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I naufraghi sono originari del Bangladesh, dell’Egitto e dell’Eritrea

Sono 71 le persone a bordo della Life Support, la nave soccorso di Emergency attesa a Porto Corsini giovedì prossimo 21 marzo, alla banchina del Terminal Crociere.

volontari lifesupport emergency

I naufraghi erano partiti dalla città libica di Tajura, a una dozzina di chilometri da Tripoli, la sera di venerdì 15 marzo. I naufraghi, di età compresa tra i 18 e i 43 anni, sono originari del Bangladesh (61), dell’Egitto (1) e dell’Eritrea (9), paesi colpiti da instabilità politica ed economica e povertà. Tra loro ci sono una donna e tre minori, di cui due non accompagnati.

 

“70 uomini e 1 donna, di cui 3 minori sono stati salvati, nella serata del 16 marzo, dopo aver navigato per 24 ore su un’imbarcazione di legno con motore non funzionante, pericolosamente sbilanciata da un lato –  ha spiegato Domenico Pugliese, comandante della Life Support di Emergency -. La barca era a circa 30 miglia da noi, nella zona SAR maltese, ma a causa dell’oscurità ( il salvataggio è avvenuto di notte) ci sono volute circa tre ore per localizzarla e raggiungerla”.

“Non appena abbiamo avvistato l’imbarcazione abbiamo subito messo in acqua il gommone con il team di soccorritori, abbiamo stabilizzato con i giubbotti salvagente, e messo in sicurezza i naufraghi” ha raccontato Jonathan Naní La Terra, SAR Team Leader.

“Ora ci stiamo prendendo cura di loro dal punto di vista sanitario – ha commentato Paola Tagliabue, dottoressa a bordo della Life Support -. Al momento non ci sono urgenze mediche; abbiamo già individuato dei casi di disidratazione e persone con lesioni cutanee”

“Ci dirigiamo verso Ravenna, il porto assegnato. Un porto molto lontano che obbliga persone già provate a trascorrere altri giorni in mare, anziché essere sbarcate il prima possibile” prosegue Naní La Terra.

“Al momento le condizioni meteo non sono favorevoli e i naufraghi stanno soffrendo di mal di mare. Ci vorranno 4 giorni di navigazione prima di arrivare al porto di Ravenna – hanno dichiarato ieri pomeriggio dalla nave della Ong -. L’assegnazione di un porto così lontano significa farci navigare a lungo, perdendo del tempo inutilmente, e impedendoci di intervenire, portando soccorso, in caso di altre emergenze in mare”.

Nel pomeriggio di oggi, 18 marzo, il Prefetto di Ravenna Castrese De Rosa ha convocato d’intesa con il Sindaco De Pascale una prima riunione di coordinamento con tutti gli Enti coinvolti (Croce Rossa Italiana, Servizi sociali del Comune,  Ausl, Operatori sanitari ,118, Forze dell’Ordine, Capitaneria di Porto, Vigili del Fuoco, Polizia Locale e Caritas)  per definire i dettagli operativi relativi allo sbarco e all’accoglienza

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PRESTO IN VISITA DA MACRON. Il cardinale rivendica le parole del papa sul «coraggio di negoziare». E critica sull'autonomia differenziata il governo italiano

Zuppi: «Ma l’Europa  non ripudia la guerra?» Matteo Zuppi - Ap

«Non possiamo rassegnarci a un aumento incontrollato delle armi, né tanto meno alla guerra come via per la pace». Il cardinale presidente della Cei Matteo Zuppi, aprendo ieri pomeriggio a Roma il Consiglio episcopale permanente, ha messo al centro del suo intervento il tema della pace, «priorità» assoluta visti «i conflitti di cui l’umanità si sta rendendo protagonista in questo primo quarto di secolo».

