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GREEN DEAL. Respinto l’assalto delle destre, approvata la legge sul ripristino della natura. FdI con Coldiretti, Lega e Forza Italia masticano amaro. Ma l’iter del provvedimento per diventare legge richiede ancora l’approvazione del Consiglio. Un sì non scontato

Restoration Law (Ap) 

Applausi e fischi hanno accolto l’approvazione della Legge sul ripristino della natura (Nature Restoration Law) passata al Parlamento europeo riunito in seduta plenaria a Strasburgo con 329 voti a favore, 275 contrari e 25 astensioni. Applausi liberatori e perfino abbracci sui banchi dell’Eurocamera da parte di socialisti (Sd), verdi, sinistra (Left) e M5S (nel gruppo dei non iscritti).

Contrarietà netta da parte della destra dei conservatori (Ecr), di cui fa parte FdI, Identità e democrazia (Id) di cui fa parte la Lega, e dalla delegazione di Forza Italia nella famiglia dei popolari (Ppe). Il via libera arriva come un sospiro di sollievo per tutti i sostenitori del Green deal, tanto più che il principale gruppo parlamentare in termini numerici, quello del Ppe, alla vigilia aveva annunciato voto contrario.

DECISIVA IN AULA è quindi risultata la spaccatura sia all’interno del Ppe che in Renew Europe, il raggruppamento centrista e liberale. Nel primo caso, a votare a favore della legge nella versione concordata nel Trilogo è stata una piccola ma significativa pattuglia di 25 europarlamentari popolari (su un totale di oltre 170).

Nel secondo caso i liberali si sono divisi in due terzi a favore e un terzo contro: una sessantina di voti assolutamente decisivi per l’approvazione. Piccolo caso, quello degli italiani di Renew: Nicola Danti (in quota Italia Viva) si esprime a favore, l’ex M5S Fabio Massimo Castaldo, da poco passato ad Azione di Calenda, vota invece contro.

COMPRENSIBILE la soddisfazione del socialista Cesar Luena, relatore del provvedimento per l’Eurocamera. La normativa, che prevede la necessità di ripristinare il buono stato di salute di almeno il 20% degli ecosistemi terrestri e marini degradati entro il 2030 e tutti gli habitat entro il 2050, «è il completamento del Green deal, che oltre alla lotta al cambiamento climatico prevede la difesa della biodiversità». Accusando i popolari di slealtà, per aver cambiato posizione, l’eurodeputato sottolinea: «È un provvedimento moderato, che introduce un freno di emergenza e ha tra i suoi cardini la sicurezza alimentare». E ricorda come esso preveda una «revisione nel 2033» alla luce delle conseguenze che la legge avrà generato sul mondo agricolo.

NETTA LA REAZIONE della destra, che prima del voto decisivo aveva proposto due provvedimenti diversi – uno avanzato da Ecr l’altro da Id, entrambi respinti dall’aula – di affossare completamente la legge. «È l’impostazione cardine di quell’approccio ideologico e di quel percorso che va fermato, perché ha messo in ginocchio il nostro sistema produttivo» reagisce il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Se FdI esprime «sgomento» per l’approvazione, la Lega parla di «attacco al mondo agricolo» e Confagricoltura lancia l’allarme: «Verrà messo a rischio il potenziale produttivo del settore».

Per Ettore Prandini (Coldiretti) l’effetto sarà quello di «diminuire la produzione e appesantire la burocrazia». Di segno opposto la prospettiva dalle associazioni ecologiste: «Garantirà un futuro più sicuro per i cittadini europei» secondo Wwf, che suggerisce inoltre all’Italia di «cambiare rotta», mentre la Lipu parla di «traguardo storico assieme alla direttiva Uccelli e habitat».

