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EUROPEE. La leader vede i segretari regionali per la road-map verso il voto. La minoranza ribolle: «Non si cambi linea a colpi di candidature». Nel mirino i nomi di Cecilia Strada e Marco Tarquinio. Orlando: «Giusta attenzione a pace e movimenti»

Elly Schlein e Stefano Bonaccini Stefano Bonaccini ed Elly Schlein - Ansa

Mentre le polemiche attorno alle liste del Pd per le europee, ieri è stata la giornata del vertice tra Elly Schlein e Stefano Bonaccini. I due ci hanno tenuto a diffondere un’immagine rassicurante. «Incontro positivo – si limitano a dire segretaria e presidente del partito – Siamo al lavoro insieme su elezioni europee, regionali e amministrative». Serve capire se davvero lo schema illustrato in segreteria (coi civici in prima fila e poi dirigenti e parlamentari europei uscenti) possa davvero funzionare.

DOPO IL FACCIA a faccia con Bonaccini, Schlein ha riunito i segretari regionali per un primo confronto sulla scadenza del prossimo mese di giugno. Qui ha spiegato la strategia, coi candidati della società civile pensati per aprire il partito e allargare il perimetro dei consensi e la giusta collocazione per eletti in cerca di conferma e nomi di peso del partito. Solo a quel punto, ha detto la segretaria ribadendo quello che aveva detto in queste settimane, a scenario composto, deciderà se scendere in campo in prima persona.

NON MANCA chi continua a mandare messaggi al fulmicotone. Come Pina Picierno, che accusa i vertici dem di essersi affidata a volti noti a scapito delle personalità cresciute nel partito. La vicepresidente del parlamento europeo contesta anche il metodo degli annunci, che passa sopra gli organismi. «Non siamo l’Isola dei famosi e non siamo neanche in un contest televisivo – protesta Picierno – Il Pd si è tenuto in piedi in questi anni grazie alla forza di tutti i nostri militanti, ritengo sia giusto ascoltare quello che pensano». Smorza i toni l’ex ministro Andrea Orlando, anche lui nelle prime ore apparso contrariato sulla scelta di personalità esterne (quali Lucia Annunziata e Cecilia Strada) da schierare in prima fila. «Apprezzo il lavoro che si sta facendo – concede Orlando – Credo ci siano nomi su cui si sta lavorando che diano un segno anche di una attenzione a movimenti, a battaglie come quella per la pace. Credo che nella rappresentazione della società bisogna tener conto anche che la società è fatta di movimenti sociali, di lotte per il lavoro, di persone che combattono per difendere il proprio reddito». Per Orlando, la stessa segretaria se fosse in lista sarebbe un valore aggiunto. «Schlein può dare un contributo importante – sostiene – decidiamo insieme come». Poi sottolinea il peso dell’ex direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che nei mesi scorsi era dato in lizza per un posto coi 5 Stelle. «Tarquinio parla di un tema importante: la pace. Parla al mondo cattolico, con cui il Pd dice di voler costruire un rapporto più solido e forte».

MA IL PD ha sempre detto sì all’invio di armi all’Ucraina, il tema non è mai stato neppure oggetto di discussione. E il manifesto del Partito socialista europeo approvato meno di un mese fa a Roma prevede l’«impegno a investire nell’industria della difesa europea». Lia Quartapelle, che sotto la reggenza di Enrico Letta fu responsabile esteri e portavoce internazionale del partito, la mette così: «Se si vuole imporre un cambiamento di rotta politica, lo si faccia apertamente, con una discussione esplicita negli organismi di partito, non con le candidature». Il riferimento a Tarquinio (e a Strada) è evidente. Per Orlando, invece, «un passo indietro sarebbe una rottura con il mondo cattolico. Ed è strano che si debba segnalare questa cosa proprio alle parti del partito che tempo pongono la questione del rapporto con quel mondo».

DA REGISTRARE anche il passo in avanti del sindaco (in scadenza) di Firenze Dario Nardella. «Non sta a me decidere la candidatura, che sarà valutata dalla segretaria Schlein e dal partito al momento della definizione delle liste – dice Nardella al Quotidiano nazionale – Io posso solo dire di essere pronto per il mio partito e per il mio territorio a questa sfida europea che sarà più determinante e cruciale di sempre».Il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani gli lancia segnali rivolgendosi a Schlein in questi termini: «Apprezzo che vi sia un rapporto equilibrato fra candidature che vengono da personalità forti che arrivano dal territorio».