In particolare è la guerra in Ucraina a cui guarda il capo dei vescovi italiani, che ha ripreso – e difeso – le dichiarazioni di papa Francesco alla Radiotelevisione della Svizzera italiana della scorsa settimana («Occorre avere il coraggio di negoziare»), criticate da Nato, Usa, Europa e Kiev per il sentore di resa che secondo loro emanavano. «Le parole del papa sono tutt’altro che ingenuità», ha spiegato Zuppi, ribadendo la necessità di trovare una via pacifica per la «composizione dei conflitti», «facendo trionfare il diritto e il senso di responsabilità sovranazionale».

La storia, ha aggiunto, «esige di trovare un quadro nuovo, un paradigma differente, coinvolgendo la comunità internazionale per trovare insieme alle parti in causa una pace giusta e sicura». «Possiamo ancora accettare che solo la guerra sia la soluzione dei conflitti? Ripudiarla non significa arrestarne la progressione o dobbiamo aspettare l’irreparabile per capire e scegliere?», ha chiesto il presidente della Cei, che nelle prossime settimane volerà a Parigi per incontrare il presidente francese Macron – principale sponsor dell’invio di truppe a sostegno dell’Ucraina – dopo essere stato già a Kiev, Mosca, Washington e Pechino per conto di papa Francesco.

«L’Italia ripudia la guerra, l’Europa no?», ha concluso Zuppi (e «quale Europa in un mondo in guerra?» è il tema di un incontro promosso a Roma domani alle 18 da Pax Christi e Movimento dei Focolari con l’ex direttore di Avvenire Marco Tarquinio).

Il presidente della Cei ha parlato anche in termini non proprio amichevoli del governo italiano. A proposito di fine vita, ha invitato a utilizzare «senza alcuna discrezionalità» le cure palliative («disciplinate da una buona legge ma ancora disattesa») e ad applicare pienamente la norma «sulle disposizioni anticipate di trattamento», il cosiddetto testamento biologico. Sull’autonomia differenziata, poi, la bocciatura è netta, prefigurando anche un impegno diretto della Cei contro la legge voluta soprattutto dalla Lega. «Suscita preoccupazione la tenuta del sistema Paese, in particolare di quelle aree che ormai da tempo fanno i conti con la crisi economica e sociale, con lo spopolamento e con la carenza di servizi – ha detto Zuppi -. Non venga meno un quadro istituzionale che possa favorire uno sviluppo unitario, secondo i principi di solidarietà, sussidiarietà e coesione sociale. Su questo versante, la nostra attenzione è stata costante e resterà vigile»

 

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VOTO IN RUSSIA. Nessuna sorpresa: il presidente all'87%. Cina, India e Iran si congratulano, Londra e Berlino non lo riconsocono. Ma lo zar tira dritto

Un bagno di folla per Putin,  arrivato il “consolidamento” Il presidente Putin mentre intona l’inno russo, ieri sulla Piazza Rossa - foto Epa/Sergei Ilnitsky

Il termine più usato in Russia all’indomani della scontata vittoria di Vladimir Putin alle elezioni presidenziali è “consolidamento”. Consolidamento del sostegno popolare al capo del Cremlino, che ha ottenuto il quinto mandato alla guida del paese con l’87 per cento dei voti, e di conseguenza consolidamento delle scelte che lui e la sua cerchia hanno assunto negli ultimi due anni, dalla guerra in Ucraina al confronto sempre più aspro con i governi della Nato. Insomma, dalla nazione Putin ha preteso una prova senza precedenti di unità, e la nazione ha risposto con un risultato “unico”, come ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov.
Ieri sera Vladimir Putin è salito sul palco della Piazza Rossa (un concerto per il decennale dell’annessione della Crimea) e ha celebrato il bagno di folla, con tanto di inno nazionale e i tre candidati sideralmente sconfitti al seguito, nessuno dei quali ha raggiunto il 5%. Festeggiando esplicitamente il ritorno dei territori riconquistati.

