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Un emendamento di Fd’I autorizza le Regioni ad usare per le organizzazioni pro-life una parte dei fondi destinati alla Sanità. Anna Pompili: «La mistificazione sta nel far apparire volutamente i gruppi anti-scelta e anti-genere come formazioni sociali a supporto delle madri in difficoltà»

Anti abortisti nei consultori coi soldi del Pnrr La ministra alla Famiglia Eugenia Roccella - Ansa

La presenza, sotto mentite spoglie, delle associazioni pro-life nei consultori non è esattamente una novità. Ma a pochi giorni dalla risoluzione votata a Bruxelles per inserire l’aborto tra i diritti fondamentali dell’Ue e per vietare i finanziamenti ai «gruppi anti-genere e anti-scelta», la destra italiana ha pensato bene di rafforzare la mistificazione con la quale da anni  le organizzazioni antiabortiste si presentano come formazioni sociali di base a supporto delle donne madri. E soprattutto di finanziarle. Lo fa con un emendamento, approvato in commissione Bilancio della Camera, all’articolo 44 del ddl per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza su cui il governo ha messo la fiducia. Il testo dell’emendamento firmato da Lorenzo Malagola di FdI stabilisce la possibilità per le Regioni di utilizzare i fondi del Pnrr dedicati alla salute (Missione 6, Componente 1) per l’organizzazione dei servizi dei consultori che possono «avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità».

IN SOSTANZA, spiega la senatrice Alessandra Maiorino del M5S, «si autorizzano le Regioni a dedicare ai pro-life una parte dei soldi del Pnrr destinati alla sanità». Anche il Pd e Avs stigmatizzano la nuova norma considerandola un nuovo subdolo tentativo di mettere in discussione il diritto all’aborto. « I consultori sono un servizio fondamentale di accompagnamento, ascolto e prevenzione e vanno ampliati e migliorati per renderli efficienti e funzionanti. Servono competenza e personale qualificato non associazioni ideologiche e oscurantiste», attacca il responsabile welfare del Pd Marco Furfaro assicurando battaglia «fuori e dentro il Parlamento».

IN REALTÀ PERÒ è la stessa legge 194/78 che autorizza la presenza nei consultori delle associazioni di supporto delle donne che vogliono diventare madri: «I consultori – recita l’articolo 2 – sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita». Ma, come spiega la ginecologa e attivista Anna Pompili, «molte associazioni che si presentano come sostenitrici delle donne madri in difficoltà nei fatti si trasformano nel cavallo di troia dei pro-life».

L’avvocata bolognese Milli Virgilio conosce bene questo tipo di mistificazione e spesso ha scoperto dallo statuto di questo tipo di organizzazioni la loro vera natura anti-abortista. È il caso del Piemonte, per esempio, dove l’assessore regionale alle Politiche sociali, il meloniano Maurizio Marrone, ha autorizzato il Movimento per la vita a gestire una «stanza dell’ascolto» del feto («stanza della colpevolizzazione e della dissuasione», l’ha chiamata la senatrice dem Cecilia D’Elia) all’interno dell’ospedale Sant’Anna di Torino. Mentre nel Lazio il governatore vicino a Fd’I, Francesco Rocca, ha escluso i 155 consultori familiari dalla gestione del bonus alle neo mamme dando invece maggior potere ai centri di aiuto per la vita gestiti dalle associazioni cattoliche.

E INVECE, come chiedono in un odg presentato ieri i deputati pentastellati della commissione Affari sociali, il governo dovrebbe pensare piuttosto «a potenziare e riqualificare l’attività dei consultori familiari nel territorio nazionale, garantendo un rapporto minimo di un consultorio – o di una struttura con il personale di un consultorio e svolgente le sue funzioni – per ogni 20.000 abitanti nei centri urbani, nonché di un consultorio ogni 10.000 abitanti nelle zone rurali». Un panorama attualmente inesistente nel nostro Paese

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E’ passato un anno dall’inizio della guerra in Sudan, un conflitto che ha causato una devastante crisi umanitaria e ha riportato alla luce tensioni etniche e politiche esistenti da tempo.