RESPINTO L’ASSALTO delle destre, sul Ripristino della natura restano però diverse ombre. La prima riguarda l’iter del provvedimento, che per diventare legge ed essere trascritto negli ordinamenti nazionali entro due anni richiede ancora l’approvazione del Consiglio. Un sì non scontato, come ha dimostra il recente caso della normativa a tutela dei lavoratori delle piattaforme digitali, o “direttiva rider”, bloccata dal Consiglio. E poi c’è la contraddizione in cui si dibattono i legislatori europei: il Parlamento invita ad andare avanti con il Green deal il giorno dopo che i ministri dell’agricoltura dei 27, sotto pressione per l’assedio trattori, mettono in agenda la riforma della politica agricola comune. E mentre Von der Leyen annuncia ogni giorno un passo indietro: dai prodotti fitosanitari al motore elettrico, il cui obbligo, fissato al 2035, potrebbe saltare.

IN CHE DIREZIONE VA L’UE, questo voto dell’Eurocamera non lo chiarifica affatto. Rivela al contrario una sempre maggior polarizzazione tra sostenitori e detrattori della transizione ecologica

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INTERVISTA. L’ex sindaco in lista da indipendente con Alleanza verdi sinistra: il mio obiettivo è far rivivere in Europa il villaggio globale di Riace

Mimmo Lucano foto di Salvatore Cavalli/Ap Photo Mimmo Lucano - foto di Salvatore Cavalli/Ap Photo

La pioggia battente che per 48 ore ha flagellato la costa jonica ha impedito a Mimmo Lucano di partecipare alla fiaccolata di Steccato in ricordo delle 94 vittime del naufragio. Ieri la «compagneria» del Villaggio Globale di Riace ha organizzato un presidio di commemorazione. Nella piazza multietnica Lucano ha anche sciolto il nodo sulla candidatura alle Europee dell’8 e 9 giugno.

Allora, Lucano cosa ha deciso di fare?
Ho deciso di accettare la candidatura da indipendente che mi è stata offerta da Alleanza Verdi Sinistra. Una decisione che mi ha fatto molto riflettere. Abbiamo tenuto qui a Riace, anche sull’onda del dibattito ospitato dal manifesto, due partecipate assemblee pubbliche con tutta la sinistra: da Unione popolare a SI fino a Michele Santoro. Io ho lavorato in questi mesi all’unità delle forze a sinistra del Pd. Una unione che prescindesse dal momento elettorale di giugno. Riace è stata in 20 anni, con la sua idea di sviluppo multietnico, di gestione pubblica dei beni comuni, di impegno costante per la pace e contro ogni guerra, un’isola utopica di tutta la sinistra. Il 29 ottobre quando abbiamo festeggiato in piazza la mia assoluzione c’era anche una rappresentante della segreteria nazionale del Pd (Marta Bonafoni, ndr). Ecco, io ho scelto di candidarmi alle Europee nel solco di questo “villaggio globale” riacese, un luogo e una idea che non devono spegnersi. La destra ci ha provato a spegnerli. Il teorema immigrazione uguale repressione noi a Riace l’abbiamo sconfitto. Abbiamo costruito un borgo multietnico, rispettando l’identità di questi luoghi. E l’abbiamo fatto insieme. Senza distinzioni di simboli o etichette. La fine della mia odissea giudiziaria mi ha ridato entusiasmo.

L’avevano cercata anche Unione Popolare e Santoro. Persino il Pd.
È vero ma alla fine ho accettato la candidatura di Avs. Il mio spirito unitario però non è scalfito. Io mi candido da indipendente. Si tratta di una candidatura di servizio all’unità della sinistra. Perché abbiamo tutti una identità comune. Io delle sfumature mi sono stancato. Dobbiamo mettere a valore ciò che ci unisce senza pensare ai simboli che magari ci dividono. Scendo in prima linea in questa ottica unitaria, come ponte tra le varie anime. Ma ci tengo a precisare che io non sono niente. Sono uno zero proprio come mi ha definito Salvini, che ringrazio per la definizione. Infatti non ho organizzazione, non ho tessere, non ho strutture, sono un outsider. Ma mi batto per i più deboli, per tutti gli “zeri” del mondo. Il mio orizzonte è unire gli invisibili, i senza voce.

