ISRAELE/PALESTINA. Domani la delegazione israeliana a Washington. Milioni in piazza nel mondo, critiche al mega pacchetto di bombe inviato dagli Usa. Nuova strage di affamati. Le famiglie degli ostaggi accusano Netanyahu di boicottare l’accordo
Le rovine della casa della famiglia Abu Muammar, a Rafah - Ap/Hatem Ali
Roma, Londra, Parigi, Berlino, Copenaghen, Belfast, Oslo, Madrid, Edimburgo, Amsterdam. E poi San Francisco, Rabat, Amman, Tokyo, New York e tante altre: ieri milioni di persone in tutto il mondo sono scese in piazza – come accade ogni sabato da quasi sei mesi – in occasione della Giornata della terra palestinese per chiedere il cessate il fuoco su Gaza.
L’ENNESIMA PROVA di forza delle società civili globali che giunge a pochi giorni dalla storica risoluzione 2728 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a oggi inapplicata, e il giorno dopo la notizia della mega fornitura statunitense di armi a Israele. Una decisione, presa dietro le quinte, che annulla ogni sforzo diplomatico.
Ieri a criticarla non è stato solo il ministero degli esteri dell’Autorità nazionale palestinese («Chiedere a Netanyahu di smettere di ammazzare civili e rifornirlo di armi è una contraddizione morale»), ma anche un pezzo di Partito democratico statunitense: «L’amministrazione Biden non può premere per aumentare l’accesso umanitario a Gaza – ha detto il senatore Merkley – mentre manda le stesse armi che il governo Netanyahu usa per uccidere in modo indiscriminato palestinesi innocenti».
Perché ieri, come da 176 giorni, le bombe sono continuare a cadere, a Khan Younis, Deir el-Balah, Gaza City, con decine di persone sotto le macerie. Nel mirino case private, per lo più, a Khan Younis è stato centrato un palazzo di sette piani. Raid anche su Rafah, tra le città più colpite negli ultimi giorni.
Proprio di Rafah e del piano israeliano di offensiva terrestre discuteranno domani a Washington la delegazione israeliana inviata dal primo ministro Netanyahu e la Casa bianca. Washington vuole farsi dire come coniugherà una simile operazione con l’evacuazione in sicurezza di 1,5 milioni di palestinesi che lì hanno trovato rifugio, spinti a sud dalla violenza dell’esercito e dagli ordini di evacuazione.
Rafah sembrava rappresentare la linea rossa anche per l’amministrazione Biden. Come sembrava esserlo la consegna di aiuti a un territorio in piena carestia. Ma i camion entrano con il contagocce, in numero ancora inferiore dopo il 26 gennaio, quando la Corte internazionale ha emesso le prime misure provvisorie contro Israele. Gli Usa – tra gli altri – continuano a lanciare pacchi dal cielo.
Ieri, di nuovo, per accaparrarsi un po’ del cibo giunto a bordo di 15 camion a Gaza City, cinque persone sono rimaste uccise e decine ferite alla rotonda Kuwaiti, in cui si sono verificate le peggiori stragi di affamati: ancora una volta si parla di civili uccisi da colpi da arma da fuoco e dalla calca (32.705 il bilancio aggiornato degli uccisi a Gaza dal 7 ottobre), mentre da Cipro partiva la seconda imbarcazione della ong Open Arms, 400 tonnellate di cibo fornite dalla World Central Kitchen, operazione marittima contestata dai tanti che la ritengono un modo per non costringere Israele ad aprire i più sicuri e veloci valichi terrestri.
CONTINUA L’ASSEDIO dell’ospedale al-Shifa, giunto alla fine della seconda settimana: dentro 107 pazienti e 60 medici, a cui Israele impedisce l’evacuazione. Ieri l’esercito ha detto di aver ucciso due alti funzionari di Hamas (Raad Thabet, presunto capo dell’unità di reclutamento, e Khalil Zakzuk, vice capo dell’unità missilistica di Gaza City). Molte altre le vittime che i palestinesi identificano come civili intrappolati nell’ospedale assediato.