IL MODO IN CUI questo consenso è maturato, all’estero è soggetto a diverse considerazioni. I primi a complimentarsi sono stati i leader di Iran, Corea del Nord, Cuba e Tagikistan. Nel suo messaggio a Putin, il presidente cinese, Xi Jinping, ha parlato di «partnership strategica» fra Mosca e Pechino e ha ribadito che la cooperazione fra i due paesi proseguirà in questa «nuova era». Opposta la reazione delle cancellerie occidentali. La Gran Bretagna «non riconoscerà», il voto, per il governo francese si tratta di elezioni «né libere, né democratiche», il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier non invierà alcuna nota a Putin, da Bruxelles l’Alto rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell dice che le elezioni russe «sono basate sulla repressione».

Il quinto mandato garantirà a Putin trent’anni di potere continuo sulla Russia. Più di Stalin. Più di Brezhnev. Più di Pietro il Grande. Alle presidenziali del 2000 era salito al Cremlino con il 53 per cento dei voti. I trentaquattro punti in più registrati domenica dipendono in linea generale da due fattori apparentemente inconciliabili, che nella Russia di Putin sono diventati complementari: crescita economica e apparato repressivo. Il peso di quest’ultimo, è chiaro a tutti, è cresciuto ogni volta che i conti sono peggiorati. Già nel 2016, nel libro “Être opposant dans la Russie de Vladimir Poutine”, la sociologa francese Françoise Daucé metteva in guardia sul rischio che un intero blocco di opinione, in Russia, potesse essere rimosso dal dibattito pubblico. Queste elezioni hanno confermato la sua cupa tesi.

LA PROVA MATERIALE è nell’invito che la vedova di Alexei Navalny, Yulia Navalnaya, aveva rivolto agli elettori alla vigilia del voto: tutti in massa alle urne alle 12 di domenica per mostrare che il dissenso esiste. Fatta eccezione per qualche isolato intervento a Mosca, a San Pietroburgo e nella città di Kazan, le forze dell’ordine, che erano comunque pronte ad affrontare minacce di livello terroristico, sono rimaste praticamente senza lavoro. Scene ben diverse si sono verificate a Tbilisi, in Georgia, a Yerevan, in Armenia, a Tel Aviv, in Israele, e quindi nei centri in cui negli ultimi due anni decine e decine di migliaia di giovani russi sono fuggiti per evitare la mobilitazione e le sue conseguenze. È lì che la chiamata di Navalnaya ha ricevuto una risposta significativa. È lì che la protesta delle 12 ha avuto successo, con interminabili code davanti ad ambasciate e sedi consolari. Questo significa che l’opposizione si trova adesso sostanzialmente fuori dal paese. I dati elettorali in arrivo dai seggi all’estero confermano la tendenza: ora come ora le possibilità di influenzare la politica russa sono nei fatti minime, se non addirittura nulle.

SAREBBE, PERÒ, fuorviante pensare che Putin abbia vinto le elezioni con percentuali così elevate in termini di partecipazione e di consenso semplicemente rimuovendo gli ultimi spigoli di dissenso. Il paese non sembra affatto in preda, almeno all’apparenza, a quelli che, negli ultimi giorni del potere imperiale, lo scrittore Aleksandr Blok aveva chiamato «processi della propria putrefazione», e che alcuni identificano oggi in certi tratti della società russa. Quando è salito al potere, Putin non ha promesso di raggiungere il benessere collettivo entro trent’anni. Ha permesso semplicemente a una parte considerevole di cittadini di mettere insieme il denaro che serve per acquistare un’auto o una casa.