Ma il sistema elettorale prevede uno sbarramento al 4%. Avs alle politiche ha preso il 3,5%. Nelle assemblee che lei ha citato molti lo hanno messo in guardia per il quorum. Teme di non farcela?
Ne sono consapevole. Ma le battaglie difficili mi hanno sempre stimolato. Io ho l’obiettivo di far vivere in tutta Europa il “villaggio globale” di Riace. Luigi Manconi e Giuliano Pisapia, due personalità a cui sono molto legato, mi avevano consigliato di candidarmi con il Pd. Ma io sono legato a un’altra storia. Io vengo da Democrazia Proletaria. Anche se il nuovo corso di Schlein mi fa sperare che il partito di Minniti sia solo un brutto ricordo.

L’anno scorso la mattina del 26 febbraio lei era a Riace ad attendere centinaia di sostenitori per un’assemblea nazionale in solidarietà alla sua vicenda giudiziaria. Appresa la notizia della strage lei annullò l’evento e vi recaste sulla spiaggia di Steccato a deporre i fiori. Fu il primo politico ad arrivare. Che ricordo ha?
Un ricordo straziante. Sono stato a Crotone la settimana scorsa per un evento organizzato da Arci, Anpi, Cgil e movimenti sociali e mi fa tanta rabbia pensare che si sarebbero potuti salvare. Ho ascoltato le voci dei familiari e dei superstiti. Le loro erano grida di paura. Hanno lottato da eroi contro i flutti marini. E questi sarebbero gli “invasori”? Sono piuttosto le vittime del neoliberismo e della disumanità. Non mi meraviglia che il governo sia stato assente in Calabria in questi giorni. Ma devo riconoscere che perlomeno non sono ipocriti. Al governo Meloni gli immigrati danno proprio fastidio. D’altronde l’anno scorso facevano il karaoke. La politica dovrebbe essere umanità, empatia, dovrebbe lenire le sofferenze. Loro non ci pensano affatto.

In Sardegna ieri intanto hanno perso. Che giudizio dà di questa battuta d’arresto?
L’isola lancia un messaggio di speranza a tutta l’Italia. I sardi e gli studenti di Pisa e Firenze manganellati dai celerini dimostrano che l’indifferenza e la rassegnazione si possono battere. Che l’arroganza del potere si può fermare. Le immagini di quei manganelli contro persone inermi mi hanno riportato a Genova 2001. Bisogna unirsi anche per arrestare questa deriva autoritaria

 

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IL GESTO ESTREMO. Il soldato dell'aeronautica è arrivato davanti all’ambasciata israeliana senza destare sospetti con la divisa militare Usa, si è messo il berretto d’ordinanza, e dalla borraccia che teneva in mano si è cosparso il corpo di liquido infiammabile
Aaron Bushnell, un soldato americano, si dà fuoco fuori dall'ambasciata israeliana a Washington Aaron Bushnell, un soldato americano, si dà fuoco fuori dall'ambasciata israeliana a Washington - Getty Images

Aaron Bushnell aveva 25 anni. Era un soldato dell’aeronautica Usa. E proprio nelle stesse ore in cui i suoi commilitoni sono impegnati ad agganciare bombe ai jet che decollano dalle portaerei per bombardare qui e là, gli Houthi in Yemen, i pasdaran in Siria e i sunniti in Iraq – mobilitati in armi per ridurre la “pressione” israeliana che fa strage a Gaza -, ha portato a termine un gesto così eclatante e fuori da ogni codice amico/nemico che subito si cerca di silenziarlo o ridimensionarlo a «fattore psichico» – certo, volere la Palestina libera è cosa da pazzi.

Non è la prima volta che accade, un giovane americano si era già dato fuoco nel 1991 contro la guerra in Iraq e a dicembre 2023 un altro aveva fatto lo stesso ad Atlanta. Ma Aaron si è messo la divisa militare e così è andato verso l’ambasciata israeliana a Washington annunciando sui social l’intenzione di «non volere essere più complice del genocidio» e di essere pronto ad una «estrema protesta che – ha detto – se si guarda alle sofferenze della gente di Gaza per mano dei suoi colonizzatori è tutt’altro che estrema».

