In quasi trecento pagine la Corte d’appello sbriciola l’inchiesta che ha smantellato il modello di integrazione divenuto noto in tutto il mondo. “Nessuna prova di arrembaggio di risorse pubbliche”
Ma quale associazione a delinquere, alla base del modello Riace c’era l’idea di “perseguire un modello di accoglienza integrata, ovvero non limitato al solo soddisfacimento dei bisogni primari, ma finalizzato all’inserimento sociale dell’ospite di ciascun progetto”. E così c’era tanto “generalizzato disordine amministrativo” che non si può neanche ipotizzare l’esistenza di accordi criminali stabili. Traduzione, non esistevano neanche i presupposti per la demolizione del modello di accoglienza che ha fatto scuola nel mondo e del suo sindaco dell’epoca Mimmo Lucano, dopo la condanna in primo grado a oltre 13 anni di carcere, in Appello assolto da tutte le accuse salvo un falso che gli vale una condanna a 18 mesi con pena sospesa.
È con quasi trecento pagine di motivazioni che la Corte d’appello di Reggio Calabria demolisce il teorema accusatorio che leggeva Riace come sede di un’associazione criminale e ribalta totalmente la sentenza di primo grado che quell’impostazione prendeva per buona. “Adesso ricomincio a respirare”, aveva detto Lucano, assistito dagli avvocati Andrea Dacqua e Giuliano Pisapia, a pochi minuti dalla clamorosa pronuncia.
"L'esistenza di uno stabile accordo di natura delittuosa - è scritto - nemmeno può essere desunta". In più, sottolineano i giudici, non ci sono e non ci sono mai stati neanche gli elementi per sostenere in giudizio l’esistenza dei singoli reati contestati. Per la truffa aggravata "manca la prova degli elementi costitutivi il reato", mentre le determine per le quali Lucano era accusato di falso ideologico in realtà "non erano funzionali a ottenere le somme del Ministero". Anche tecnicamente scorretta è la contestazione di peculato, cioè l’appropriazione di risorse dello Stato da parte di pubblico ufficiale. “Non è configurabile – ricorda la Corte - per la gestione e destinazione di somme di provenienza pubblica, anche dopo la loro corresponsione, quale corrispettivo del servizio, pattuito a seguito di apposito contratto e prestato". Affermazioni secche, nette, che sbriciolano l’inchiesta costata l’esistenza stessa al “modello Riace” e anni di calvario al sindaco che ne era diventato il simbolo e altri dodici indagati.
Lucano, per anni bersagliato dal ministro Matteo Salvini che lo bollava come “uno zero” – non aveva alcun intento criminale, riconoscono i giudici, al contrario era “certo di poter alimentare una economia della speranza”, il cui unico obiettivo era quella “che più volte ha definito essere la sua mission, ovvero poter aiutare gli ultimi”.
E no, confermano i giudici, in tasca non si è mai messo una lira. “I dialoghi intercettati, in linea con gli accertamenti patrimoniali compiuti su Lucano Domenico suggeriscono di escludere che abbia orchestrato un vero e proprio 'arrembaggio' alle risorse pubbliche", afferma la Corte. E’ stato lui, nel corso di una conversazione intercettata a dire senza mezzi termini che anche con la riduzione del pocket money i fondi, se messi a sistema, sarebbero stati sufficienti per far star bene tutti e poi – ricordano i giudici – “che Lucano mai avesse (neppure) pensato di guadagnare sui rifugiati è circostanza emersa in un ulteriore dialogo in cui egli stesso sottolineava come, proprio grazie al suo intervento, altre persone avessero cambiato approccio, ponendosi verso la tematica dell’accoglienza senza alcuna finalità predatoria”.