 Guerra in Sudan

Finora tutti tentativi di mediazione per fermare le ostilità tra i due generali, Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”, leader delle Rapid Support Forces (RSF), gli ex janjaweed, e il de facto presidente e capo dell’esercito, Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, sono falliti. E a nulla sono valsi i continui appelli da parte delle Organizzazioni internazionali per venire in aiuto alla popolazione, che è costretta ad assistere inerme alla distruzione del proprio Paese.

Eppure le organizzazioni per la difesa dei diritti umani e quelle impegnate nell’assistenza umanitaria continuano a lanciare appelli per un cessate il fuoco alle due fazioni in lotta. Ma inutilmente. Si continua a combattere e a spargere sangue.

In dodici mesi di lotta per il potere sono morte quasi 16 mila persone – cifra certamente sottostimata per la difficoltà di raccogliere dati accurati e in tempo reale  – mentre gli sfollati sono oltre 9 milioni. I profughi, coloro che hanno cercato protezione nei Paesi confinanti, sono circa 1.500.000. Secondo le Nazioni Unite, il Sudan è oggi il Paese con il numero di sfollati più elevato al mondo e ben oltre la metà dei 45 milioni di abitanti del Paese soffre di grave insicurezza alimentare.

Sudanesi in fuga

Il sistema sanitario del Sudan è al collasso; difficile controllare persino l’espandersi di malattie come il morbillo e il colera. Le agenzie umanitarie hanno affermato che l’esercito limita l’accesso agli aiuti umanitari e che quel poco che riesce a passare è a rischio di saccheggio nelle aree controllate dagli uomini di Hemetti.

E proprio in questi giorni Martin Griffiths, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, ha invitato la comunità internazionale ad “assumersi le proprie responsabilità” dopo un anno di conflitto devastante. “Come ho già detto, appena tre mesi dopo l’inizio del conflitto, il mondo non può ignorare l’eco dolorosa della storia. Ma in qualche modo abbiamo dimenticato l’indimenticabile. E le conseguenze di questo oblio sono imperdonabili”, ha sottolineato Griffith’s in un suo lungo comunicato.

Domani Parigi ospiterà un doppio evento incentrato sia sulla situazione politica del Sudan, sia su quello umanitario. La conferenza è stata organizzata in collaborazione con Francia, Germania e Unione Europea. Al meeting saranno presenti anche rappresentanti dei governi dei Paesi vicini, leader civili sudanesi e organizzazioni umanitarie internazionali, ma nessuna rappresentanza delle due parti in conflitto.

Il ministero degli Esteri di Khartoum si è opposto alla conferenza di Parigi e in un comunicato ha sottolineato di essere stupito perché sia stata organizzato un tale evento su una questione che riguarda il Sudan, senza consultazione o coordinamento con il governo del Paese e senza la sua partecipazione.

Dopo l’inizio dei combattimenti scoppiati il 15 aprile 2023 nella capitale del Sudan, la guerra si è estesa nel Darfur e in diverse altre zone, tra queste il Kordofan, il Nilo Blu e Merowe, città settentrionale vicina all’Egitto e al Nilo, dove si trovano importanti miniere d’oro e un aeroporto militare.

La guerra ha spinto il Darfur, già in ginocchio da conflitti mai risolti, in una posizione ancora più vulnerabile. Lì, le tribù arabe e non arabe, come i Masalit, hanno combattuto per le scarse risorse di terre e acqua per oltre 20 anni. Ora gli scontri hanno assunto una dimensione etnica.

Un sempre crescente numero di testimonianze e documenti ha paragonato gli attacchi attuali a una pulizia etnica, aggressioni perpetrate da milizie arabe insieme a membri delle RSF. Ovviamente i responsabili hanno negato tutte le accuse.

Come Africa ExPress ha documentato in diversi articoli, le RFS sono supportate oltre che dai mercenari russi di Wagner (ora African Corps) anche dagli Emirati Arabi Uniti e da Haftar (Libia).

Cargo proveniente dagli Emirati Arabi Uniti

Gli attori stranieri sono coinvolti nell’invio di armi in Sudan. Il New York Times, in un suo articolo del del 29 settembre scorso, ha affermato che gli Emirati Arabi Uniti stanno fornendo armi e assistenza sanitaria alle RSF da una base in Ciad.