Poi è arrivato davanti all’ambasciata senza destare sospetti con la divisa militare Usa, si è messo il berretto d’ordinanza come fosse in parata, e dalla borraccia che teneva in mano si è cosparso il corpo di liquido infiammabile. Infine ha tirato fuori l’immancabile Zippo – quante volte nei film americani abbiamo visto questo gesto routinario, quasi un tic, associato alla normalità «gloriosa» della guerra? – ha rollato la pietra focaia. E, mentre un agente gli puntava una inutile pistola contro, si è dato fuoco gridando ripetutamente finché non è morto: «Free Palestina». Come i monaci buddisti di Saigon, a fine anni Sessanta contro la guerra Usa in Vietnam, come Jan Palach contro la normalizzazione della Primavera di Praga.

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Dovremmo, come allora, gridare le parole che invocò il poeta Jaroslav Seifert «Voi che siete risoluti a morire, fermatevi…». Perché ci deve essere un altro modo per fermare il massacro a Gaza. Ma quale? Aaron con il suo coraggio estremo manda un messaggio diretto all’Amministrazione Biden che mette il veto all’Onu per un cessate i fuoco; che nega l’evidenza del «plausibile genocidio» con cui la Corte dell’Aja manda alla sbarra Israele come imputato; che dissimula perfino la verità sui territori occupati palestinesi; che sospende gli aiuti all’Unrwa-Onu l’unico organismo che soccorre i palestinesi da 75 anni; e che, con il codazzo servile anche dell’Italia, avvia una nuova guerra, in Yemen, senza vedere che quel conflitto nasce per reazione alla strage in corso a Gaza. Dovrebbe finire quella non accenderne un’altra.

Ci rendiamo conto che siamofuori dal «giornalismo corrente», quello che le notizie vere le nasconde, perché ora tutti ci dicono che c’è l’accordo Hamas-Israele, così tanto per accontentare la diplomazia dei vincitori, quella che ha lasciato fare a Netanyahu l’impari massacro di vendetta per la strage del 7 ottobre. Aaron non si è fidato degli annunci, sapeva di certo che, vista la disparità delle forze e le devastazioni indiscriminate della Striscia, la litania di morti civili non finirà purtroppo con le finte strette di mano dei potenti.

Così ha voluto inscrivere la sua giovane vita, il suo corpo straziato nello Spoon River delle migliaia di civili palestinesi uccisi, finiti nelle fosse comuni. Che lezione anche per i governanti – e non solo – di questo nostro, piccolo ex Belpaese che reprime chi scende in piazza e grida «Free Palestina»

 
 
 
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VERSO LE ELEZIONI EUROPEE. La campagna elettorale delle destre punta su quell’interclassismo ostile alla transizione ecologica. Redistribuirne diversamente i costi e gli oneri è quindi una delle condizioni principali per arrestare il dilagare dell’onda nera in Europa

Cosa c’è dietro l’invenzione  dell’“ideologia verde” Protesta degli agricoltori a Madrid - Ap

“Ideologica” è un insulto riservato alla sinistra e a quell’Unione europea che, incredibilmente, si ritiene ne sia tenuta in ostaggio. Designa, nel lessico politico corrente che va poco per il sottile, una posizione politica “intellettualistica”, slegata dalla realtà e determinata ad imporre arbitrariamente convinzioni campate in aria o decisamente smentite dall’esperienza. La destra invece non si attribuisce ideologia ma “valori” il cui rapporto con la contemporaneità e la vita concreta delle persone non permette nemmeno di essere interrogato, tanto queste qualità eterne si ritengono connaturate a ogni forma “civile” di umanità.

Come si potrebbe definire “ideologica” l’intenzione, per nulla astratta, di procedere alla limitazione dell’uso di pesticidi quasi certamente cancerogeni se non a partire da questa nebbia della ragione e da queste impudenti mistificazioni?

