non nella realtà: sul serio non si può nemmeno pronunciare la parola «genocidio» se accostata alla Palestina e Israele? Non si può manifestare per un cessate il fuoco, per la pace?

Sembra quasi una commedia dell’assurdo, se non stessimo manifestando per una tragedia e se non fosse che stiamo scivolando verso il baratro.

Manifestare per la pace, per il lavoro, manifestare in sé, è agire e attuare la Costituzione; una democrazia che impedisce la libertà di espressione, la discussione, il dibattito, abbandona i suoi presupposti, le condizioni minime di una «democrazia liberale».

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È un filo nero quello della repressione del dissenso che lega decreti sicurezza che si susseguono senza soluzione di continuità, normalizzando, con un ossimoro, presunte emergenze e stabilizzando eccezioni (violazioni) dei diritti; prassi delle procure che considerano la protesta eversiva rispetto alla democrazia; pronunce della magistratura civile e amministrativa che infliggono risarcimenti a chi contesta scelte politiche; provvedimenti di prefetti e questori che sottraggono spazi pubblici alle manifestazioni e comminano fogli di via agli eco-attivisti per le azioni di disobbedienza civile; limitazioni delle commissioni di garanzia agli scioperi; nuovi reati e pene per il dissenso, il disagio sociale e la solidarietà; daspo urbano per chi disturba il decoro della città.

È un filo che sta tessendo una cappa nera, che si diffonde a partire dai margini: dagli «antagonisti», come tendenzialmente vengono qualificati tutti i manifestanti, che si sa sono tutti violenti; dai migranti, che non sono «noi», non sono cittadini e forse anche un poco meno umani; dai poveri, che in fondo qualche colpa per la loro situazione l’avranno pure.

E la cappa diviene sempre più asfissiante, il diritto penale del nemico diviene panpenalismo, perché chi è controcorrente, con la materialità della sua esistenza o con la manifestazione delle sue idee, è un nemico. Preciso: occorre denunciare e resistere all’espulsione sociale e politica di ciascuna persona, non solo perché è un passo verso altre repressioni, ma in quanto tale; ogni diritto negato a qualsiasi persona, senza che si reagisca, rende tutti un po’ meno democratici, un po’ meno umani.

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Guerra e diritti, cambiare programma

La logica della guerra, che non chiede di ragionare, ma di obbedire, e l’egemonia del modello neoliberista, che nega alternative e deve blindarsi per sopravvivere agli effetti brutali che produce (sulle persone e sulla natura), convergono naturalmente (del resto muovono dalla stessa radice di sopraffazione) nella volontà di anestetizzare il conflitto.

La passività, l’acquiescenza, l’ignavia sono la strada più comoda. Ed è un percorso facilitato da scuola e università che le controriforme tendono a ridurre a mercati dove acquistare nozioni (i crediti) da spendere nel mercato del lavoro, sterilizzandone le potenzialità come luoghi di creazione e discussione di sapere critico.

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L’unico spazio di libertà

E se ancora vi sono resistenze, se ancora studentesse e studenti scendono in piazza, le cariche della polizia e i processi a carico dei manifestanti che poi ne seguono, si incaricano della repressione e della dissuasione.

È una democrazia quella che intimida chi manifesta, delegittima chi esprime opinioni controcorrente, accetta campi di detenzione e morti alle frontiere, punisce ed espelle chi vive condizioni di disagio?

Sicuramente non è la democrazia disegnata dalla Costituzione, che persegue la rimozione dei condizionamenti economici e sociali, sancisce il diritto di asilo, ripudia la guerra, promuove la partecipazione effettiva. Della democrazia non basta mantenere il nome.

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Il mondo nella bolla di Rai Uno

Sono tanti i segnali inquietanti che ci circondano, cerchiamo di vederli, comprendere le loro connessioni, denunciamo la violenza della polizia, in sé e quale espressione fisica della violenza «di sistema», continuiamo ostinatamente a manifestare e manteniamo aperto lo spazio della critica dell’esistente

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Le cariche della polizia nel centro di Pisa

https://www.la7.it/intanto/video/pisa-polizia-carica-gli-studenti-durante-i-cortei-pro-palestina-23-02-2024-527906

https://www.welfarenetwork.it/pisa-basta-manganelli-sugli-studenti-le-reazioni-di-pd-arci-anpi-donne-dem-ecc-20240223/

