Scritto da Michele Giorgio, GERUSALEMME su il manifesto
STRISCIA DI SANGUE. Un Hermes 450 ha aperto il fuoco per tre volte contro le auto della World Central Kitchen che garantisce pasti caldi a Gaza. Per Netanyahu è stato solo un incidente. Sono 200 i membri di Ong e agenzie umanitarie uccisi. 174 lavoravano per l’Onu, cinque per Msf
Deir al-Balah, i passaporti sporchi di sangue di tre degli operatori uccisi (uno britannico, uno polacco, uno australiano) nell’attacco israeliano - Abdel Kareem Hana /Ap
L’australiana Lalzawmi Frankcom, detta Zomi, era la più vitale ed entusiasta degli operatori della Ong World Centrale Kitchen (Wck) a Gaza. Aveva aiutato popolazioni in difficoltà in tutto il mondo e non nascondeva la passione per i video che postava regolarmente in rete. Meri Calvelli, storica cooperante italiana a Gaza per conto dell’Acs, l’aveva incontrata un paio di settimane fa al Cairo. «Abbiamo scambiato qualche parola nell’ufficio egiziano della Wck, sul lavoro da fare a Gaza e la possibilità di realizzare qualche progetto insieme per aiutare a sfamare la popolazione di Gaza. Mi è sembrata una ragazza molto motivata», ci raccontava ieri Calvelli. Zomi faceva parte del gruppo di sette operatori umanitari della Wck – tre britannici, una australiana, un polacco, uno con doppia cittadinanza canadese e statunitense e un palestinese – uccisi nella notte tra lunedì e martedì da un drone israeliano che ha fatto fuoco contro le loro auto per ben tre volte. Una strage che conferma quanto la vita dei civili a Gaza sia sempre appesa a un filo di fronte a forze armate potenti, in grado di sorvegliare tutto. Certe aree della Striscia, dichiarate unilateralmente da Israele «zone di combattimento» sono delle kill zone a tutti gli effetti, in cui i militari sparano senza esitare un secondo su tutto ciò che si muove. Lo denunciava qualche giorno fa anche il quotidiano israeliano Haaretz.
Le condanne e le critiche internazionali ieri si sono moltiplicate con il passare delle ore. Dagli Usa all’Australia fino a Bruxelles sono giunte richieste ad indagare sull’accaduto. Ma il premier Netanyahu ha già anticipato la spiegazione che tra qualche tempo Israele darà di questa strage di operatori umanitari. «È stato un tragico caso», ha detto il premier israeliano. «Le nostre forze hanno colpito senza intenzione gente innocente…Questo succede in guerra e apriremo un’indagine», ha aggiunto Netanyahu. Simili le dichiarazioni del ministro della Difesa Gallant. L’indagine israeliana sarà condotta dal generale della riserva Yoav Har Even. Ma ieri già spuntava fuori la teoria della presenza di un «terrorista armato» nel convoglio di tre auto prese di mira.
Erin Gore
È stato un attacco alle organizzazioni umanitarie che lavorano nelle situazioni in cui il cibo è utilizzato come arma di guerra
La World Central Kitchen è una ong ispano-americana fondata dallo chef Jose Andrès, che ha un centinaio di punti di cottura e magazzini per il cibo in tutta Gaza. Ogni giorno garantisce decine di migliaia di pasti caldi ad altrettanti palestinesi. Qualche settimana fa era finita sulle pagine dei giornali di tutto il mondo per
L'attacco ha distrutto il consolato e la residenza dell’ambasciatore iraniano, rimasto illeso; il bilancio delle vittime è salito a undici. "La nostra risposta sarà dura" dice l'ambasciatore
Un attacco aereo attribuito a Israele ha distrutto il 1° aprile l'edificio dell'ambasciata iraniana a Damasco, uccidendoalmeno undici persone, tra cui un generale delle Guardie rivoluzionarie iraniane, Mohammad Reza Zahedi.
"Il bilancio delle vittime degli attacchi israeliani all'edificio annesso all'ambasciata iraniana è salito a undici: otto iraniani, due siriani e un libanese - tutti combattenti, nessun civile", ha affermato nella serata di lunedì Rami Abdel Rahman, che dirige l'Osservatorio siriano per i diritti umani con sede in Gran Bretagna. Nelle stesse ore centinaia di manifestanti sono scesi in piazza a Teheran sventolando bandiere dell'Iran e della Palestina, invocando "vendetta" e scandendo slogan come "Morte all'America" e "Morte a Israele". Nel corso della manifestazione sono state anche bruciate bandiere israeliane e statunitensi.
L'Iran accusa gli Stati Uniti: responsabili in quanto principale alleato di Israele
"La risposta di Teheran sarà dura", ha dichiarato l'ambasciatore iraniano Hossein Akbari, uscito illeso dall'attacco.