IN LISTA CI SARÀ anche Ilaria Salis, secondo una voce circolata negli ultimi giorni? Di questa ipotesi dalle stanze del Nazareno non parlano. Ieri Schlein ha espresso la sua indignazione per il prolungamento della detenzione in carcere per l’attivista. E dalla famiglia Salis trapela che al momento nessuna proposta di candidatura è stata formulata concretamente

 

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Ilaria Salis torna in aula in catene: «13 mesi di carcere non sono poi tanti», la Corte magiara la rimanda in cella negando i domiciliari. Schiaffo a Meloni dall’amico Orbán. Ma a Milano i giudici negano l’estradizione a Budapest di Gabriele Marchesi: rischia trattamenti inumani

ANGHERIA. Il tribunale di Budapest dice no ai domiciliari, smentita la linea voluta dal governo. E i neonazisti minacciano. Intanto Gabriele Marchesi torna libero: la Corte d’appello di Milano respinge l’estradizione

Ilaria Salis in aula a Budapest durante il suo processo Ilaria Salis in aula a Budapest durante il suo processo - Ansa

I Lei entra in tribunale a Budapest in catene. Lui esce dal tribunale di Milano da uomo libero. Le vicende di Ilaria Salis e Gabriele Marchesi, accusati entrambi di aver aggredito dei neonazisti in Ungheria nel febbraio dell’anno scorso, ieri hanno restituito tutti e due i lati di una medaglia di certo ingloriosa per il governo Meloni e per la diplomazia italiana.

Salis è tornata in aula a Budapest soltanto per vedersi respingere la richiesta di domiciliari in Ungheria: una decisione ampiamente annunciata ma lo stesso bruciante. La 39enne è prigioniera da 13 mesi per accuse che in Italia sarebbero di lesioni lievissime, e l’udienza di ieri stata soltanto uno spettacolo messo in piedi per ribadire al mondo il punto di vista di Budapest su questa storia. Lo spiega bene Roberto Salis, il padre: «Qui Ilaria è colpevole per tre motivi: è donna, non è ungherese ed è antifascista»«. La situazione, del resto, era chiara da tempo. E qualora qualcuno non lo avesse capito, all’ingresso in tribunale, la folta pattuglia solidale accorsa dall’Italia (parlamentari, associazioni umanitarie, il funzionario d’ambasciata Attila Trasciatti e anche il fumettista Zerocalcare) è stata accolta dagli insulti e dalle minacce di un manipolo di neonazisti: «Zitti o vi

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IL VETO STRAPPATO. Dopo la risoluzione Onu, escalation di bombardamenti su Rafah. Trenta uccisi accanto allo Shifa. Tel Aviv lascia il negoziato a Doha. Dodici palestinesi muoiono affogati: cercavano di recuperare i pacchi di aiuti lanciati dal cielo. Altri sei morti nella calca per procurarsi un po’ di cibo

Gli aiuti umanitari paracadutati dal cielo sulle rovine di Gaza City foto Ap/Mahmoud Essa Gli aiuti umanitari paracadutati dal cielo sulle rovine di Gaza City - Ap/Mahmoud Essa

«Sono passate 24 ore dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiede un immediato cessate il fuoco durante il mese di Ramadan e quello che vediamo sul terreno è l’esatto opposto di quello che domanda la risoluzione». Così ieri Hani Mahmoud, corrispondente di al Jazeera da Rafah, descriveva l’escalation di attacchi sulla città all’estremo sud di Gaza, rifugio oggi a 1,5 milioni di sfollati palestinesi.

RAID AEREI, blocco degli aiuti e minacce di avanzare via terra su Rafah, questo il resoconto in breve della giornata di ieri. Che ha continuato a ruotare intorno alla storica astensione statunitense. Un «errore morale ed etico», l’ha definito il ministro degli esteri israeliano Katz, che non solo – ha aggiunto – non farà tacere le armi ma costringerà Israele a mostrare il pugno duro (militare), più di quanto non faccia già.

È l’dentica linea del resto del governo che, ben consapevole che è stata proprio la minacciata avanzata su Rafah a far muovere gli Stati uniti, sfida apertamente l’amministrazione Biden. Da parte sua Washington, ieri, ha provato a smorzare la portata della risoluzione, lanciandosi in una disamina legale poco realistica: la risoluzione non sarebbe vincolante, dice la Casa bianca; lo è, come tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite, rispondono gli altri membri (permanenti e non).