Delle politiche agricole dell’Unione europea tutto si può dire: che siano sbagliate e inique, che favoriscano la grande proprietà e le concentrazioni, che si preoccupino soprattutto dei profitti dell’industria agroalimentare, che non pongano argine ai ricatti delle grandi catene di distribuzione, che stabiliscano assurdi standard per i prodotti agricoli in ossequio non alla qualità e alla salute, ma al marketing delle forme e dei colori dei produttori più chimicamente sostenuti. Tutto questo si può e si deve dire, ma certo non che si tratti di “ideologia”.

Questa connotazione, tuttavia, viene messa in campo non per ignoranza o approssimazione, bensì per una ragione ben precisa. Si tratta di ostacolare con ogni mezzo la transizione ecologica (che non può essere respinta esplicitamente fino in fondo) sottolineandone il carattere di forzatura arbitraria che non tiene conto delle condizioni reali, che procede a drammatizzazioni strumentali contro gli interessi e le abitudini, nobilitate in tradizioni, dei cittadini europei.

L’invenzione di una “ideologia verde” che minaccerebbe il benessere di tutti maschera malamente i grandi interessi economici, di pochi e certo non dei coltivatori in difficoltà, che remano contro il Green deal per conservare il più a lungo possibile le loro privilegiate posizioni di mercato.

La campagna elettorale delle destre in vista delle imminenti elezioni europee punta le sue carte migliori su quell’interclassismo ostile alla transizione ecologica che accomuna la grande industria chimica, meccanica e agroalimentare allo squattrinato possessore di una vecchia auto o di un trattore d’altri tempi, al piccolo coltivatore che tira avanti a pesticidi e sfruttamento di ogni metro quadrato di terra. Rompere questo interclassismo, redistribuendo diversamente i costi e gli oneri della transizione verde, è una delle condizioni principali per arrestare il dilagare dell’onda nera in Europa.

Ma è una impresa quasi impossibile senza metter mano alla dottrina neoliberale che governa dogmaticamente la vita dell’Unione europea con quell’“ideologia” della concorrenza che sfocia inevitabilmente nelle grandi concentrazioni. E che porta così acqua al mulino delle illusioni nazionali e, in conseguenza, al prevedibile successo elettorale delle destre in Europa.

Tra queste illusioni (valori, per carità, non ideologia) un posto d’onore spetta alla “sovranità alimentare”, titolo di cui si fregia il vecchio, tristemente sobrio ministero dell’agricoltura. Cosa mai possa significare questo potere regale in una stretta, montagnosa penisola con 60 milioni di abitanti se non una spudorata presa in giro è ozioso domandarselo. Roma campava delle province dell’impero, ma al duce, ahimè, è andata male.

La sovranità alimentare o è imperiale o non è. Dunque il problema è semmai come posizionarsi, con un oculato equilibrio tra alti standard qualitativi delle colture locali e decenti partner internazionali, nella globalizzazione agroalimentare.

Ma se proprio vogliamo andare fino in fondo per capire davvero cosa significhi “ideologia” nella sua più miserabile accezione allora non c’è nulla di meglio della tragicomica epopea del liceo del “made in Italy”. Già i puristi del ventennio non avrebbero apprezzato che la quint’essenza dell’italianità non potesse essere nominata che nella lingua della perfida Albione.

L’apprezzamento degli italiani contemporanei è stato se possibile ancor più negativo mandando di fatto deserto un fumoso corso di studi pompato all’inverosimile, fondato sulla più vacua retorica e sull’eterna fata Morgana del rapporto tra scuola e aziende. Il mercato è una ideologia totalizzante e a suo modo rigorosa: nelle sue scelte non lascia spazio alle fantasticherie di mediocrità ministeriali che ne ricercano vanamente il favore. Tentazione della quale la sinistra non è mai stata indenne, soprattutto nel campo della scuola, collezionando fallimenti mai davvero riconosciuti.