 

Siamo docenti del Liceo artistico Russoli di Pisa e oggi siamo rimasti sconcertati da quanto accaduto in via San Frediano, di fronte alla nostra scuola. Studenti per lo più minorenni sono stati manganellati senza motivo perché il corteo che chiedeva il cessate il fuoco in Palestina, assolutamente pacifico, chissà mai perché, non avrebbe dovuto sfilare in Piazza Cavalieri. Gli agenti in assetto antisommossa avevano chiuso la strada e attendevano i ragazzi con scudi e manganelli, mentre dalla parte opposta le forze dell’ordine chiudevano la via all’altezza di Piazza Dante. In via Tavoleria un’altra squadra con scudi e manganelli.
Proprio di fronte all’ingresso del nostro liceo, hanno fatto partire dapprima una carica e poi altre due contro quei giovani con le mani alzate. Non sappiamo se se siano volate parole forti, anche fuori luogo, d’indignazione e sdegno, fatto sta che, senza neanche trattare con gli studenti o provare a dialogare, abbiamo assistito a scene di inaudita violenza. Ci siamo trovati ragazze e ragazzi delle nostre classi tremanti, scioccate, chi con un dito rotto, chi con un dolore alla spalla o alla schiena per manganellate gentilmente ricevute, mentre una quantità incredibile di volanti sfrecciava in Via Tavoleria.
Come educatori siamo allibiti di fronte a quanto successo oggi. Riteniamo che qualcuno debba rispondere dello stato di inaudita e ingiustificabile violenza cui sono stati sottoposti cento/duecento studenti scesi in piazza pacificamente: perché si è deciso di chiuderli in un imbuto per poi riempirli di botte? Chi ha deciso questo schieramento di forze, che neanche per iniziative di maggior partecipazione e tensione hanno attraversato la nostra città?
Oggi è stata una giornata vergognosa per chi ha gestito l’ordine pubblico in città e qualcuno ne deve rispondere.

 

L’Università di Pisa esprime profonda preoccupazione e sconcerto per gli scontri avvenuti questa mattina nel centro della città, che hanno causato a quanto pare il ferimento di studenti universitari e di studenti delle scuole superiori.

In attesa di ricevere chiarimenti sull’accaduto e sull’operato delle forze dell’ordine, auspica che tutte le autorità competenti intervengano per garantire la corretta e pacifica dialettica democratica, tutelando la sicurezza della popolazione e della comunità studentesca.

Conferma la sua posizione caratterizzata dalla massima apertura al dialogo pacifico fra tutte le posizioni e dal ripudio della violenza in tutte le sue forme. Riguardo alla tragica situazione in Israele e Palestina, ribadisce il suo sgomento per l’attacco terroristico dell'ottobre scorso e per la strage attualmente in corso nella striscia di Gaza, unendo la sua voce a quella di tutti coloro che chiedono l’immediato cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi.

Informa di aver già organizzato per il 14 marzo una riunione straordinaria del Senato Accademico aperta alla partecipazione di esterni, nel corso del quale verranno presentate, discusse e votate mozioni, elaborate anche da gruppi studenteschi, su questa e altre questioni di grande impatto sociale.

Riccardo Zucchi
Rettore dell’Università di Pisa

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GUERRA INFINITA. L'esercito israeliano costruisce una strada che taglia in due la Striscia. E a Zeitoun cerca palestinesi per sostituire i funzionari di Hamas

Un «corridoio strategico» per rioccupare Gaza

 

Della strada 749 ha riferito per prima, qualche giorno fa, Canale 14, la tv online della destra. Ora sono giunte le prime conferme. Le forze armate israeliane stanno costruendo una nuova strada, descritta come un «corridoio strategico», che taglia in due la Striscia di Gaza. Corre da est a ovest, dalle linee di demarcazione fino alla costa mediterranea. Otto chilometri percorribili in pochi minuti dai mezzi militari israeliani che in questo modo potranno muoversi ed intervenire anche nel nord e nel sud della Striscia. La notizia si inserisce in un quadro bellico sempre drammatico per i civili palestinesi. Bombe israeliane sganciate su Rafah hanno ridotto in lastre di cemento e pietre la moschea Al Farouk e distrutto quattro case in quella che gli abitanti di Rafah hanno descritto come una delle notti peggiori dall’inizio dell’offensiva israeliana quasi 5 mesi fa. Almeno sette i morti. I loro cadaveri sono stati rinchiusi in sacchi. Nelle foto apparivano adagiati sul selciato fuori da uno degli obitori nella città a ridosso del confine egiziano – in cui oltre la metà dei 2,3 milioni di palestinesi di Gaza si ammassano in enormi tendopoli – e che nei prossimi giorni o settimane potrebbe essere il bersaglio di un’altra offensiva militare. La tensione è sempre più alta anche in Cisgiordania. Ieri mattina tre palestinesi, hanno aperto il fuoco contro le automobili in coda a un posto di blocco tra l’insediamento coloniale di Maale Adumim e Gerusalemme, uccidendo un israeliano e ferendo altre 11 persone. Due degli attentatori sono stati uccisi, il terzo è stato catturato.

