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A Gaza l’esercito israeliano si fa guidare dall’intelligenza artificiale. Un programma decide quali obiettivi palestinesi colpire, «il personale umano si limita ad approvare». Prima opzione: «Colpirli in casa». L’inchiesta del magazine +972 che svela come si è arrivati a 33mila vittime

PALESTINA. Oxfam: è un decimo delle calorie necessarie. Un medico israeliano denuncia: prigionieri incatenati e alimentati con le cannucce

In fila per la distribuzione del cibo nel campo profughi di Jabaliya Ap/Mahmoud Issa In fila per la distribuzione del cibo nel campo profughi di Jabaliya - Ap/Mahmoud Issa

Cento grammi di pane al giorno corrispondono più o meno a 245 calorie. Duecentoquarantacinque calorie corrispondono a un decimo del fabbisogno calorico giornaliero di una persona. Da gennaio, è la quantità di cibo a disposizione dei 300mila palestinesi rimasti nel nord di Gaza. Il calcolo lo fa Oxfam: «245 calorie al giorno a testa è meno del 12% del fabbisogno necessario di 2.100 calorie a persona».

AGLI ALTRI, quelli che non vivono più nord, non va molto meglio: secondo Oxfam, l’ingresso limitato degli aiuti (in media un centinaio di camion al giorno, erano 500 prima dell’offensiva israeliana senza una carestia in corso) ha garantito «il 41% delle calorie necessarie ai 2,2 milioni di abitanti, che rischiano di morire di fame». A dieci giorni dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu che chiedeva il cessate il fuoco (e a più di due mesi dagli ordini emessi della Corte internazionale di Giustizia per fermare «il genocidio plausibile») a Gaza non cambia nulla.

IERI SI È continuato a parlare dei sette operatori umanitari di World Central Kitchen uccisi lunedì sera in tre attacchi israeliani mirati (la Polonia, in particolare, di cui uno dei cooperanti era cittadino, è furiosa e a un passo dalla rottura diplomatica con Israele). E dopo settimane di interruzione delle comunicazioni dirette, ieri il presidente Usa Biden – lo stesso che ha dato il via libera alla consegna di circa 2mila mega bombe a Israele proprio nel giorno del raid sulla Wck – ha parlato al telefono con il premier israeliano Netanyahu: era «furioso», dice la stampa statunitense. E ha alzato la voce. Biden, scrive la Casa bianca, ha chiesto a Israele «misure immediate e concrete per affrontare la sofferenza dei civili» e ha chiarito «che la politica Usa sarà determinata da tali misure». Tel Aviv intanto fa sapere che serviranno settimane per concludere l’inchiesta sull’uccisione dei sette operatori umanitari, ma nel frattempo ieri pomeriggio ha bombardato un’altra squadra di soccorso, stavolta a Beit Hanoun, nel nord di Gaza, uccidendo quattro persone tra cui

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ISRAELE . Il governo prova a frenare la sentenza della Corte Suprema. Intanto Benny Gantz si infila nella crisi e sfida Netanyahu: al voto a settembre

Ultraortodossi contro la leva: «È una trappola» Scontri tra polizia e ultraortodossi a Gerusalemme Ap/Leo Correa

In seguito a un’Ordinanza provvisoria della Corte Suprema da lunedì primo aprile Israele cesserà di sovvenzionare gli studenti delle accademie rabbiniche di età compresa tra i 18 e i 26 anni eleggibili per la leva. Si tratta di una decisione drammatica che sconvolge lo status quo e, soprattutto, che mette a rischio il governo minacciando di farlo cadere.

E forse è proprio questo il «movente» che ha convinto i giudici a procedere nonostante la richiesta esplicita del primo ministro Netanyahu di astenersi dalla sentenza per un mese. Il provvedimento infatti aumenterebbe le probabilità che gli israeliani tornino alle urne entro la fine del 2024.

COSÌ, PER IL MOMENTO, è decaduta l’esenzione dal servizio militare di cui i giovani ultraortodossi hanno goduto in basi a leggi che si sono susseguite per decenni. L’ultima era stata approvata dal parlamento nel 2015 dopo l’annullamento della cosiddetta Legge Tal che garantiva anche essa l’esenzione di fatto. Mentre il governo israeliano prende tempo, ordinando alla polizia di non prendere provvedimenti effettivi contro chi non risponde all’invito contenuto nella cartolina, l’esercito dal canto suo si prepara ad accogliere le nuove leve apprestando programmi speciali per gli ultraortodossi.