E, giacchè la parte orientale della ex colonia italiana è controllata dall’Esercito nazionale libico (LNA) di Khalifa Haftar, i cui comandanti hanno stretti legami con le RSF e altri gruppi armati del Darfur, arrivano rifornimenti anche da lì. I consulenti delle Nazioni Unite, in un recente rapporto hanno identificato la Libia come fornitrice di armi, carburante e autovetture agli ex janjaweed. Mentre dall’autunno dello scorso anno forze speciali ucraine combattono accanto ai militari dell’esercito di al-Burhan.

Cornelia I. Toelgyes
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
X: @cotoelgyes

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Israele non ascolta nessuno, né Biden né l’Ue: avanti con l’attacco all’Iran. Il premier che ha costruito una carriera
sullo scontro con Teheran è pronto ad aprire una crisi senza precedenti. E Gaza scompare, insieme alle bombe sugli sfollati e alle fosse comuni allo Shifa

MEDIO ORIENTE IN GUERRA. Netanyahu e il gabinetto di guerra decisi a reagire con la forza all’attacco di Teheran. Decine di uccisi a Gaza messa ai margini. Nuova offerta di Hamas per lo scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi. Per Israele è inaccettabile

Inutili le pressioni di Usa e Europa. Israele vuole colpire l’Iran Gaza. Migliaia di sfollati palestinesi cercano di tornare al nord - Ap

L’attacco di Israele all’Iran ci sarà, al più presto, forse nelle prossime ore. Ieri pomeriggio è apparso chiaro che le pressioni del mondo su Tel Aviv, affinché siano evitate azioni militari che potrebbero innescare una escalation regionale, non avevano avuto successo quando Benyamin Netanyahu ha convocato due leader dell’opposizione, Gideon Saar e Avigdor Lieberman, ma non il centrista Yair Lapid, per informarli della decisione che ha preso assieme agli altri membri del gabinetto di guerra. E la decisione è un attacco militare, in risposta a quello lanciato sabato notte dall’Iran con droni e missili – fermato in gran parte – che a sua volta era una rappresaglia per il raid aereo israeliano al consolato dell’Iran a Damasco (16 morti). Poi, il portale di informazione Walla, ha riferito quella che può essere considerata la posizione finale di Israele. «Non c’è altra scelta se non quella di rispondere all’attacco dell’Iran», ha detto il ministro della Difesa Yoav Gallant in una conversazione avuta con il capo del Pentagono Lloyd Austin. Simili le parole del capo di stato maggiore Herzi Halevi. La tv Canale 12, al termine della riunione del gabinetto di guerra, ha riportato che sono state discusse «diverse opzioni…in modo che non sia bloccate dagli Usa», ognuna delle quali dovrà rappresentare «una risposta dolorosa» all’attacco di Teheran senza scatenare «una guerra regionale». Questa cautela è soltanto fumo. Se ci sarà l’attacco israeliano all’Iran, il rischio di una guerra totale tra i due paesi, dalle conseguenze inimmaginabili, sarà eccezionalmente alto, con il probabile coinvolgimento di altri attori regionali come il movimento sciita libanese Hezbollah già impegnato in scontri quotidiani con Israele lungo il confine. Ieri il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian, è stato molto chiaro: Teheran non vuole un aumento delle tensioni ma risponderà immediatamente e con più forza di sabato a un attacco israeliano.

Che il blitz militare israeliano sia una questione di ore o di qualche giorno, lo dice anche il rinvio ordinato a Netanyahu del piano di invasione della città di Rafah, a sud di Gaza. Ieri, secondo alcune fonti, l’esercito avrebbe dovuto avviare

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MEDIO ORIENTE. Abbattuti centinaia di droni e missili lanciati nella notte dall'Iran. Nessun danno importante militare o civile in Israele. Diplomazie al lavoro per fermare l'escalation. Tehran annuncia che l'operazione di rappresaglia è finita e che non intraprenderà ulteriori azioni a meno che il paese non sarà attaccato

 Donne in Piazza Palestina a Tehran la mattina dopo l'attacco a Israele - Atta Kenare Afp via Getty Images

Poco dopo l’alba, il portavoce delle Forze armate israeliane, il contrammiraglio Daniel Hagari, traccia il bilancio dell’attacco iraniano contro Israele.

Hagari ha confermato che il 99% dei 300 fra missili e droni lanciati durante la notte è stato intercettato e abbattuto dalla difesa aerea.