La costruzione del «corridoio strategico» avviene al costo della distruzione di un gran numero di abitazioni palestinesi e di infrastrutture civili. Il suo completamento, con l’allestimento di posti di blocco e di zone di sicurezza, riguarda la fase successiva all’offensiva in corso, in cui Israele, evidentemente, intende mantenere il controllo di Gaza per un periodo indefinito di tempo. La strada ora sterrata si estende per circa otto chilometri, rimodella completamente la topografia della Striscia e, punto centrale, potrebbe impedire a un milione di palestinesi di tornare nel nord della Striscia. Il progetto si aggiunge alla «zona cuscinetto» larga un chilometro che il gabinetto di guerra israeliano, incurante dei blandi ammonimenti dell’Amministrazione Biden, ha ordinato di realizzare lungo il confine, all’interno di Gaza, sottraendo quasi 40 kmq, in buona parte terreni agricoli, al già minuscolo territorio della Striscia (circa 360 kmq).

Comunque sia, Washington si prepara a finalizzare una nuova spedizione di armi a Tel Aviv, comprese mille bombe MK-82 da 500 libbre. E non servirà a fermarla il racconto di Ramadan Shamlakh, 22 anni, che ha denunciato di essere stato violentemente percosso e ferito da soldati israeliani. In un filmato, il giovane palestinese appare con una benda macchiata di sangue avvolta attorno alla testa e un’altra attorno al braccio sinistro, il viso gonfio e insanguinato e con l’occhio destro chiuso, con tagli sulle dita della mano destra fatti, ha detto, con un coltello. «Mi sdraiava a terra e mi diceva di non muovermi. Prendeva delle pietre e le lanciava contro le mie gambe. Ogni volta che mi muovevo mi prendeva a calci. Non potevo respirare, non potevo parlare», ha dichiarato Shamlakh riferendo del comportamento di un soldato israeliano che gli avrebbe anche fracassato addosso due sedie.

Mentre prosegue la sua offensiva – che ha fatto circa 30mila morti palestinesi, 97 dei quali nelle ultime 24 ore, e decine di migliaia di feriti -, Israele cerca palestinesi che non siano affiliati ad Hamas per gestire gli affari civili nelle aree di Gaza in cui pensa di fare dei «test» in «sacche umanitarie» per l’amministrazione postbellica dell’enclave. L’ha riferito ieri il giornale Haaretz citando un alto funzionario israeliano. Il piano esclude coloro che sono legati ad Hamas e all’Autorità nazionale palestinese (Anp). Di fatto equivale alla rioccupazione di Gaza. Secondo la tv Canale 12, il sobborgo di Zeitoun, a nord di Gaza City, è il primo candidato per l’attuazione del piano, in base al quale commercianti locali ed esponenti della società civile distribuiranno aiuti umanitari alla popolazione. Hamas ha descritto il piano come «destinato al fallimento». Ma anche Wassel Abu Yousef, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di cui fa parte l’Anp, ha condannato le intenzioni di Israele. «Tutti i tentativi di Israele di cambiare le caratteristiche politiche, geografiche e demografiche di Gaza non avranno successo», ha detto previsto Abu Yousef. Gli Stati uniti vorrebbero «rivitalizzare» l’Anp e metterla al governo di Gaza dopo la guerra. Ma Israele continua a respingere questa proposta.