Che lo resterà: il capo di stato maggiore Herzl Halevi, sordo alle critiche globali sul trattamento da riservare agli ospedali, ha detto che l’operazione è ancora lunga. Sordo anche Netanyahu, oggetto della rabbia di migliaia di israeliani che di nuovo ieri hanno manifestato per chiedere elezioni anticipate. Ma i più inascoltati sono i familiari degli ostaggi: ieri hanno accusato il premier di impedire l’accordo di scambio con Hamas avvertendolo («ti rimuoveremo dal potere») e chiedendo sostegno al resto del gabinetto di guerra e del parlamento.
Non va meglio in Libano: ieri – oltre a raid israeliani su Naqura, Taybeh, Hanin – a sud è stata colpita un’auto della missione Unifil: tre osservatori e il traduttore libanese sono rimasti feriti. Tel Aviv nega, Unifil indaga
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Con una telefonata al padre di Ilaria Salis, Mattarella interviene per raddrizzare la linea del governo. È la seconda volta a stretto giro, dopo Pioltello. Stavolta il Capo dello Stato riconosce che la nostra concittadina nel carcere di Orbán sta subendo una disparità di trattamento. E dà la colpa al sistema ungherese: il governo amico di Meloni non è ispirato ai valori europei
IL TEMPISMO. Evidentemente il presidente della Repubblica ritiene importante controbilanciare con i propri interventi gli atti del governo quando risultano essere divisivi dell’opinione pubblica del Paese
Il presidente Mattarella - Ansa
La tempestività con cui il presidente della Repubblica ha voluto rispondere all’appello di Roberto Salis, addirittura meno di 24 ore, dice molto su diversi aspetti della vicenda di Ilaria, la concittadina detenuta in Ungheria in attesa di giudizio in condizioni al di fuori degli standard europei. Ma induce anche una riflessione su tema più generale dei rapporti tra il governo e il Capo dello Stato e sulla riforma del premierato che stravolgerebbe gli attuali assetti.
Venerdì pomeriggio, dopo la provocatoria udienza a Budapest, il padre aveva annunciato l’invio di un appello a Sergio Mattarella chiedendogli di «smuovere il governo italiano perché non aveva fatto quello che doveva fare». La telefonata del presidente della Repubblica è arrivata ieri mattina, praticamente subito, e già questo è un modo per condividere l’affermazione di Roberto Salis che il governo Meloni «non ha fatto quello che doveva fare».
A corroborare tale interpretazione c’è il fatto che lo stesso Mattarella ha autorizzato il suo interlocutore a diffondere la notizia della sua telefonata. Come qualche giorno fa, il 26 marzo, aveva autorizzato la vicepreside del liceo di Pioltello, professoressa Maria Rendani, a rendere pubblica la sua lettera di «apprezzamento» per il lavoro svolto dai docenti di quell’istituto scolastico, finito nel mirino del ministro Valditara.
Evidentemente il presidente della Repubblica ritiene importante controbilanciare con i propri interventi gli atti del governo quando risultano essere divisivi dell’opinione pubblica del Paese, come appunto l’attacco ai docenti di Pioltello per una scelta inclusiva verso le famiglie con una fede diversa da quella della maggioranza dei cittadini, o come l’inazione dell’esecutivo nei confronti di Ilaria
Leggi tutto: La fretta del Colle nel rimettere le cose al loro posto - di Kaspar Hauser
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Papa Francesco ha presieduto regolarmente la veglia pasquale ieri sera a San Pietro. Non c’è stato quindi il temuto bis di quanto accaduto venerdì sera, quando il pontefice all’ultimo minuto ha rinunciato a partecipare alla Via crucis al Colosseo, dando retta ai medici, che avevano consigliato a Bergoglio, reduce da una bronchite, di restare a casa per evitare ricadute e rischiare di saltare gli appuntamenti di Pasqua.