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Secondo le stime le forze armate israeliane necessiterebbe infatti di circa 7mila soldati aggiuntivi, di cui la metà combattenti, solo per rimpiazzare i morti e i feriti nella guerra in corso, motivo per cui sono tutti benvenuti. Nel frattempo tuttavia i partiti ultraortodossi gridano allo scandalo comprendendo di essere caduti vittime della trappola tesa al primo ministro e già nella giornata di lunedì sono cominciate le prime manifestazioni di gruppi estremisti che per due ore hanno bloccato il traffico con violenza al grido di «moriremo piuttosto che arruolarci».

Tuttavia la situazione è più complessa di come appare. Tanto per cominciare, secondo i sondaggi, un ultraortodosso su cinque sarebbe favorevole all’abolizione dell’esenzione dalla leva obbligatoria e, dopo il 7 ottobre, i consensi sono saliti dal 10 al 22%. Se infatti la società ultraortodossa tradizionale continua a vedere nello studio della Tora’ il valore supremo nonché il contributo alla garanzia dell’incolumità dell’intero popolo ebraico, molti cambiamenti sono in atto.

Innanzitutto si stima che gli uomini che studiano effettivamente nelle scuole talmudiche siano solo una bassa percentuale mentre gli altri lavorerebbero o passerebbero il tempo a bighellonare. Inoltre il trauma del 7 ottobre ha evidenziato drammaticamente l’eccezione degli ultraortodossi nella società ebraica insieme alla necessità che anche loro si facciano carica dell’onere in modo concreto. A conferma di ciò basta osservare le innumerevoli iniziative di volontariato portate avanti in questi mesi da parte degli ultraortodossi di entrambi i sessi, segno della volontà di sentirsi parte della collettività allargata al punto da far temere ai rabbini più conservatori un allontanamento dalle tradizioni.

UN MOVIMENTO verso posizioni più sioniste si registra in generale nella società ultraortodossa moderna già da diverso tempo e, mentre di occupazione militare e di palestinesi si parla pochissimo, sono sempre di più quelli che festeggiano apertamente il Giorno dell’Indipendenza. Non stupisce dunque che ieri pomeriggio Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra, abbia chiesto di stabilire una data per le elezioni a settembre «per ristabilire la fiducia dei cittadini e garantire la prosecuzione dei combattimenti». E al nord non si tornerà a scuola nemmeno il prossimo anno, a quanto pare

 

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VERDE URBANO. Tensioni tra l’amministrazione comunale e l’ecologismo cittadino

La resistenza degli alberi di Bologna, sgombero fallito Manifestanti in protesta sugli alberi a Bologna foto Ansa

Sei alberi tagliati, sei persone ferite e una cicatrice politica non facile da ricomporre. È questo il bilancio dell’infinita giornata di ieri al parco Don Bosco, Bologna, proprio di fronte alle torri brutaliste che ospitano la Regione Emilia-Romagna. La tensione nel quartiere covava da tempo.

Il parco Don Bosco è un fazzoletto di terra ricco di alberi. Di fronte vi sorgono le scuole medie Besta, i cui edifici – costruiti nel 1982 – sono da tempo in crisi perché antiquati e non antisismici. Si è deciso di costruire una nuova sede per l’istituto proprio nel parco – riducendo però di molto l’area verde e tagliando diverse decine di alberi. Tra i residenti è nato un comitato contrario ai lavori. Con loro l’ecologismo bolognese – da Legambiente a Fridays For Future – e il mondo dei collettivi studenteschi. Ma non l’amministrazione comunale.

Ieri la giornata cruciale, la prima di molte. «Dalle cinque del mattino hanno iniziato ad accorrere manifestanti. All’inizio eravamo una quarantina, alla fine più di duecento» ci racconta una giovane attivista. «Verso le otto arrivano le forze dell’ordine, uno schieramento imponente. Pochissimo spazio per il dialogo, iniziano presto a caricare. C’è chi si è fatto male, manganellavano un po’ a caso. Un signore anziano è stato portato in ospedale per i colpi presi al braccio».

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La tensione e le cariche sono andate avanti per gran parte della mattinata. Ad un certo punto gli agenti hanno preso il controllo di una buona porzione del parco e, tra le urla indignate e gli applausi sarcastici del presidio, sono iniziati gli abbattimenti. I primi alberi sono andati giù. Poi la situazione prende una svolta inaspettata. «Alcuni manifestanti sono riusciti a entrare nell’area transennata – qualcuno persino dalle fronde. Si sono aperti dei varchi. Lì i lavori si sono fermati». La giornata finisce in pareggio: alcuni alberi sono persi, ma il presidio non è sgomberato. L’umore dei manifestanti a fine giornata non è dei peggiori, ma tutti temono che le scene di ieri si ripetano nelle prossime settimane.

