REGIONALI. Oggi urne aperte dalle 7 alle 23. Per la premier è un voto di fiducia dopo il primo anno e mezzo al governo. L’impresa possibile dell’ex rettore Luciano D’Amico alla guida di un campo larghissimo. La destra arriva all'appuntamento nervosa e col fiato corto, ma ha nelle sue liste i ras delle preferenze
l candidato in Abruzzo Luciano D'Amico con Elly Schlein
Per Giorgia Meloni l’appuntamento di oggi in Abruzzo è un voto di fiducia. A concederla, o negarla, non saranno 600 parlamentari, ma circa 1,2 milioni di elettori potenziali, di cui solo 6-700 mila andranno probabilmente alle urne. Un test piccolo in termini numerici, ma molto robusto politicamente: questa è la prima regione che nel 2019 è stata governata da un uomo di Fdi, il fedelissimo Marco Marsilio, la premier nel 2022 ha scelto il collegio de L’Aquila per farsi eleggere in Parlamento.
Perdere qui sarebbe molto peggio che in Sardegna, uno schiaffo, tanto che un altro pretoriano, il ministro dei Rapporti col Parlamento Luca Ciriani si è già affrettato a giurare che il governo non cadrà. Probabilmente ha ragione, e del resto i governi, salvo eccezioni, non cadono per una sconfitta locale, ma quando perdono la maggioranza parlamentare.
QUELLO CHE POTREBBE CADERE, e forse è già caduto, è l’incantesimo di Giorgia, l’underdog post-missina arrivata a palazzo Chigi soprattutto grazie alle sciagurate divisioni nel campo democratico alle ultime politiche. Le scene da basso impero che abbiamo raccontato in quest’ultima settimana, ministri che arrivano in carovana a promettere la luna (Sangiuliano è venuto venerdì a L’Aquila con 200 milioni in tasca, novello Achille Lauro), la premier che lancia avvertimenti agli imprenditori sugli «effetti devastanti» di una cacciata del suo governatore, la giunta regionale che vara provvedimenti assai poco urgenti a due giorni dal voto per 100 milioni sonanti (come il ripascimento dei litorali, cosa buona ma che poteva essere fatta nei 5 anni di governo) sono segnali di grande debolezza.
Così come il fatto che Marsilio dedica quasi tutti i suoi comizi a denigrare gli avversari piuttosto che a parlare dei propri risultati (che sono scadenti). Di solito, quando chi credeva di avere la vittoria in tasca arriva al voto col fiato così corto va incontro a una delusione. Ma attenzione: anche a sinistra ammettono che nelle liste delle destre ci sono i campioni delle preferenze, quelli che portano i voti veri, e senza voto disgiunto (il Pd non lo ha reintrodotto quando ha varato la nuova legge regionale nel 2018, potrebbe essere un errore fatale) Marsilio potrebbe salvarsi con il soccorso nero. Oltre che con le mancette che, in ogni caso, toccano interessi reali e portano consensi.
IL CENTROSINISTRA QUESTA volta non ha sbagliato praticamente, e già è una notizia. Ha azzeccato il candidato oltre sei mesi prima del voto, il professore gentile Luciano D’Amico che, di piazza in piazza, ha tentato di riattivare tra i suoi corregionali una speranza di futuro, dicendo cose di sinistra come sanità pubblica e lavoro non precario con i toni giusti. Se dovesse farcela diventerebbe un eroe nazionale, ma in ogni caso la sua parte l’ha fatta.
I leader nazionali, da Schlein a Conte, non si sono risparmiati, girando per decine di piccoli paesi con o senza il candidato: il palco tutti insieme non c’era stato neppure a Cagliari, eppure è andata bene. Anche qui ognuno (compresi gli inusualmente mansueti Calenda e Renzi) ha parlato al proprio segmento di elettorato, e forse è più onesto così che un’ammucchiata di plastica a favore di telecamere che alle destre già ha portato sfortuna in Sardegna.
D’AMICO E I SUOI PARTITI un successo l’hanno già ottenuto: dimostrare che si può far paura a questa destra senza insultare nessuno. Con un programma nettamente di sinistra ha spazzato via tutta la paccottiglia sul lavoro flessibile e precario che tanto male ha fatto al Pd, ribadendo cose semplici: e cioè che se si vuole trattenere i giovani nella loro terra servono un lavoro sicuro, ben pagato e servizi sociali adeguati. E poi netto antifascismo (cita sempre la Brigata Majella), trasporto pubblico locale gratuito perché «a utilizzarlo sono le fasce più deboli della popolazione».
Ha lanciato anche una legge regionale per tutelare tutti i tipi di famiglia, e tra i centristi non è volata neppure una mosca. E ha anche fatto capire che, se governerà, anche il centrosinistra metterà da parte clientele, mancette e altre pratiche da vecchia Dc che non sono mai morte. Ecco, appunto: si può fare. «Comunque vada sarà un successo», diceva Chiambretti in un vecchio Sanremo degli anni 90, e stavolta è proprio vero.
I rapporti tra Conte e Schlein, pur con percorsi separati dall’Adriatico alle montagne della Marsica, si sono tonificati, al punto che il leader 5s parla esplicitamente della necessità di una coalizione nazionale, e dice persino: «Non sarò io a dettare le regole».
A DESTRA HANNO CHIUSO venerdì sera col grido del ministro-giornalista Sangiuliano: «Questa regione non può tornare nelle mani dei comunisti e delle terrazze della gauche caviar». Anche lui, come l’amico Marsilio, deve aver lasciato la testa a Roma, visto che in Abruzzo di terrazze radical chic se ne vedono ben poche. Le sue parole rivelano la rabbia di chi si considera proprietario di una colonia e teme che qualche impostore gliela porti via. L’esatto opposto di D’Amico che si è posto come primus inter pares, proponendo ai suoi concittadini un progetto di sviluppo con una certa dose di empatia verso problemi che, a contatto con migliaia di giovani quando era rettore a Teramo, ha conosciuto bene.
L’ABRUZZO, COME LA SARDEGNA, è anche una prova di forza interna alle destre: a Cagliari Meloni aveva decapitato il governatore di Salvini e si è visto com’è andata. Qui gli ha scippato diversi assessori, compresa la potente titolare della Sanità Nicoletta Verì, che ha fatto il salto poche settimane fa lasciando il leghista in brache di tela, a rischio di scendere sotto la soglia psicologica del 4%.
Queste elezioni potrebbero chiudere, una volta per tutte, il sogno di una Lega nazionale, proprio in una delle terre sotto il Po dove il Carroccio si era più radicato (5 anni fa era il primo partito col 27,5%). Se accadesse, anche il leader che da oltre 10 anni incarna quel progetto nazionalista potrebbe capire di essere arrivato all’ultimo miglio della sua segreteria.A Meloni finora l’umiliazione degli alleati non ha portato bene. Forse l’atteggiamento da marchesa del Grillo si rivelerà il suo principale tallone d’Achille