Così ieri sera Francesco si è presentato puntuale alle 19.30 nell’atrio della basilica per la benedizione del fuoco – primo momento della celebrazione – e per il resto della veglia. Nell’omelia, incentrata sul racconto evangelico della risurrezione, anche una riflessione sulla guerra, prendendo spunto dalla «pietra tombale» davanti al sepolcro di Gesù: uno dei tanti «macigni di morte» che vediamo «nei muri di gomma dell’egoismo e dell’indifferenza, che respingono l’impegno a costruire città e società più giuste» e «in tutti gli aneliti di pace spezzati dalla crudeltà dell’odio e dalla ferocia della guerra».
La guerra era stata evocata dal pontefice anche durante la Via crucis al Colosseo di venerdì. Bergoglio, come detto, non ha partecipato al rito, seguendolo a distanza dal Vaticano, ma per la prima volta ha voluto scrivere personalmente le meditazioni per le quattordici stazioni della Via crucis. L’ottava in particolare è stata dedicata alla «follia della guerra», ai «volti di bimbi che non sanno più sorridere» e alle «madri che li vedono denutriti e affamati e non hanno più lacrime da versare». Inevitabile pensare alla tragedia di Gaza.
E un forte appello alla pace verrà rilanciato questa mattina dal papa nel tradizionale messaggio Urbi et Orbi dalla loggia centrale della basilica di San Pietro: pace in Palestina, in Ucraina e in tutti i luoghi del mondo in cui si combatte.
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«Voi soldati rinunciate a tutto e rinunciate a tutto per costruire e garantire quella pace della quale in tanti soprattutto in questo momento si riempiono la bocca comodamente seduti sul divano di casa loro». Così ieri Giorgia Meloni, in visita alle truppe italiane che presidiano il confine libanese, ha provato a declinare in chiave interventista la ricerca della pace, riecheggiando il motto in giorni in cui sia in Medio Oriente che sul fronte dell’Europa dell’est la situazione sembra sul punto di precipitare.
LA PRESIDENTE del consiglio cerca di coniugare le divise con gli orizzonti di pace perché ha bisogno di sintonizzarsi con il sentimento della gran parte del paese. Che testino le posizioni sull’intervento diretto al fronte o sull’invio di armi, infatti, i sondaggisti rivelano fin dall’invasione russa dell’Ucraina che la maggior parte degli italiani è schierato dalla parte della pace e auspicano una via d’uscita diplomatica al conflitto. Questa larga area di opinione, eterogenea e trasversale, è al centro degli appetiti della gran parte delle forze politiche a poco più di due mesi dalle elezioni europee. A quei voti punta Matteo Salvini, in Ue alleato con lo spezzone dell’estrema destra che, a differenza di Meloni, non ha scelto di schierarsi sotto l’ombrello atlantista. Va letta in questa chiave la spericolata operazione del leader leghista: trasformare le imbarazzanti frequentazioni putiniane degli anni scorsi e i recenti scivoloni che mostrano ancora più di qualche ambiguità nei confronti del regime di Mosca in punti a favore, segni di predisposizione al dialogo con ciò che si muove al di là delle trincee russo-ucraine.
ALL’OPPOSIZIONE, invece, si osservano, con diverse intensità e toni non sempre sovrapponibili, le argomentazioni che appartengono alle forme del pacifismo storico. La novità degli ultimi giorni è l’attivismo di Elly Schlein. Non è un mistero che dentro il Partito democratico, ad esempio, siano scoppiate le polemiche di fronte alla proposta di candidare due personalità affine ai movimenti contro la guerra come Cecilia Strada, figlia di Gino ed ex presidente di Emergency, e Marco Tarquinio, ex direttore di Avvenire. La candidatura di quest’ultimo viene sostenuta da Demos, l’organizzazione molto vicina alla Comunità di Sant’Egidio che alle scorse elezioni politiche ha fatto eleggere, sempre nelle liste dem, Paolo Ciani, uno dei deputati più attivi sul terreno pacifista. Ha più volte denunciato, ad esempio, che l’Unione europea non ha un rappresentante per la pace e si è schierato contro la cessione di armi a Israele all’indomani dell’attacco a Gaza. È vicino a Demos, peraltro, anche Pietro Bartolo, il medico dei migranti a Lampedusa che in questi anni ha fatto parte della delegazione del Pd a Bruxelles e che spesso, proprio sulla guerra, si è distinto dagli orientamenti del suo gruppo.