A dare il via alla diatriba sono state le parole del portavoce del Consiglio della sicurezza nazionale degli Usa, John Kirby, secondo cui

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IL VETO STRAPPATO. Netanyahu cancella la visita di una delegazione israeliana a Washington. Guterres: «Un fallimento sarebbe imperdonabile»

Folla sugli aiuti umanitari lanciati dal cielo a Gaza Ap/Mahmoud Iss Folla sugli aiuti umanitari lanciati dal cielo a Gaza Ap/Mahmoud Iss - Ap/Mahmoud Iss

«È una giornata storica», così i 10 membri non permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu hanno commentato il passaggio della risoluzione per il cessate il fuoco a Gaza, e arrivata dopo mesi di veti incrociati di Stati uniti, Russia e Cina. Il risultato è arrivato dopo quattro tentativi, e ha ottenuto 14 voti a favore inclusi quelli della Russia e della Cina, nessun veto, e una sola astensione, arrivata dagli Usa – che non però consente comunque alla risoluzione di procedere.

SI TRATTA di una risoluzione che «deve essere attuata. Un fallimento sarebbe imperdonabile», ha affermato il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres Anche l’ambasciatore della Palestina alle Nazioni unite Riyad Mansour ha sottolineato la storicità del voto e ha detto di essere «orgoglioso». «Non è vincolante? – ha continuato Mansour – È dovere del Consiglio di Sicurezza farla rispettare».

La risoluzione in realtà è vincolante e in teoria Israele sarebbe obbligato a rispettarla, ma fino ad ora si è rifiutato di ridurre l’intensità della guerra a Gaza, nonostante nelle ultime settimane l’appoggio statunitense si sia sempre più indebolito.

Poco dopo il voto, così come aveva minacciato il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, è stata cancellata la visita di una delegazione di Tel Aviv a Washington prevista per oggi in quanto la decisione degli Usa «danneggia lo sforzo bellico di Israele» e rappresenta un cambio di rotta da parte di Washington. Mentre scriviamo il segretario alla difesa Lloyd Austin ha ancora in programma di incontrare il suo omologo israeliano Yoav Gallant, che già si trova a Washington, per affrontare una serie di punti tra cui il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas e la necessità di maggiori aiuti umanitari per i civili a Gaza.

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CODICE RUSSO. Dalla Cecenia alla Siria, dal Daghestan al Mali: tanti i motivi per colpire. Il fattore Khorasan

 Parenti delle vittime dell’ultimo attacco Isis a Kandahar - foto Ansa

Il sanguinoso attentato terroristico è un colpo clamoroso per lo Stato islamico, ma non è così inaspettato. Chi si sorprende che l’obiettivo sia la Russia ha perso di vista da tempo non solo la propaganda dello Stato islamico “centrale” e delle sue branche regionali, ma anche le loro attività militari, e deve aver dimenticato un pezzo importante di storia recente.

STORIA RECENTE, propaganda e attività militari – così certificano tutti gli studiosi che hanno continuato a occuparsene, anche dopo la caduta del “Califfato” edificato in Siria e Iraq e la fisiologica disattenzione dei media – ci dicono che la Russia è un nemico centrale, prioritario. La Russia infedele, ortodossa, la Russia di Putin e delle sue sanguinose guerre in Cecenia, della repressione degli islamisti in Daghestan, in Inguscezia, dentro e fuori i confini della Federazione, la Russia alleata del siriano Bashar al-Assad e che bombarda le roccaforti jihadiste in Siria, o che, più di recente, contribuisce alla campagna contro lo Stato islamico in Mali e Burkina Faso: la Russia come minaccia all’Islam.

Putin, i cui apparati di sicurezza hanno fatto flop, prova ad approfittarne, omettendo di menzionare lo Stato islamico e provando ad attribuire responsabilità agli ucraini. Ma è un inganno. Si dovrebbe guardare altrove. Alla branca locale dello Stato islamico, la «provincia del Caucaso», o più probabilmente alla «provincia del Khorasan».

IL NOME RIMANDA, come in molta pubblicistica jihadista, ai gloriosi tempi andati, al Khorasan storico, un’ampia area che copriva gli

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