Il taglio dei fondi per l’Unrwa (Onu) da parte di 16 paesi, intanto comincia a pesare anche in Libano dove si trovano 12 campi profughi palestinesi. Dorothee Klaus, direttrice dell’agenzia a Beirut, ieri ha avvertito che i fondi sono finiti e si augura che i donatori facciano marcia indietro e riprendano i finanziamenti all’Unrwa che assiste in tutto il Medio oriente oltre cinque milioni di profughi palestinesi. Israele accusa 12 dei 13.000 dipendenti dell’Unrwa di aver preso parte all’assalto guidato da Hamas il 7 ottobre e chiede che l’agenzia venga chiusa o almeno fatta uscire da Gaza. Sino ad oggi però non ha fornito le prove definitive della partecipazione dei 12 dipendenti all’attacco di Hamas. Nel Libano da mesi fronte di guerra parallelo a quello di Gaza, altre quattro persone sono state uccise e altre sono rimaste ferite in un attacco di droni israeliani contro un appartamento nella città di Kfar Remen, situata nella regione del governatorato di Nabatieh

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CAMPO LARGO. Dai due leader proposte in contemporanea: la segretaria Pd cita la piattaforma contrattuale dei metalmeccanici, il leader M5s deposita una Pdl per le 32 ore

Schlein e Conte: riduzione di orario a parità di salario La segretaria del Pd Elly Schlein - Foto LaPresse

A pochi giorni dalla presentazione della piattaforma unitaria Fim, Fiom, Uilm per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici che lo cita esplicitamente, l’obiettivo della riduzione di orario a parità di salario viene rilanciato sia dal Pd che dal M5s. Elly Schlein e Giuseppe Conte sembra che abbiano fatto a gara per presentarlo proprio ieri, a pochi minuti di distanza anche sui loro rispettivi profili social.

La segretaria del Pd non lo manca di sottolineare: «I sindacati metalmeccanici italiani per il rinnovo contrattuale 2024-2027 propongono di sperimentare la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Parliamo di 1,5 milioni di lavoratrici e lavoratori», continua Schlein. «Non è una piccola questione, è invece una proposta che punta ad una nuova idea di società in cui si rimettono al centro la qualità della vita e del lavoro, l’innovazione organizzativa e la necessità di redistribuire la ricchezza e il tempo libero delle persone. Significa migliorare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, in un paese dove c’è un problema enorme di precarietà e di part-time involontario che colpisce soprattutto le donne». «Noi – spiega Schlein – facciamo una proposta molto semplice: allarghiamo il Fondo nuove competenze – cofinanziato dal Fondo sociale europeo – introducendo anche la sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario», scrive sui social la segretaria del Pd. «Scommettiamo sul modello della contrattazione collettiva tra imprese e sindacati per incentivare la settimana corta. Un fondo che aiuti chi stipula contratti per la riduzione dell’orario di lavoro attraverso un esonero contributivo del 30 per cento dei contributi previdenziali che si allarga al 40 per le prestazioni lavorative usuranti e gravose. Si può fare». «La scelta è tra il passato e il futuro. L’Italia è uno dei pochi paesi dove non c’è alcuna iniziativa legislativa che incentivi la sperimentazione sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario», mentre tante sono le «sperimentazioni in Gran Bretagna, Portogallo, Germania, Spagna e Belgio».

Ancora più avanzata la proposta di Giuseppe Conte: «È arrivata in Commissione Lavoro alla Camera una proposta a mia prima firma sulla riduzione del tempo di lavoro. La nostra proposta è di ridurre in via sperimentale l’orario di lavoro da 40 a 32 ore, a parità di retribuzione», così il leader M5s in una diretta su Facebook ieri mattina. Il leader 5 Stelle cita statistiche positive dei paesi in cui la «settimana corta» è stata adottata, dall’Europa a Microsoft in Giappone: «Aumenta la soddisfazione dei dipendenti e il livello di produttività dell’azienda ed ha anche vantaggi dal punti di vista ambientale», sia in termini di emissioni che di consumi energetici. «L’obiettivo è fare anche dell’Italia il prossimo Paese in cui sperimentare questa riforma e siamo pronti a confrontaci, spero ci sarà un dialogo sereno con le altre forze politiche».