ASSIEME A LUI, tra i dissidenti, c’era anche Massimiliano Smeriglio, che ha scelto di correre a giugno con Alleanza Verdi Sinistra, l’altra lista che si candida a rappresentare il popolo della pace al parlamento europeo. Quelli di Avs rivendicano di essere gli unici a non aver mai votato a favore dell’invio di armi all’Ucraina, visto che (si era alla scorsa legislatura, sotto il governo Draghi) il Movimento 5 Stelle votò il decreto Ucraina, poi prorogato alla fine dello scorso anno da Meloni. Ciò nonostante, Giuseppe Conte ha sempre sostenuto la necessità di «imporre al conflitto russo-ucraino una svolta diplomatica».
INFINE, C’È LA LISTA «Pace, Terra e Dignità» promossa da Michele Santoro e Raniero La Valle, cui aderisce tra gli altri Rifondazione comunista, che sta raccogliendo le forme in questi giorni. In questo caso, la mobilitazione contro la guerra diventa la discriminante fondamentale, quasi una pre-condizione per l’agibilità politica. Santoro da tempo dice espressamente che il suo obiettivo è prendere i voti di chi altrimenti si asterrebbe. E rinfaccia ai potenziali interlocutori più prossimi (il Pd, Avs e M5S) di anteporre le ragioni della tattica politica e delle alleanze all’impegno contro la guerra.
Il tribunale civile di Ragusa ha liberato la Sea-Watch 5 dando il terzo schiaffo al decreto Piantedosi. Terzo in un poco più di un mese, dopo quelli di Brindisi e Crotone per le navi Ocean Viking e Humanity 1. La decisione è arrivata giovedì sera, alla vigilia della scadenza dei 20 giorni di detenzione amministrativa disposti l’8 marzo a Pozzallo.
Si tratta ancora di un’ordinanza cautelare, ma il provvedimento sconfessa completamente la ricostruzione delle autorità italiane (squadra mobile di Ragusa; capitaneria di porto e guardia di finanza di Pozzallo). Nel verbale di fermo sostenevano che la Sea-Watch 5 non avesse rispettato le indicazioni ricevute da Tripoli, competente per la zona del soccorso dei 56 naufraghi (uno morto a bordo in una seconda fase non oggetto del procedimento). Secondo l’Italia la nave umanitaria avrebbe «contribuito a creare situazioni di pericolo durante le operazioni Sar» e costretto la motovedetta libica Fezzan a restare a distanza «per evitare di generare disordini con il rischio che i migranti si gettassero in mare».
Se però il pattugliatore di Tripoli è rimasto lontano, come dice il verbale, allora «la situazione di pericolo non è sorta», scrive il giudice Giovanni Giampiccolo. Nella sua ricostruzione la Sea-Watch 5 non ha creato pericoli per i naufraghi né commesso irregolarità. Ha comunicato con le autorità libiche, italiane e tedesche (Stato di bandiera) e nessuna di queste ha detto di non procedere al salvataggio. La Fezzan le ha solo intimato di cambiare rotta, senza fornire motivi. Neanche quando il capitano ha denunciato il rischio di collisione con un’altra unità.
«All’esito del primo contraddittorio instaurato, e fermo ovviamente ogni approfondimento nel corso del giudizio di merito, l’illecito non risulta integrato; non è emerso quali indicazioni il centro per il soccorso marittimo avrebbe dato alla Sw5, che quest’ultima non avrebbe rispettato», si legge nell’ordinanza. Del resto mentre la Ong ha fornito prove documentali a sostegno della sua posizione, l’Avvocatura dello Stato che rappresenta i ministeri di Interno, Infrastrutture e Finanze ha sostenuto di avere video e foto dell’intera operazione, ma senza produrli.
«Sostengono di poterli presentare solo con l’autorizzazione di Frontex, perché vengono da quell’agenzia – afferma Lucia Gennari, avvocata di Sea-Watch – Ma così pretendono di essere sollevati dall’onere della prova: principio giuridico fondamentale secondo cui quando sostieni qualcosa in giudizio devi provarla. Se lo Stato chiede al giudice di credergli sulla parola si crea un problema di democrazia. Per fortuna il tribunale ha ristabilito che le regole valgono per tutti».