ANCHE LA GUERRA è stata sfruttata in senso economico. Nella periferia l’abbondanza di manodopera sottimpiegata e sottopagata è servita a sostenere prima le società di contractor in cerca di volontari per combattere in Ucraina, poi l’industria di stato del settore bellico, che è già arrivata a produrre un numero di munizioni tre volte superiore alla capacità complessiva degli Stati Uniti e di tutti i paesi europei. Nelle grandi città la vita di milioni di cittadini prosegue come se non ci fossero né guerra né sanzioni. A Mosca decine di cantieri si allungano dal centro verso la campagna. Oggi si vedono vecchi capannoni, fra un anno troveremo torri di vetro alte venti piani. I nomi di questi progetti sono un programma politico. “Giardini Imperiali”, “Era – Appartamenti Categoria Lusso”, “Passaporto Esclusivo”. È così che i russi, nonostante le difficoltà, evidentemente guardano alle loro esistenze e alle loro prospettive

 

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Prima i raid dal cielo, poi l’irruzione. Per la seconda volta le truppe israeliane attaccano l’ospedale al Shifa a Gaza. Cercavano un ufficiale di Hamas. Decine di palestinesi uccisi e arrestati, tra loro la troupe di al Jazeera. Sfollati in fuga, pazienti intrappolati nel pronto soccorso

STRISCIA DI SANGUE. Israele ha attaccato per la seconda volta il principale ospedale di Gaza. Sostiene di aver ucciso «40 terroristi», tra cui un ufficiale di Hamas. Fao e Pam: a maggio carestia nel nord della Striscia

Nuovo assalto allo Shifa. Decine di morti e feriti Gaza: soldati israeliani davanti all'ospedale Shifa - Ap

«I soldati israeliani sono arrivati nel cuore della notte. Quando ho raggiunto una zona non lontana dallo Shifa ho sentito raffiche di mitra, esplosioni e ho visto un incendio. Gli sfollati accampati nel cortile dell’ospedale scappavano urlando». Anas Sharif, un giornalista, ci raccontava ieri quanto ha potuto vedere e sentire prima di allontanarsi a causa la violenza del nuovo raid dell’esercito israeliano nell’ospedale Shifa di Gaza city che ha fatto decine di morti e feriti. Il portavoce militare israeliano ha parlato di «un’operazione mirata volta a colpire terroristi di Hamas». Poi si è saputo che uno degli obiettivi del raid era Fayek al Mabhouh, un ufficiale del movimento islamico. Suo fratello Mahmoud Al-Mabhouh, fu assassinato dal Mossad israeliano a Dubai nel 2010.

Lo Shifa, il più attrezzato degli ospedali di Gaza ma operativo solo in parte, era già stato circondato e poi occupato lo scorso novembre dalle truppe israeliane. Per il gabinetto di guerra guidato da Benyamin Netanyahu e i comandi militari lo Shifa era una «copertura» del quartier generale sotterraneo di Hamas. Le ispezioni portarono alla scoperta solo di alcuni tunnel: nessuna dell’«enorme base a più livelli» del movimento islamico. Molti medici ed infermieri furono arrestati. In quei giorni alcuni neonati e pazienti gravi morirono a causa della mancanza di elettricità per le incubatrici e le terapie intensive. Intervenendo di nuovo ieri mattina sullo Shifa, il portavoce dell’esercito ha detto che l’attacco non avrebbe coinvolto il personale medico, i pazienti e gli sfollati accampati. Le cose sono andate in modo ben

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ISRAELE/PALESTINA. Spari sulla folla che cercava cibo. Il premier israeliano annuncia il piano per l’offensiva a sud. Da Hamas nuova proposta di tregua. Al Aqsa aperta, ma non per chi arriva dalla Cisgiordania. Biden: da Schumer «un buon discorso»
L’arrivo al Nasser Hospital di Khan Younis di un ferito in un raid israeliano foto Epa/Haitham Imad L’arrivo al Nasser Hospital di Khan Younis di un ferito in un raid israeliano - Epa/Haitham Imad

«Una persona è stata uccisa per questo sacco di farina». Un giovane palestinese insiste per mostrare gli schizzi di sangue sulla iuta. Vuole raccontare a chi lo riprende con un telefonino l’ultima strage degli affamati. Dal massacro alla rotonda Nabulsi a Gaza City, 120 uccisi a fine febbraio, la conta è quasi quotidiana.