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MEDIO ORIENTE. L’Unrwa non riesce a far arrivare gli aiuti, «la gente affamata li assalta prima». In poche ore stragi a Deir al-Balah e Rafah. Più vicino l’accordo tra Tel Aviv e Hamas: il movimento islamico rinuncia ad alcune richieste, bozza di intesa sul tavolo di Netanyahu

I soccorritori nella casa della famiglia Shaheen a Rafah (foto Ap/Hatem Ali) Ap/Hatem Ali

«Cosa vorrei? Una shawarma. E il kebab». Sorride Ali mentre mostra al cameraman di Al Quds News quello che stringe nel pugno: mangime per polli. Ali ha 10 anni, le immagini arrivano dal nord di Gaza. Accanto, un uomo scalda sul fuoco del mangime fino a farne una polpetta arancione.

Ali dice che è stanco di nutrirsi di mangime, gli fa venire mal di pancia e bruciore alla gola. Le agenzie umanitarie lo denunciano da settimane, a Gaza nord la fame è una cappa che non si dirada mai: per dimenticarsela appena per qualche ora si mangiano foglie, erbacce, mangime per gli animali.

POCHI CAMION umanitari varcano il confine del centro di Gaza, immaginario ma ormai reale come le pallottole sparate dai cecchini israeliani contro chi quei camion li insegue. Se non sono i cecchini, sono le navi da guerra a sparargli contro, facendo esplodere tonnellate di farina. I bambini accorrono lo stesso, si infilano in tasca manciate di farina sporca.

Peggiorerà: ieri l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ha messo in pausa le consegne verso il nord perché Israele non concede permessi di transito e perché «il comportamento disperato delle persone affamate ed esauste impedisce il passaggio sicuro e regolare dei nostri camion», ha detto la funzionaria Tamara Alrifai. Li assaltano.

Gli Stati uniti sono molto irritati con Tel Aviv, scrive Axios, per cui hanno chiesto a Israele di smetterla di prendere di mira gli aiuti umanitari. Soprattutto a poche ore dalla scadenza dei 30 giorni che la Corte internazionale di Giustizia aveva dato a Tel Aviv per conformarsi alle misure provvisorie prese il 26 gennaio scorso per evitare atti genocidiari.

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Secondo l’israeliano Ynet News, Tel Aviv invierà una notifica formale all’Aja lunedì, in cui dettaglierà i modi in cui avrebbe rispettato le richieste del più alto tribunale del pianeta. In realtà non ne ha ottemperata nessuna. Ogni giorno è un crimine, in termini di aiuti fantasma, incitamento al genocidio e massacri (almeno 29.600 uccisi dal 7 ottobre, di cui 5mila negli ultimi 30 giorni).

L’operazione terrestre su Rafah non è partita, ma quella dal cielo basta e avanza. Come ieri: per mezz’ora le bombe sono piovute sulla città-rifugio del sud, mezz’ora è un tempo infinito quando il cielo erutta morte. E la morte si scarica a terra: decine gli uccisi, nei video si vedono i soccorritori, civili, che provano a rimuovere macerie a mani nude, uno sforzo inutile.

SONO STATI colpiti un mercato e due edifici residenziali, ospitavano sfollati. «Sembrava un terremoto – racconta il corrispondente di al Jazeera Hani Mahmoud – È scoppiato un incendio. Le macchine sono state incenerite, due delle vittime non si riescono a riconoscere, sono bruciate».

Qualche ora prima, di notte, era stata la città centrale di Deir al-Balah a vedersi piovere addosso i raid. L’aviazione israeliana ha centrato alcune abitazioni, tra cui quella della famiglia del comico gazawi Mahmoud Abu Zaeiter. Oltre venti gli uccisi, tra cui 14 bambini. Uno aveva quattro mesi, tanti quanti la guerra, si chiamava Yasser al-Dalu: «Abbiamo lottato tanto per averlo, ci abbiamo provato per otto anni», dice la madre Noor in lacrime alla Reuters.

E poi ci sono i morti e i feriti degli altri edifici, vivevano in 150 nelle case colpite. «Non siamo equipaggiati a ricevere un così alto numero di vittime», ripete il dottor Khalil al-Degran dell’Al-Aqsa Hospital, mentre intorno corpi vivi e corpi morti giacciono sui pavimenti. «Abbiamo raccolto pezzi di cadaveri di donne e bambini, giuro su dio erano donne e bambini. Che hanno fatto queste ragazzine per essere smembrate così da Israele?», dice un soccorritore.