A poche ore dal raid, l'agenzia di stampa statale Sana, citando una fonte militare non identificata, aveva detto che l'edificio nel quartiere di Mazzeh, strettamente sorvegliato, è stato raso al suolo.
Martedì il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, ha reso noto di aver inviato agli Stati Uniti un messaggio in cui comunica che ritiene il Paese responsabile, in quanto principale alleato di Israele.
L'esercito israeliano non ha ancora commentato. Negli ultimi anni Israele ha effettuato centinaia di attacchi contro obiettivi in Siria, intensificati negli ultimi mesi sullo sfondo della guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza e degli scontri in corso tra l'esercito israeliano e Hezbollah al confine con il Libano.
Anche se raramente rivendica le sue azioni in Siria, Israele ha dichiarato di prendere di mira le basi di gruppi militanti alleati dell'Iran come Hezbollah, che ha inviato migliaia di combattenti a sostegno delle forze del presidente siriano Bashar Assad.
Scritto da Sebastiano Canetta, BERLINO su il manifesto
La Germania è un passo avanti al resto d’Europa: da ieri il consumo e la coltivazione della cannabis sono legali, pur con regole precise. Una boccata di sollievo per 4,5 milioni di «kiffer» che festeggiano. E una lezione per l’Italia dove per 25 grammi si rischia il carcere
L'ERBA DEL VICINO. Depenalizzazione di consumo e coltivazione. Ma acquisto solo dopo l’iscrizione ai Club. Una boccata di sollievo per oltre 4,5 milioni di consumatori tedeschi. Regole stringenti per evitare l’«effetto Olanda». La freddezza di Wagenknecht
Berlino, festa alla Porta di Brandeburgo per la legalizzazione della cannabis - foto di Ebrahim Noroozi/Ap
«Finalmente non dobbiamo più nasconderci». Un minuto dopo mezzanotte sotto la Porta di Brandeburgo si respira aria di libertà, prima ancora della zaffata di centinaia di canne appicciate per festeggiare l’entrata di vigore del Cannabis Act varato dal governo Scholz.
SONO TUTTI FELICI. I 1.500 «Kiffer» («fumatore di spinelli» in tedesco) che ballano al ritmo delle canzoni di Bob Marley lanciando le stelle filanti per sancire la fine della criminalizzazione, ma anche le decine di agenti della Polizei che li circondano: per la prima volta si ritrovano in veste di tutori del «regolare svolgimento di un raduno pubblico» e non nei panni dei repressori. Così in tutti i Land della Germania, dalle Città-Stato alternative di Berlino e Amburgo storicamente tolleranti fino alla conservatrice Baviera dove i «Kiffer» sono pure uno ogni dieci giovani nella fascia 18-25 anni.
IN TOTALE A BENEFICIARE della liberazione dell’incubo della denuncia penale saranno oltre 4,5 milioni di tedeschi: 2,8 milioni di uomini e 1,7 di donne consumatori regolari di cannabis a uso ricreativo. Per loro sparisce per sempre il rischio di denuncia per la serie di reati connessi che spaziava dalla produzione al consumo. Ma si azzerano di colpo anche i procedimenti penali sul tavolo dei giudici sommersi di processi destinati a finire nel nulla in maggioranza dei casi pur costando milioni alle casse statali. «Saranno circa 215 mila denunce in meno all’anno» quantificano al ministero della Giustizia, quarto dicastero del governo Scholz coinvolto nella liberalizzazione dopo la Sanità, l’Interno e l’Economia.
«TUTELARE LA SALUTE dei consumatori offrendo cannabis non sofisticata. Azzerare il mercato nero in mano alla criminalità organizzata, trasformandolo la vendita in legale anche sotto il profilo fiscale. Alleggerire il carico dei tribunali». Ufficialmente sono i tre “piccioni” della “fava” della svolta antiproibizionista della coalizione Spd, Verdi e liberali, approvata dal Bundestag e infine ratificata una settimana fa dal Bundesrat. Argomenti convincenti per la maggior parte dei tedeschi, come confermano i sondaggi, Ma cannabis libera non significa incondizionata. Resta vietato fumare vicino a scuole, parchi e strutture sportive: è il passaggio della legge che ha convinto il ministro della Sanità, Karl Lauterbach della Spd, a dare il via libera rivedendo le vecchie posizioni. «Da medico mi sono ricreduto» confessa il ministro che ha spinto per incardinare il Cannabis Act ai finanziamenti alle campagne di riduzione del danno e uso consapevole.