Di certo c’è che la storia del piccolo parco Don Bosco è esemplificativa del complesso rapporto tra l’amministrazione comunale di centrosinistra guidata dal sindaco Matteo Lepore e l’ecologismo cittadino. Da un lato la giunta ha puntato molto sulle politiche ecologiche: limite orario ai 30 all’ora, prima linea del tram in costruzione, adesione al programma europeo delle città campioni del clima con l’obiettivo di raggiungere le zero emissioni nette entro il 2030. Dall’altra Bologna – città di suo eccezionalmente attiva politicamente – brulica di comitati contro la cementificazione.

Il vero punto di scontro è il cosiddetto passante, l’allargamento autostradale che, oltre a cementificare terreno vergine, aumenta gli spazi per quelle macchine che dovrebbero essere via via abbandonate. Ma anche la costruzione del tram – che peraltro interessa marginalmente proprio il parco Don Bosco – e altri progetti minori come le scuole Besta fanno sì che più di un’area verde della città sia oggetto di scontro politico.

«L’amministrazione che si dice più progressista d’Italia pensa che invece di parlare devono parlare i manganelli. Questo è il risultato dell’amministrazione Lepore-Clancy» è il commento di Gianni de Giuli del comitato Besta ai microfoni di Bologna Today. «Bastava sposare uno dei principi della legge regionale sul consumo di suolo: la rigenerazione urbana. Potevamo salvare il parco, la scuola e l’aria che le persone respirano rigenerando la scuola che c’è» aggiunge Nino Pizzimenti di Legambiente.

I verdi in consiglio comunale, da tempo in rotta di collisione con la maggioranza, sono ancora più duri: «La giornata di oggi segna uno spartiacque tra passato e futuro» scrivono su Facebook, «l’attuale amministrazione rappresenta un passato che non dimenticheremo. Da oggi inizia la costruzione di un futuro migliore in cui non si dovrà più assistere alle scene vergognose avvenute questa mattina di fronte ai bambini che entravano a scuola»

 

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SENATO. In commissione Affari costituzionali scontro con le opposizioni sul ballottaggio e sulle mozioni di fiducia. Fdi è per il «simul stabunt, simul cadent», la Lega vuole poter cambiare il premier in corsa

 La ministra Maria Elisabetta Casellati - Ansa

La maggioranza è divisa sulla legge elettorale che dovrà supportare il premierato elettivo, e tuttavia non intende sciogliere il nodo. È quanto emerso in Senato dove la Commissione Affari costituzionali sta esaminando gli emendamenti al ddl Casellati sul premierato. Ma forse non è questa la notizia del giorno. Il fatto più rilevante è che la maggioranza sta per approvare una riforma costituzionale che in un punto essenziale «ha due interpretazioni diverse», come ha sorprendentemente affermato in Commissione il relatore e presidente Alberto Balboni (Fdi). Andiamo alla cronaca.

Dopo l’approvazione martedì dell’articolo 3 del ddl Casellati – quello con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio – la Commissione ha ieri iniziato l’esame degli emendamenti all’articolo 4 che regolamenta i casi di crisi di governo, contraddicendo tuttavia l’articolo precedente. Infatti, ogni elezione diretta di un organo monocratico (il sindaco, il Presidente della Regione, il Presidente della Repubblica in Francia…) vorrebbe che in caso di caduta di tale organo si procedesse a una nuova elezione. Ma il ddl Casellati dispone diversamente. Se il Presidente del consiglio viene sfiduciato con una «mozione di sfiducia motivata», le Camere vengono sciolte.

Se invece egli presenta «dimissioni volontarie» al Capo dello Stato, può o chiedere lo scioglimento delle Camere oppure chiedere un nuovo incarico sorretto da una maggioranza anche diversa da quella che lo ha appoggiato nelle urne, oppure può passare la mano a un altro esponente della sua maggioranza, anch’egli senza vincoli sulla maggioranza parlamentare che lo sostiene. Insomma «un pasticcio» ha esclamato Peppe De Cristoforo di Avs che, pur dichiarandosi contrario all’elezione diretta del premier, ha esclamato: «Piuttosto che questo pasticcio fate una norma secca sul presidenzialismo!».