L’eco della frustrazione collettiva rimbomba dentro gli uffici delle Nazioni unite che negli ultimi due giorni sono tornate ad alzare la voce come mai fatto negli anni passati. Il Consiglio Onu per i diritti umani, con il commissario Turk, ha chiesto una verifica della situazione dei diritti umani nei Territori occupati perché «l’impunità consolidata registrata per decenni non può continuare. Le parti devono rispondere delle violazioni commesse in 56 anni di occupazione e in 16 di assedio di Gaza».

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PAROLE che arrivano a poche ore dal comunicato firmato dagli esperti e i relatori speciali Onu che hanno fatto appello alla comunità internazionale perché imponga l’embargo militare su Israele: basta vendergli armi.

Il ministro degli esteri Israel Katz ha risposto con una foto posticcia su X, degna del peggior Photoshop: il segretario Onu Guterres tra l’iraniano Raisi e il siriano Assad, sotto la scritta «Human Rights Council».

Una minuscola luce arriva da Parigi. La stampa israeliana parlava ieri di «progressi significativi» nel negoziato tra Israele ed Hamas. Nella capitale francese ci sono tutti, le delegazioni statunitense, qatarina, egiziana e israeliana, guidata dal capo del Mossad, David Barnena, che nella serata di ieri avrebbe dovuto mettere sulla scrivania del premier Netanyahu la bozza di accordo. Attesa anche la reazione di Hamas, che avrebbe rinunciato ad alcune richieste.

Fonti diplomatiche hanno riportato ad Haaretz di una buona flessibilità delle parti, «l’accordo può essere raggiunto prima del Ramadan», il prossimo 10 marzo. Sei settimane di tregua, 40 ostaggi israeliani da rilasciare  insieme a centinaia di prigionieri palestinesi. I dettagli sono fumosi, l’ottimismo di meno. Chissà se basterà.

Ieri a Tel Aviv, Cesarea e Haifa a migliaia hanno marciato per chiedere le dimissioni di Netanyahu. A Tel Aviv protesta dispersa con i cannoni ad acqua: era illegale, dice la polizia

 

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CRISI UCRAINA. Pensioni basse, lavoro che non c’è: spostarsi nelle grandi città per molti è una chimera. «Il governo ucraino non ha mai prestato attenzione a noi qui nell’est. Le pensioni, il lavoro...dico solo che ci siamo sentiti abbandonati per anni»

I funerali di un soldato ucraino ucciso nel Donbass foto Ap I funerali di un soldato ucraino ucciso nel Donbass - Ap/Evgeniy Maloletka

Ma perché dopo due anni di guerra i civili rimasti nel Donbass non se ne vanno? Il pensiero si sofferma sempre su questa domanda scontata quando vedi gli anziani che trascinano a fatica i carrellini carichi di acqua o provviste sulle strade dissestate dei paesini a ridosso del fronte.

«Sono separatisti, aspettano i russi», rispondono generalmente i soldati. Dopo averne conosciuti decine pensi di averci capito qualcosa: sono solo persone legate alla propria casa, alla propria terra, alle abitudini (che a volte includono la nostalgia dell’Urss, in effetti); non riescono neanche a immaginarsi altrove.

Negli ultimi giorni abbiamo constatato che la stanchezza della guerra è riuscita a vincere anche loro, solo che c’è un altro ostacolo insormontabile: la pensione non basta.

OGGI INIZIA il terzo anno di guerra e osservando attentamente il contesto dell’Ucraina orientale è lampante che il prolungarsi del conflitto ha creato una separazione netta tra chi può permettersi di resistere e chi non può. Non è una questione di coraggio o di volontà ma di disponibilità economica. Anche se non è tutto uguale qui a Siversk.