Siano bombe su magazzini di beni alimentari dell’Unrwa o spari su chi si arrampica sui camion. È successo di nuovo nella notte tra giovedì e venerdì, a nord di Gaza, alla rotonda Kuwaiti. Bilancio di almeno 25 uccisi e 155 feriti ma i medici dello Shifa Hospital sono certi che il numero crescerà: molte le ferite gravi, pochi i mezzi a disposizione.

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STAVOLTA, denunciano le migliaia di palestinesi presenti, a sparare è stato un elicottero dell’aviazione israeliana. «Ci hanno massacrato, hanno ucciso mio fratello – racconta Mohammed all’agenzia Middle East Eye – Non hanno pietà. Tutto questo per un po’ di farina». I cani randagi, la mattina dopo, si sono radunati intorno ai resti dei corpi che non erano stati portati via.

Secondo il corrispondente di al Jazeera, Hani Mahmoud, i tank israeliani hanno impedito per ore di recuperare i cadaveri. E i feriti: «Erano lì a dissanguarsi e probabilmente ormai sono morti».
Amjad Ahmed, un altro testimone, parla di elicotteri che volavano sopra la folla. Lui, dice, ha perso un cugino. Un medico dello Shifa racconta di feriti colpiti allo stomaco, di altri schiacciati dalla folla nel panico.

Nel pomeriggio di ieri l’esercito israeliano ha negato di aver sparato, dicendo che il fuoco è partito dai palestinesi e accusando Hamas di voler infiammare gli animi. Il ministero degli esteri dell’Autorità palestinese ha sbottato, simili crimini vengono commessi «quasi ogni giorno davanti agli occhi della comunità internazionale». Sono più di 400 i palestinesi uccisi nelle ultime settimane mentre cercavano di procacciarsi del cibo, soprattutto nel nord di Gaza dove ormai la carestia è realtà. E sono 56 quelli uccisi in 48 ore in centri di distribuzione del cibo, tra Rafah e il campo di Nuseirat.

DIFFICILE STIMARE i morti per la fame, il bilancio accertato è di 27, ma le organizzazioni umanitarie lamentano la mancanza di informazioni dalla parte di Striscia a nord di Wadi Gaza, sotto il controllo dell’esercito israeliano. Secondo le Nazioni unite, il livello di fame nell’enclave palestinese è totale: non c’è nessuno che non la soffra.

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E mentre il bilancio degli uccisi a Gaza dal 7 ottobre sfiora i 31.500 (a cui si aggiungono migliaia di dispersi), ieri fonti di Hamas hanno detto di aver presentato una nuova proposta di cessate il fuoco in tre fasi, 42 giorni ciascuna: nella prima Israele dovrà ritirarsi al di là di Gaza City permettendo il ritorno degli sfollati e rilasciare 50 prigionieri palestinesi per ogni donna israeliana ostaggio; nella seconda sarà stabilito un cessate il fuoco permanente e il rilascio dei soldati ostaggio; nella terza Israele dovrà cessare l’assedio di Gaza in atto dal 2007. Poche ore dopo, il primo ministro israeliano Netanyahu ha rigettato la proposta, definendola «assurda». Invierà comunque una delegazione di negoziatori in Qatar.

Un’«apertura» che si scontra con la seconda parte dell’annuncio di ieri: il premier ha approvato il piano di operazione militare contro Rafah, la città dell’estremo sud in cui hanno trovato rifugio 1,5 milioni di persone. Da settimane anche gli alleati di Israele si battono contro l’offensiva di terra su Rafah, temuto preludio a una carneficina.