Consonanze programmatiche nel Campo Largo, dunque. Che si spera potranno entrare in un futuro programma di governo

 

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Si muore nei grandi impianti come sui cantieri. Dopo la strage di Firenze, ieri un operaio ha perso la vita nello stabilimento Stellantis in provincia di Avellino. Anche lui era in appalto, vittima degli affidamenti al ribasso. «Esterno» in un fabbrica dove lavorava da venti anni

BARA D'APPALTO. Il 52enne lavorava da venti anni nello stabilimento di Pratola Serra, nell’avellinese, ma era assunto da una ditta esterna. Fiom: «Gli affidi sono al ribasso, chi se li aggiudica chiede ai dipendenti mansioni sempre più pesanti»

Stellantis, operaio muore schiacciato da un macchinario Lo stabilimento Stellantis di Pratola Serra (Avellino) dove è morto un operaio di 52 anni - foto Ansa

Era andato nel magazzino dei basamenti dei motori per verificare quali fossero le cause di un’anomalia ed è stato colpito all’addome da una sbarra automatica. È morto così Domenico Fatigati, cinquantaduenne di Acerra, un comune in provincia di Napoli, sposato con tre figli, il più piccolo dei quali di 7 anni. La tragedia pochi minuti prima delle otto di ieri mattina nello stabilimento Stellantis di Pratola Serra, in provincia di Avellino. Una fabbrica dove lavorano 1.600 operai, i quali producono i motori 1600, 2000 e 2200 che si montano sulla jeep Renegade, sull’Alfa Romeo Tonale e sul Ducato.

FATIGATI LAVORAVA lì dentro da circa 20 anni e lo conoscevano tutti. Non era però dipendente di Stellantis, ma di MS Industrial, un’azienda che ha la sede legale a Foggia e che ha in appalto parte della gestione dei magazzini. Guadagnava circa 1.500 euro al mese. «Da quando l’ho incontrato in fabbrica per la prima volta – racconta Giuseppe Morsa, delegato della Rsa a Pratola Serra e segretario della Fiom Cgil di Avellino – è sempre stato con una ditta in appalto esterno. Prima si chiamava Fratelli Pietropaolo». Nello stabilimento in provincia di Avellino la logistica è affidata alla De Vitia, i magazzini in parte (l’altra è gestita in proprio da Stellantis) a MS Industrial. Sono poi affidate a terzi mensa e pulizia.

«GLI APPALTI sono centralizzati – dice Morsa – nel senso che li gestisce direttamente Torino». Fatigati è dunque morto da esterno in una fabbrica che da 20 anni frequentava ogni giorno e dove

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 SANITÀ CROLLATA. Ferite non curate, chemio mancate, infezioni: 8mila decessi nei prossimi sei mesi anche se i raid si fermassero ora. E non si fermano: nuovo veto Usa all'Onu

 Un ospedale di Gaza - Ap

A decine ieri si sono avvicinati al cratere fumante e colmo di macerie di un intero palazzo distrutto dalla bomba sganciata da un aereo israeliano sul campo di Nuseirat, nella zona centrale di Gaza. In silenzio, hanno provato a scorgere in quella voragine il corpo di qualcuno ancora in vita. Per 12 persone che al momento dell’esplosione erano nei pressi della moschea Hasan Banna non c’è stato scampo. Altre decine sono rimaste ferite, alcune gravi e con poche possibilità di salvezza a Gaza dove gli ospedali non sono più ospedali dopo quattro mesi e mezzo di offensiva israeliana. L’esercito dello Stato ebraico ha rilanciato la sua offensiva al centro e a nord della Striscia, in particolare a Zeitun e Shujaiye a est di Gaza city. Hamas non sembra affatto sul punto di crollare come affermano da giorni i comandi militari e il ministro della difesa israeliano Gallant. I suoi combattenti e l’apparato amministrativo, non appena i reparti corazzati israeliani arretrano, cercano di rioccupare alcune delle posizioni perdute nelle settimane passate. Si combatte di nuovo al nord, anche se il grosso dell’offensiva israeliana si concentra a sud, a Khan Yunis – l’ospedale Nasser, circondato da settimane, è in piena emergenza – ed è giunta alle porte di Rafah, l’ultimo rifugio per oltre un milione di civili.