In particolare, ha spiegato, sono stati lanciati 170 droni nessuno dei quali è arrivato allo spazio aereo israeliano: tutti sono stati abbattuti fuori dai confini del paese da Israele e dai suoi alleati.

Neanche i 30 missili da crociera sono riusciti ad entrare nello spazio aereo israeliano: 25 sono stati abbattuti dall’aeronautica israeliana.

La mappa degli allarmi aerei diffusi da Idf

La mappa degli allarmi aerei diffusi da Idf, foto Ap

Sono poi stati lanciati 120 missili balistici, alcuni dei quali hanno aggirato le difese israeliane colpendo la base aerea di Nevatim nel sud di Israele: hanno causato solo danni leggeri e la base continua ad essere regolarmente operativa.

Quanto ai pochi droni e missili lanciati da Iraq e Yemen,

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PUGLIA NEL CAOS. L’ex magistrato potrebbe essere il terzo nome per il Comune, ma Laforgia e Leccese non hanno ancora detto sì al ritiro. La destra schiera il leghista Romito. Emiliano alle prese con il rimpasto in giunta voluto da Pd e Si

 Nicola Colaianni

A Bari potrebbe arrivare una schiarita dentro il centrosinistra. Il condizionale è d’obbligo, dopo settimane di passione e di inchieste che hanno terremotato la giunta regionale di Emiliano e fatto saltare le primarie per il candidato sindaco.

IL TERZO NOME CHE POTREBBE portare al ritiro dei due sfidanti per il Comune Vito Leccese e Michele Laforgia adesso c’è: si tratta del giurista Nicola Colaianni, ex magistrato, ex professore universitario, ed ex parlamentare del Pds negli anni 90. «Sono stato contattato da Nichi Vendola per una ipotetica candidatura unitaria nel centrosinistra e abbiamo valutato questa possibilità. Mi risulta che ora si stiano riunendo e vedremo. In linea di massima c’è una mia disponibilità, sarei orientato ad accettare», ha detto ieri Colaianni.

DENTRO SINISTRA ITALIANA, il partito che ha più lavorato per evitare una frattura, c’è un certo ottimismo sulla possibilità di arrivare all’accordo. Colaianni infatti è una figura autorevole, non in stretta continuità con la giunta Decato, dal curriculum impeccabile. «Una riserva del centrosinistra», lo definisce chi ha lavorato al dossier. Nel frattempo è in corso una riunione della Convenzione, il cartello elettorale che sostiene la candidatura di Laforgia, e si sta discutendo anche di questa proposta.

IERI LAFORGIA HA RIUNITO la Convenzione per Bari, il gruppo civico che ha lanciato la sua candidatura mesi fa, per decidere il da farsi. Alla fine le forze che lo sostengono, compresi i 5s, gli hanno dato mandato di «verificare se ci sono le condizioni politiche per condividere la proposta di candidatura unitaria di Colaianni». Poi ci sarà una nuova riunione. Anche Leccese (sostenuto dal Pd) aveva da tempo dato la sua disponibilità a fare un passo indietro. Dal suo staff ieri nessun commento sulla nuova ipotesi di mediazione. Per i due sfidanti, ormai in piena campagna elettorale, non è semplice rinunciare. Pesa anche il fatto che Colaianni sia del 1946, cioè abbia circa quarant’anni in più del candidato del centrodestra, ufficializzato ieri, il consigliere regionale leghista Fabio Romito.

Strenuo difensore della Costituzione, tra i promotori al no al referendum di Renzi nel 2016 e ora dell’autonomia di Calderoli, membro dei «Comitati per la Costituzione» fondati da Giuseppe Dossetti, cattolico, Colaianni è l’ultima carta da giocare sul tavolo di una possibile ricomposizione del centrosinistra. Se l’ipotesi dovesse fallire, si andrà alle urne di giugno con Leccese e Laforgia.

SULLA STRADA DI COLAIANNI ci sono ancora punti interrogativi. Il primo è che, a quanto si apprende, Giuseppe Conte non è stato coinvolto nella trattativa, che ha riguardato Laforgia, Leccese e il sindaco uscente Antonio Decaro. Il ragionamento è che, di fronte a un ritiro di Laforgia, Conte- rimasto senza candidato- non avrebbe alternative. Anche perché i numeri del M5S nel Comune di Bari non sono mai stati rilevanti. Pare anche che Laforgia, già candidato per Leu in Parlamento, non abbia intenzione di correre come candidato di Conte, senza cioè il sostegno della Sinistra. «Il profilo di Colaianni non è in discussione, è notoriamente vicino alla mia cultura giuridica e politica», fa sapere Laforgia. «Ma la decisione spetta prima alla Convenzione e al M5S, e solo alla fine a me».