Dal Viminale sottolineano che le decisioni cautelari sono state solo tre su 15 impugnazioni di 20 fermi. «Si tratta di pronunce a carattere puramente provvisorio destinate a essere sostituite dal giudizio definitivo di merito, ancora pendente in tutti i ricorsi proposti e autonomo nella cognizione e valutazione», dice il ministero. Non dice, però, che negli altri casi la detenzione è terminata prima che un tribunale si esprimesse: in nessun caso le autorità italiane hanno avuto ragione. Non dice neanche che da Brindisi il decreto potrebbe finire dritto alla Consulta.
«Non era mai successo di fare gli azzeccagaburgli sui soccorsi: prima chi salvava vite veniva ringraziato, oggi appena arriva in porto rischia il fermo per il minimo elemento di sospetto – rileva il contrammiraglio della guardia costiera, ora in pensione, Vittorio Alessandro – Comunque al terzo fermo considerato infondato l’amministrazione marittima, in autotutela, dovrebbe evitare di creare altre situazioni analoghe». Anche perché i soccorritori della guardia costiera italiana sanno bene come funzionano le dinamiche di pericolo in mare: le richieste di istruttorie sulle Ong, che arrivano da Roma, e i fermi basati sulle dichiarazioni dei libici fanno storcere il naso a più di un ufficiale.
Intanto vicino Lampedusa c’è stato un altro drammatico naufragio. Mentre il veliero Trotamar III, della Ong Compass Collective, stava distribuendo i giubbotti salvagente un barchino in ferro è improvvisamente affondato. Sul posto è arrivata una motovedetta italiana che ha salvato 11 persone. Altre 31 sono state portate sul veliero. Tre però sono scomparse, tra loro una neonata. I fatti sono di giovedì ma la notizia è stata diffusa ieri
Il tetto agli stranieri nelle classi c’è già, ma è inapplicabile. La proposta sgrammaticata e ideologica di Valditara si scontra con la realtà. Opposizioni all’attacco: «È contro la Costituzione». Imbarazzo di Fratelli d’Italia, ma la Lega sostiene il suo ministro
EDUCAZIONE CINICA. La Lega difende la proposta sgrammaticata di Valditara, opposizioni all’attacco
Il ministro all’Istruzione (e merito) Giuseppe Valditara
Separare costa. Ma la demagogia sulle spalle dei bambini con background migratorio costa di più. Anche questa volta il ministro all’Istruzione (e merito) Giuseppe Valditara, con la sua proposta sul tetto agli studenti con famiglie di origine straniera, scivola sul razzismo istituzionale e dimostra di non avere piena conoscenza dei meccanismi che regolano il ministero che occupa.
Nell’ansia di assecondare il capo del suo partito (Matteo Salvini che, ospite da Vespa, aveva ripreso un suo vecchio cavallo di battaglia per continuare a fruttare elettoralmente la vicenda della scuola di Pioltello), Valditara si è prodotto nell’ennesima gaffe. Al cubo, dato che con un solo post ha fatto capire di essere in difficoltà con la Costituzione (sulla quale ha giurato) e con la sintassi. Quello che il leader della Lega non sa, ma che il titolare del dicastero dovrebbe conoscere, è che la legge italiana prevede già un tetto per gli studenti stranieri. Lo ha introdotto il governo Berlusconi nel 2010.
La circolare firmata dalla ministra di allora, Mariastella Gelmini, tutt’ora in vigore, prevede che non si debba superare il 30% di alunni stranieri «con una ridotta conoscenza della lingua» per classe. Ma concede delle deroghe che escludono, naturalmente, i bambini nati in Italia e quindi di madrelingua anche se con genitori immigrati.
UN RECENTE RAPPORTO di viale Trastevere, pubblicato quando il governo Meloni si era già insediato da otto mesi, ma che forse il ministro non ha avuto
Leggi tutto: Alunni stranieri, la propaganda del ministro fuori dalla realtà - di Luciana Cimino
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