Sono circa 29mila i palestinesi uccisi a Gaza, in gran parte civili, e altre migliaia di corpi si troverebbero sotto le macerie di case e palazzi abbattuti da bombe e missili. Un bilancio destinato a salire, anche se l’offensiva israeliana si fermasse ora, cosa improbabile alla luce delle ultime dichiarazioni del premier Netanyahu e di altri membri del suo governo. Ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine e del Johns Hopkins Center for Humanitarian Health negli Stati Uniti, calcolano in circa 8.000 i palestinesi di Gaza che probabilmente moriranno nei prossimi sei mesi per il crollo del sistema sanitario causato dall’attacco israeliano alla Striscia. Moriranno per le ferite provocate dai bombardamenti, per l’aumento delle malattie, per la mancanza di chemioterapie ai malati oncologici e cronici, per la diffusione di infezioni in un territorio devastato in cui gran parte della popolazione è sfollata, senza casa e vive nelle tendopoli nel migliore dei casi se non tra le macerie. I ricercatori allo stesso tempo lanciano un avvertimento: se i combattimenti non si fermeranno, almeno altre 85mila persone potrebbero morire entro l’inizio di agosto uccise dalla guerra, dalle malattie e dalle epidemie.

Un altro tentativo di dichiarare un cessate il fuoco immediato e definitivo a Gaza è naufragato ieri quando gli Stati uniti hanno esercitato di nuovo il diritto di veto per bloccare la bozza di risoluzione presentata dall’Algeria al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il testo ha avuto il sostegno di 13 dei 15 paesi membri del CdS, mentre il Regno unito si è astenuto. Si tratta della terza volta in cui Washington esercita il diritto di veto dal 7 ottobre. «Votare a favore di questa bozza significa sostenere il diritto alla vita dei palestinesi, opporsi significa sostenere la violenza brutale nei loro confronti», aveva detto prima del voto l’ambasciatore algerino alle Nazioni Unite, Amar Bendjama, facendo appello al senso di responsabilità del CdS e del rispetto di tante vite innocenti a Gaza. Gli Stati uniti hanno motivato il veto affermando che la risoluzione proposta da Algeri non avrebbe garantito la liberazione dei circa 130 ostaggi israeliani nelle mani di Hamas e altre organizzazioni a Gaza. Ma la decisione è la conferma che nonostante i forti contrasti emersi tra l’Amministrazione Biden e il premier Netanyahu in questi ultimi giorni, gli Usa continueranno a sostenere Israele, con la diplomazia e con armi e munizioni, e non imporranno soluzioni allo Stato ebraico, dal cessate il fuoco definitivo a Gaza alla dichiarazione unilaterale di uno Stato palestinese indipendente.

Da parte sua Washington ha presentato una sua bozza di risoluzione, in cui la dicitura «cessate il fuoco immediato» è sostituita con il termine «temporaneo». Finora gli Usa hanno appoggiato la possibilità di una «pausa umanitaria» per consentire la liberazione degli ostaggi israeliani – anche attraverso uno scambio con prigionieri politici palestinesi in carcere in Israele – e l’aumento degli aiuti umanitari per Gaza. L’Amministrazione Biden si oppone inoltre a una operazione militare israeliana su larga scala nella città di Rafah. Ai civili palestinesi non basta, chiedono la tregua immediata e definitiva. Tuttavia, la bozza di risoluzione americana ora sul tavolo è il massimo che gli Usa siano riusciti a produrre negli ultimi quattro mesi e mezzo per mostrare la propria insoddisfazione al governo Netanyahu che non ascolta nessuno, non cede a pressioni e non tiene conto delle posizioni di altri paesi. «Il fatto che gli Stati uniti stiano presentando questo testo è un avvertimento per Netanyahu» spiega Richard Gowan dell’International Crisis Group «È il segnale più forte inviato dagli Stati uniti: Israele non può fare affidamento sempre sulla protezione diplomatica americana». Lo scetticismo però è forte. Le trattative comunque sono in corso e la contrarietà all’attacco israeliano contro Rafah espressa nel testo è lo strumento con il quale la delegazione Usa prova ad avere l’appoggio alla sua risoluzione.

Ieri il Sudafrica ha di nuovo esortato la Corte internazionale di Giustizia (Cig) ad emettere un parere di «illegalità» (non vincolante) per l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Nel fine settimana una delegazione di osservatori israeliani è stata espulsa dalla cerimonia di apertura del vertice dell’Unione Africana ad Addis Abeba. Questo sviluppo è stato condannato con forza dal ministero degli esteri israeliano che ha accusato «paesi estremisti come Algeria e Sudafrica» di aver imposto la propria agenda all’Unione Africana

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