Elena, che si era affaticata fino al 5° piano di un palazzo abbandonato per mostrarci la sua «porta sul cielo», ovvero il suo appartamento sventrato da un missile russo, se n’è andata. Olga, che friggeva piroshki buonissimi in una padella vecchia quasi quanto lei, pure.

Il vecchio Ivàn che ammucchiava legna dagli arredi dei negozi bombardati e poi la tagliava minuziosamente, per tutto il giorno salvando dal gelo notturno le sue vicine, non si vede.

«Si sono fatti evacuare», spiega un altro anziano che stoico si scalda un po’ al sole su una panchina fuori da un rifugio. «Pavlograd, Dnipro, Kiev… non so di preciso». E lui? «Dove dovrei andare, a fare cosa, chi mi ci porta?». «Ma il governo ucraino non ha un piano di assistenza per chi viene evacuato dalle zone di guerra?». L’uomo si lascia andare un gesto di stizza: «Una volta forse, ora non ci sono più soldi, con la pensione come faccio a vivere altrove?».

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IL VECCHIO rifugio di Olga ed Elena è diventato «casa sicura» dei militari di stanza in città. Il comandante, un graduato con due stellette, non tollera la nostra intrusione e non serve spiegargli che conosciamo delle persone qui, requisisce i documenti e si allontana per i controlli.

«Ma vi rendete conto – riprende – che il 90% degli attacchi russi sulle nostre posizioni vengono calibrati sulle informazioni che l’intelligence nemica prende da fonti open source (di pubblico accesso su internet, ndr) proprio dalle immagini e dai video che voi giornalisti pubblicate?».

La percentuale sembra un po’ alta, comunque proviamo a spiegargli che siamo interessati solo ai civili. Lui si arrabbia ancora di più e si lancia in un lungo rimprovero. Un attendente armato con il kalashnikov in pugno è alle sue spalle, intorno i militari sono indaffarati. Dopo la ramanzina ci lascia andare e raccomanda di non stargli tra i piedi, ha cose più importanti a cui pensare.

Incontriamo Maria, minuta e raggrinzita ma con gli occhi svegli di un azzurro tagliente. «Con l’aiuto di Dio supereremo anche questa» e si fa il segno della croce. Maria era un’insegnante all’asilo comunale. «I miei bambini mi chiamano ancora, dalla Germania, la Polonia, l’Italia, sono sparsi in tutta Europa ma si ricordano della loro vecchia maestra», racconta allegra.

Lei ha un motivo pratico per non andarsene, che in realtà vale per tutti qui, «la mia pensione è di 2.300 grivnia al mese (poco più di 50 euro, ndr), dove potrei sopravvivere con questa cifra?». «Ma – riprende subito a scanso di equivoci – non mi voglio lamentare, gloria a Dio che ci ha mantenuti vivi e sarà ciò che Egli vorrà».

«SE ARRIVASSERO i russi resterebbe?», le chiediamo. «Io voglio solo la pace, al più presto possibile, la pace per tutti. Questa guerra ci sta rovinando, troppi sono morti».

I soldati ucraini si comportano bene con lei? «Sì, sono bravi ragazzi, ma ti dico una cosa: fin dall’indipendenza il governo ucraino non ha mai prestato abbastanza attenzione a noi qui nell’est. Le pensioni, le condizioni di lavoro… molti problemi sono nati anche da questo. Non ce l’ho con nessuno, dico solo che ci siamo sentiti abbandonati per molti anni». Prima di lasciarci andare ci rimprovera bonariamente di frequentare luoghi troppo pericolosi e ci dà la sua benedizione.

«Dove dovrei andare?», è la risposta che ci danno anche altre signore in attesa davanti a una distribuzione di aiuti umanitari. Anche loro percepiscono 2.300 grivnia di pensione «e lo sai quanto costa un kg di salsicce di bassa qualità? 230 grivnia! Come lo pago l’affitto, la spesa, le medicine?».

Nel rigido inverno dell’est, dovunque ti volti, sulle facce di chi si trova tra i due eserciti leggi che nulla è cambiato dalla notte dei tempi: la guerra la iniziano i ricchi ma sono i poveri a pagarne le conseguenze

 

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