NEL PARTY sotto la Porta di Brandeburgo spiccava il «free Thc test» offerto a chi voleva misurare la quantità di principio attivo della propria marjuana. Fai da te necessario in attesa dei “Cannabis Club” pronti a luglio. Saranno le uniche strutture autorizzate alla distribuzione controllata e non potranno essere in alcun modo business-oriented: con una missione «culturale e ricreativa» potranno vendere la sostanza soltanto ai soci. Formalmente, si tratta della distribuzione del raccolto del “Cannabis Club” assimilati alle cooperative di consumatori; politicamente è anche il trucco per non trasformare la svolta nel modello Amsterdam che attira milioni di turisti.
ANTICIPATA dalle liberalizzazioni di Malta nel 2021 e del Lussemburgo l’anno scorso, la legislazione sulla cannabis introdotta in Germania rappresenta giuridicamente la punta più avanzata tra le democrazie europee. Contrariamente ai Paesi Bassi che tollerano vendita e consumo pur in presenza del divieto di legge, il governo Scholz ha scelto la via della depenalizzazione totale. Soprattutto a ciò si devono i mesi di ritardo rispetto agli annunci di inizio legislatura quando si dava la svolta sulla cannabis come imminente. La coalizione Semaforo ha faticato non poco a trattare con la Commissione di Bruxelles, contraria alla «forzatura» della Germania in grado di rimettere in discussione l’intera impalcatura Ue fondata sul proibizionismo senza se e ma. Non è stato invece un vero problema superare l’opposizione dei deputati Cdu-Csu che fino all’ultimo hanno tentato di bloccare la legge con vari espedienti parlamentari. Unici contrari alla legalizzazione insieme ai fascio-nazionalisti di Afd.
FESTEGGIA invece la Linke antiproibizionista ma anche l’alleanza di Sahra Wagenknecht – pur preoccupata per «i rischi per la salute» e tutt’altro che favorevole allo sballo creativo – La leader sovranista ha acceso la luce verde alla nuova legge. «Sono per il rilascio controllato della cannabis agli adulti, perché il veto finora ha solo incoraggiato la criminalità organizzata. Però è necessario affrontare le cause che spingono le persone a drogarsi. Sogno una società in cui i cittadini abbiano prospettive migliori che sballarsi»
Scritto da Michele Giorgio, GERUSALEMME su il manifesto
ISRAELE. La protesta si allarga: non solo più le famiglie degli ostaggi. Il governo: «Chi manifesta favorisce Hamas». Ma nessuno ci crede più.
Gerusalemme. Proteste contro il premier Netanyahu - Ap
Ronit Haufmann si è unita alle proteste domenica, quando un fiume umano ha raggiunto la Knesset per una nuova ondata di contestazioni del primo ministro Netanyahu. Ora è alla tendopoli allestita dai manifestanti davanti al parlamento. «Queste manifestazioni non sono più soltanto per chiedere un compromesso (con Hamas) che porti alla liberazione degli ostaggi. Vogliamo di più, le dimissioni di Netanyahu e le elezioni anticipate», spiega Ronit descrivendo l’escalation politica avuta dalla battaglia contro il premier cominciata mesi fa dalle famiglie degli ostaggi israeliani a Gaza. «Netanyahu è un fallimento totale, ha sbagliato tutto. Un anno fa ha attaccato le istituzioni giudiziarie, poi non saputo prevenire il 7 ottobre e non ha riportato a casa tutti gli ostaggi. E ora vuole permettere agli ebrei haredim (suoi alleati) di evitare la leva obbligatoria» aggiunge Ronit riferendosi al progetto di legge sostenuto dal primo ministro che esenta i giovani ultraortodossi dal servizio militare. A pochi metri, seduta accanto a un muretto all’ombra, c’è una anziana, con un gomitolo di lana rossa ai suoi piedi, che lavora a maglia la sua parte di una lunga sciarpa, ben 80 chilometri, che dovrà idealmente unire la tendopoli di Gerusalemme agli ostaggi a Gaza.
Dopo mesi le proteste sono sfociate in una contestazione che abbraccia un po’ tutto e non più solo l’insoddisfazione, se non la rabbia, delle famiglie degli ostaggi per negoziati in Qatar e al Cairo, ripresi ieri, che non hanno
Scritto da di Monica Ricci Sargentini, inviata a Istanbul sul Corriere
Il partito secolarista Chp supera l’Akp a livello nazionale. Un sorpasso storico. Imamoglu: «Avete aperto la porta per il futuro. Ha vinto la democrazia»
ISTANBUL — «Abbiamo vinto, è finita l’era del’uomo solo al comando». È raggiante Ekrem Imamoglu , il sindaco di Istanbul che, con il 99% delle schede scrutinate, ha ottenuto più del 50% dei consensi, venendo riconfermato come primo cittadino e battendo quindi Murat Kurum, il candidato sostenuto dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, fermo al 40%. Quando sale sul palco la piazza esplode in un grido liberatorio, lo acclama come il vincitore di una guerra lunghissima. «I 16 milioni di cittadini di questa città hanno vinto —grida —, donne, giovani, curdi, cristiani, siriani, ebrei e le persone di tutti i credi hanno vinto». La folla gli chiede di togliersi la giacca e la cravatta, un gesto che ormai fa in tutti i comizi. Si arrotola le maniche. Ora è uno del popolo. «Quello di oggi —ha detto— è un messaggio per il presidente Erdogan e per il governo. I soldi ora devono essere spesi per la gente, basta sprechi».