Non è finita qui. Dario Parrini del Pd ha osservato che non c’è scritto nulla sul caso più frequente: la mancata fiducia posta su un atto dal governo (i due casi su cui sono caduti i due governi Prodi nel 1998 e nel 2008 o il governo Draghi nel 2022). In questo caso, ha osservato l’esponente dem, si tratterebbe di dimissioni obbligatorie, «come hanno sottolineato numerosi costituzionalisti». E qui arriva il colpo di scena: Balboni ha affermato serenamente che il testo ha «due interpretazioni diverse», dato che lui stesso ha sentito altri costituzionalisti (Francesco Saverio Marini e Felice Giuffrè) sostenere che si tratterebbe comunque di dimissioni volontarie. Bene, ha insistito Parrini perfidamente, presentate un emendamento ed esplicitatelo. Ma questo non si può fare perché la formula scelta è un delicato compromesso, come ha evidenziato anche De Cristofaro, tra Fdi che vorrebbe il simul stabunt, simul cadent e la Lega, che invece vuole la possibilità di un cambio in corsa del premier.

Insomma è quell’aggettivo «volontarie» che divide Fdi e Lega a essere il nodo, ma che non verrà sciolto portandoci in una dimensione fantascientifica del costituzionalismo. Non viene sciolto nemmeno un secondo nodo, non meno rilevante, quello sulla legge elettorale. Martedì Balboni, incalzato dalle opposizioni, ha ammesso che l’attribuzione di un premio di maggioranza – previsto dall’articolo 3 del ddl Casellati – implica che il candidato premier superi una determinata soglia e che, se tale asticella non viene raggiunta, si dovrà andare al ballottaggio. Ieri il capogruppo della Lega in Senato, Romeo, e il forzista Cattaneo hanno detto che a loro il ballottaggio non piace. Parole analoghe erano state pronunciate da Adriano Paroli, vice di Gasparri in Senato.

Un chiarimento è stato quindi chiesto ieri in Commissione e Balboni ha insistito sulla necessità del ballottaggio «per coerenza» con il premierato elettivo. In effetti se si parla di premio di maggioranza è implicita l’idea di una soglia. «Prendetevi 10 giorni e decidete, ma dateci un’idea», ha detto Parrini. Tirata in ballo, la ministra Casellati si è trincerata dietro la solita risposta: la legge elettorale la renderò nota solo dopo la prima lettura del premierato da parte di Camera e Senato. In conclusione una riforma costituzionale interpretabile in almeno due modi e approvata giocando a nascondino

 

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Sanità pubblica con i giorni contati. Smentita la narrazione meloniana: il governo stanzia meno della metà dei fondi di Germania e Francia. Quattordici scienziati alla premier: «Tra 25 anni 2 cittadini su 5 avranno più di 65 anni e il sistema non sarà in grado di assisterli»

LA LETTERA. Il governo stanzia meno della metà dei fondi di Germania e Francia. Quattordici esponenti di spicco della ricerca scrivono alla premier: «Tra 25 anni quasi 2 cittadini su 5 avranno più di 65 anni e il sistema non sarà in grado di assisterli»

Sanità, gli scienziati a Meloni: «Salute a rischio per i tagli» Roma, San Filippo Neri - LaPresse

Quello lanciato ieri da 14 grandi nomi della ricerca italiana a difesa del servizio sanitario nazionale non è il solito appello. In primo luogo colpisce il prestigio dei suoi estensori, tra i quali figurano il fisico e premio Nobel Giorgio Parisi, l’immunologo Alberto Mantovani, l’epidemiologo Paolo Vineis, il farmacologo Silvio Garattini, l’oncologo e presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli e i suoi vicepresidenti Paola Di Giulio e Enrico Alleva. Ma è soprattutto il contenuto affilato – e in diretta collisione con l’orientamento dell’attuale maggioranza politica – a farsi notare. Soprattutto se firmato da accademici importanti che solitamente preferiscono tenersi fuori dall’agone politico.

PER DIFENDERE la sanità pubblica, il documento diffuso ieri critica frontalmente le scelte del governo Meloni in materia sanitaria, economica e istituzionale. A partire dallo scarso budget a disposizione del Servizio sanitario nazionale, che mette a repentaglio l’esistenza di un welfare pubblico e universale come quello ereditato dalla riforma del 1978. «I dati dimostrano che il sistema è in crisi» denunciano gli studiosi. «Arretramento di alcuni indicatori di salute, difficoltà crescente di accesso ai percorsi di diagnosi e cura, aumento delle diseguaglianze regionali e sociali. Questo accade perché i costi dell’evoluzione tecnologica, i radicali mutamenti epidemiologici e demografici e le difficoltà della finanza pubblica, hanno reso fortemente sottofinanziato il Ssn, al quale nel 2025 sarà destinato il 6,2% del Pil (meno di vent’anni fa)».