SUL TAVOLO DEL CENTROSINISTRA c’è anche il dossier Emiliano, che negli ultimi giorni ha perso due assessore: Anita Maurodinoia perché indagata e Rosa Barone dei 5s dopo la decisione di Conte di uscire dalla giunta. Il governatore ha convocato per martedì un vertice di maggioranza per studiare il da farsi. Schlein venerdì gli ha spiegato in una telefonata (e poi in un comunicato) che i dem non accetteranno un maquillage, con la sostituzione delle sole due assessore, ma vogliono un reset più generale. Di «azzeramento della giunta» parla da giorni anche Fratoianni.

Emiliano può sperare che i 5S rientrino (forse dopo le europee) andando ad occupare il nuovo assessorato alla Legalità suggerito da Conte. Ma deve dare subito una risposta a Pd e Si. Emiliano non vorrebbe resettare, ha stima dei suoi assessori e non vuole punirli; ha anche il vincolo di doverne prendere 8 su 10 tra i consiglieri regionali, dunque non può dar vita a una squadra di tecnici. Potrebbero entrare in squadra i dem Francesco Paolicelli. Lucia Parchitelli o Debora Ciliento.

Potrebbe saltare la presidenza della commissione Ambiente per Michele Mazzarano, condannato in via definitiva a 9 mesi per corruzione elettorale, espulso dal Pd nei giorni scorsi. Potrebbe rientrare l’infettivologo Pierluigi Lopalco, assessore alla Sanità nel 2020 poi dimessosi per liti con Emiliano. Nel mirino del Nazareno ci sono anche i due assessori che vengono dal centrodestra: l’ex forzista Rocco Palese (Sanità) e Gianni Stea (Personale). Andrea Orlando non molla: «Bisogna combattere alla radice il trasformismo»

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«L’attacco dell’Iran è iniziato». Dopo una giornata ad alta tensione per il sequestro di una nave legata a Tel Aviv, nella notte uno sciame di missili e droni punta su Israele. Netanyahu chiude le scuole e parla al paese: «Pronti a ogni scenario, risponderemo»

ISRAELE/PALESTINA. La conferma anche sul canale tv dei Pasdaran. L’Air Force One israeliano decolla di colpo, messaggio al paese di Netanyahu: siamo pronti, risponderemo. In precedenza sequestrato nel Mar Rosso un cargo in uso alla Zodiac dell’armatore Ofer

Veduta aerea della città di Tel Aviv foto Getty Images Veduta aerea di Tel Aviv

«L’Iran ha lanciato decine di droni contro Israele». In una giornata fatta di paura, poco prima delle 22 ora italiana è un giornalista del portale Axios, Barak Ravid, a segnalare che la rappresaglia iraniana è cominciata. E in pochi istanti l’etere mondiale si incendia di supposizioni e di dichiarazioni.

L’aereo personale di Benyamin Netanyahu decolla all’improvviso, lo stesso premier annuncia al paese via tv che «Israele è forte, siamo preparati, risponderemo a ogni minaccia», e manda un portavoce militare davanti alle telecamere per confermare che sì, «molti droni» sono decollati dall’Iran e dall’Iraq (chi dice decine, chi addirittura centinaia). Il presidente americano Joe Biden anticipa di corsa il ritorno a Washington (era a casa nel Delaware) mentre gli Stati uniti confermano a loro volta che i droni hanno decollato, e comincia a girare un video dall’Iraq che registrerebbe il rumore degli apparecchi al loro passaggio.

PER COPRIRE la distanza tra Iran e Israele, i droni ci mettono molte ore, anche fino all’alba di domenica. Della partenza di missili Cruise hanno parlato invece i pasdaran dal loro canale tv . L’attacco contro Israele, la ritorsione promessa dopo il recente bombardamento israeliano al consolato iraniano a Damasco, in cui sono stati uccisi 7 ufficiali iraniani tra cui due generali, è davvero cominciato. Poco prima Israele aveva chiuso

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