Le forze israeliane, ha aggiunto Netanyahu, si stanno preparando a «evacuare la popolazione». Non ha dato dettagli ulteriori e il segretario di stato Usa Blinken ieri ha detto di non aver visto ancora alcun piano sulla sua scrivania (intanto Biden definiva «un buon discorso» l’attacco a Bibi del leader dem alla Camera, Chuck Schumer).

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Rafah attende, terrorizzata. Ieri, primo venerdì di Ramadan, a centinaia si sono ritrovati tra le macerie delle moschee della città per pregare. Si è pregato anche sulla Spianata, a un centinaio di chilometri in linea d’aria. Secondo la Wafq islamica, 80mila fedeli hanno fatto ingresso ad al Aqsa, nonostante le restrizioni imposte dalle autorità israeliane.

CHE HANNO COLPITO non solo lo staff della Mezzaluna rossa, rispedito indietro davanti alle porte della Spianata, ma soprattutto chi tentava di arrivare dalla Cisgiordania, compresi anziani e donne. Fin dalle prime ore del mattino i checkpoint lungo il muro di separazione sono stati chiusi, insieme alle strade che dalla Cisgiordania occupata raggiungono Gerusalemme est. Di checkpoint ne sono apparsi anche di nuovi, volanti. A migliaia sono stati rimandati indietro sebbene in possesso del requisito «giusto»: l’età. La giustificazione: l’assenza di «permessi di preghiera», inventati lì per lì, che nessuno sapeva di doverne avere uno.

«Alla mia età, 71 anni, perché mi chiedono un permesso? È una delle politiche israeliane per impedirci di entrare ad al Aqsa con la scusa della sicurezza», ha detto l’anziano Sadiq del villaggio di Huwwara ai giornalisti di Middle East Eye. È la prima volta, dice, che non riesce ad andare a pregare

 
 
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Seggi aperti in Russia da ieri fino a domenica (mai così a lungo, serve un plebiscito). E indovinate chi vincerà. Schegge di dissenso: inchiostro sulle schede, una molotov, qualche arresto… Ma nelle zone di guerra, ucraine o russe, piovono missili elettorali

TESTA A TESTA. Elezioni al via, da ieri a domenica. Putin farà un pienone. Schegge di dissenso. Centinaia di migliaia di giovani sono in fuga

Mosca, al voto in un seggio foto Epa/Maxim Shipenkov Mosca, al voto in un seggio - Epa/Maxim Shipenkov

L’hanno chiamata in molti modi diversi, ma qui in Russia il nome più efficace è “Generazione P”, la generazione di quelli nati a partire dal 2000, l’anno in cui Vladimir Putin è salito per la prima volta al Cremlino. Nel corso della loro vita non hanno visto altro. Eppure alle elezioni cominciate ieri in Russia molti non prenderanno parte. Decine e decine di migliaia hanno lasciato il paese per evitare di combattere in Ucraina, per non essere coinvolti in quel che accade o semplicemente per non sentirsi complici.

«Io credo che non abbia alcun senso sistemarsi in fila indiana per mettere una croce su una scheda», dice uno di loro, un certo Dan Lipatskij, un tipo alto e loquace che avevo conosciuto a Mosca alla vigilia delle ultime presidenziali, nel 2018: allora, appena maggiorenne, aspettava di votare per la prima volta, e la cosa sembrava appassionarlo; adesso, a 24 anni, vive a Yerevan, in Armenia, lontano da casa e da tutto quello che la casa è diventata.

DI DAN LIPATSKIJ, come detto, ce ne sono decine di migliaia. Per ora alle autorità la categoria non sembra interessare troppo. La priorità è garantire che il sistema avanzi e non incontri spigoli, e quindi che la guida di Putin sia legittimata nuovamente. Alla vigilia del voto il capo del Cremlino in persona ha chiesto ai cittadini con un messaggio video la consueta prova di patriottismo. Che significa: voto di massa per il presidente, dato che rivali di fatto non

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