SI TRATTA di una lettura dei dati oggettivi in netta controtendenza rispetto al trionfalismo di Giorgia Meloni, secondo cui il suo

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LA NORMA ANTIRIBALTONE. Per il ddl l’elezione del presidente del Consiglio e delle Camere sarà «contestuale»

Premier eletto e limite di due mandati. Sì della commissione, ma è un rebus Maria Elisabetta Alberti Casellati, ministra per le riforme istituzionali

Un aforisma attribuito a G.B. Shaw afferma: «L’ubriaco si appoggia al lampione non per essere illuminato ma perché altrimenti cadrebbe». Il detto salta in mente per quanto avvenuto ieri in Commissione Affari costituzionali del Senato, dove la maggioranza ha approvato il nuovo articolo 3 del ddl Casellati sul premierato, quello che introduce l’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Un meccanismo contraddetto dal successivo articolo 4 della riforma, soprattutto un sistema che sul piano tecnico-giuridico è irrealizzabile.

Tecnicamente la Commissione ha approvato un emendamento del governo che riscrive l’articolo 3 del ddl, quello che introduce l’elezione diretta del premier. L’emendamento si era reso necessario perché la prima versione del ddl non era parsa adeguata alla maggioranza. «Il Presidente del Consiglio – recita il testo approvato – è eletto a suffragio universale e diretto per 5 anni, per non più di due legislature consecutive». Rispetto alla prima versione è stato introdotto il limite dei due mandati. E poi il testo (che modifica l’articolo 92 della Costituzione) aggiunge: «Le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente». E quest’ultimo avverbio, lo vedremo, apre la porta all’ignoto, quello della legge elettorale.

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L’emendamento prosegue anodinamente: «La legge disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività». Infine si stabilisce che «il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio eletto l’incarico di formare il Governo; nomina e revoca, su proposta di questo, i ministri».

L’argomento a favore dell’elezione diretta, sostenuto dalla ministra Casellati e dagli interventi dei senatori di maggioranza, è stato che il problema del sistema istituzionale italiano è l’instabilità dei governi. Difficile contraddire tale affermazione, mentre è stato facile per le opposizioni smontare quella consequenziale alla prima, vale a dire che l’instabilità si risolve con l’elezione diretta.

I due Paesi più stabili d’Europa, Germania e Spagna, non solo non hanno l’elezione diretta, ma addirittura hanno sistema elettorali proporzionali. La Francia, con il suo celebre semipresidenzialismo, ha avuto già sette governi diversi sotto i due mandati di Macron. Ma a contraddire l’assunto della stabilità tramite mandato popolare al Presidente del Consiglio è l’articolo 4 del ddl Casellati, che verrà discusso da oggi, ironicamente chiamato «norma antiribaltone».

Questo, dopo le infinite mediazioni nella maggioranza, istituzionalizza i «giochi di Palazzo» che la ministra ieri ha assicurato che cesseranno con il premierato elettivo. Il nuovo articolo 4 prevede che il premier eletto possa presentare «dimissioni volontarie» al Presidente della Repubblica, ottenere un nuovo incarico sostenuto da una maggioranza diversa da quella che lo ha appoggiato nelle urne, per esempio promuovendo nuovi gruppi di «Responsabili»; o anche che qualche partito di maggioranza possa negare la fiducia al premier su singoli provvedimenti, anche ripetutamente, senza che questi debba dimettersi, ma in questo modo sottoponendolo a logoramento politico. E prevede addirittura la «staffetta» all’interno della maggioranza vincitrice delle elezioni.

E poi c’è la legge elettorale su cui Casellati ha detto che si dovrà attendere la prima lettura di Senato e Camera del premierato prima che sia messa sul tavolo. Il ddl sul premierato stabilisce che tale legge dovrà prevedere che l’elezione di premier e Camere sia «contestuale».

Avverbio temporale? In tal caso gli elettori alle urne riceverebbero tre schede, una per il premier e due per Camera e Senato, con risultati che potrebbero essere difformi: un candidato premier potrebbe risultare il più votato ma non così la sua maggioranza.

Forse «contestuale» non è un avverbio di tempo ma di modo: l’elezione del Parlamento è «a traino» di quella del Premier e qui si entra nell’incostituzionalità, perché si limita la possibilità dell’elettore di scegliere i propri rappresentati alla Camera e al Senato, che sono organi diversi dal Governo. E anche in tal caso Camera e Senato potrebbero dare esiti diversi. La speranza è che il lampione di G.B. Shaw sia molto luminoso e solido

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