Ieri sera, non appena la vittoria di Imamoglu è apparsa chiara, la gente si è data appuntamento nella piazza Sarachane, nel quartiere di Fatih, roccaforte del partito islamico. Un fiume di persone, giovani, famiglie con i bambini in braccio, le bandiere rosse con la mezzaluna in mano, si è riversato per le strade ballando e cantando in un’esplosione di felicità che non si vedeva da tempo. Quando lui è arrivato sul palco hanno il suo nome «Ekrem Imamoglu», «Ekrem Imamoglu». Le luci dei telefonini, i fuochi d’artificio, le lanterne in cielo hanno creato un’atmosfera da fiaba. «La Turchia è nata secolare e tale rimarrà». «Erdogan dimettiti», hanno gridato.
«Il quadro mi sembra meraviglioso, siamo molto felici. Il 40% delle schede è stato scrutinato e siamo in testa». Con queste parole il sindaco uscente Ekrem Imamoglu, uno degli esponenti di punta del partito kemalista Chp, spina nel fianco del presidente Recep Tayyip Erdogan, si era rivolto ai giornalisti nel quartier generale del partito ad Istanbul alle 19,45 ora locale (le 18,45 in Italia). A differenza di 5 anni fa, il Chp ha vinto anche nella maggior parte dei distretti della
IL LIMITE IGNOTO. L'Ad di Leonardo Cingolani: «Nessuno può dirsi al sicuro»
Il presidente ucraino Zelensky -Ap
Invece che al fronte, in Ucraina le rotazioni continuano ad avvenire perlopiù al vertice. Ieri Volodymyr Zelensky ha infatti rimosso dal loro incarico ben sei figure con compiti di responsabilità: in particolare, il primo assistente presidenziale Serhiy Shefir – fondatore assieme allo stesso Zelensky della casa di produzione televisiva Kvartal95, in carica dal 2019 e scampato a un tentativo di assassinio qualche mese prima della scoppio della guerra. Si tratta di una delle persone più vicine all’attuale presidente di Kiev, di cui ha favorito e sostenuto l’ascesa politica.
Oltre a Shefir sono stati licenziati altri tre consulenti, Mykhailo Radutsky, Serhiy Trofimov e Oleg Ustenko, la commissaria per la garanzia dei diritti dei militari, Olena Verbitskaya, e la commissaria per le attività di volontariato, Natalia Pushkareva. Non ci sono al momento motivazioni ufficiali per questa decisione, ma la realtà è che un rimpasto dell’apparato dirigenziale del paese è in atto da tempo – almeno da quando è stato rimpiazzato lo scorso febbraio il comandante delle forze armate Zaluzhny e, contestualmente, Zelensky aveva fatto trapelare in alcune interviste che ci sarebbe stato un «serio reset» ai piani alti (ancora quattro licenziamenti l’altro ieri, oltre al trasferimento “eccellente” di Oleksei Danilov all’ambasciata moldava). Una lunga analisi dell’Ukrainska Pravda conferma, attraverso fonti interne alla compagine governativa, che si tratta di un processo ampio destinato a interessare altre figure nei giorni a venire.
Ma per Zelensky sono forse più importanti i «cambi di passo» al di fuori del proprio paese. In un’intervista concessa al Washington Post, il presidente ucraino ha chiesto insistentemente che gli Usa si affrettino con gli aiuti militari e soprattutto che forniscano all’Ucraina i missili a lungo raggio Atacms, senza i quali Kiev «potrebbe essere costretta ad arretrare». La tattica paventata è quella di colpire obiettivi militari e aerei in Crimea, occupata dalla Russia ormai da dieci anni e territorio da sempre sensibile agli occhi di Mosca per via della base di Sebastopoli.
Altrimenti, ha quasi minacciato Zelensky, «l’Ucraina intensificherà i suoi contrattacchi nello spazio aereo russo, verso le infrastrutture energetiche e altri bersagli strategici». Dall’Ucraina agli Stati uniti cresce dunque la richiesta di armi e di rafforzamento militare, passando per le esternazioni dei leader europei e non da ultimo dell’ex-ministro Roberto Cingolani: «Nessuno può dirsi davvero al sicuro», ha detto ieri l’amministratore delegato della Leonardo