Sebbene non sia mai stato trovato uno straccio di prova al riguardo, il Tribunale di primo grado si spingeva ad affermare che "gli investimenti che Mimmo Lucano avrebbe fatto con i soldi avanzati dal progetto di accoglienza per i migranti costituivano, ad un tempo, una forma sicura di suo arricchimento personale”, le sue tasche storicamente vuote sarebbero state “mera apparenza”. Un assunto, se non un’illazione che “non si condivide” affermano i giudici, sottolineando che “il contesto in cui Lucano ha sempre operato, caratterizzato da un continuo afflusso di migranti, l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l’indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza (nelle sue stesse parole, “io devo avere uno sguardo più alto”)” devono essere indicatori meritevoli di considerazione.
Per altro – si sottolinea – non è possibile ipotizzare che Lucano e i suoi avessero voluto lucrare sui “lungopermenti” – questa una delle principali tesi dell’accusa – permettendo di rimanere in struttura a persone che già avevano esaurito il proprio percorso in accoglienza. Della questione, c'era "la piena consapevolezza, - si legge nelle motivazioni - da parte del Servizio centrale e della Prefettura, della presenza dei cosiddetti lungopermanenti" che, se ci fossero stati "i presupposti di legge andavano al limite espulsi con provvedimento di competenza prefettizia e non certo del sindaco". Insomma, o la cosa era regolare o il primo colpevole va cercato al Viminale.
Impensabile, sottolineano poi i giudici, è ipotizzare che a Riace ci sia stata un’associazione a delinquere stabile. Al contrario, nella storia del paese dell’accoglienza si possono individuare “condotte tra loro isolate – scrivono i giudici – difficilmente collocabili in un disegno unitario e anzi spesso frutto di iniziative tra loro scarsamente coordinate, se non confliggenti”. In più, non solo l’inchiesta e il processo di primo grado, ma anche le precedenti relazioni ispettive “delineano un disordine amministrativo e contabile, ma anche l’assenza di un governo complessivo delle azioni, nonché l’inesorabile procedere delle associazioni in ordine sparso”.
A fornire “ulteriore e plastica smentita”, sostengono i giudici, “è anche la formale richiesta di una più approfondita ispezione ministeriale, richiesta di cui vi è traccia anche nei dialoghi intercettati, in cui proprio Lucano lamentava il carattere incompleto, poiché meramente documentale”. Insomma, a Riace non c’è mai stata volontà di nascondere o di nascondersi. Bastava voler guardare davvero.
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MIGRANTI. Scontro sul soccorso del 4 aprile: gli spari libici, poi il fermo. Ma un video dà ragione alla Ong
La Mare Jonio in stato di fermo - Mediterranea
«Un ministro della Repubblica non mente mai al parlamento. Quello che un ministro riferisce in parlamento, lo fa in base ai rapporti formali che gli vengono riportati dalle autorità competenti, non da altre cose di fantasia. Quindi confermo quello che ho detto». È costretto a giocare in difesa il titolare del Viminale Matteo Piantedosi dopo che il video pubblicato ieri mattina da Mediterranea sul soccorso del 4 aprile ha smentito la sua versione. Giovedì in Senato, rispondendo a un’interrogazione del dem Antonio Nicita, il ministro dell’Interno aveva sostenuto che la nave Mare Jonio si è avvicinata alla motovedetta di Tripoli Fezzan quando questa «aveva già assolto all’obbligo di salvataggio in mare», che l’equipaggio di Mediterranea ha incitato i migranti a buttarsi in mare per fuggire dai libici e che solo a quel punto i militari nordafricani hanno sparato alcuni colpi di avvertimento.
Ammesso e non concesso che quest’ultimo comportamento sia legittimo – e il paese di bandiera della nave minacciata, che in questo caso è l’Italia, non debba invece stigmatizzarlo – le immagini pubblicate da Mediterranea mostrano un quadro ben diverso. In particolare nei sessanti secondi resi pubblici ieri si vede l’inizio dell’intervento di soccorso: c’è un barcone sovraccarico di migranti ma non la Fezzan. E poi si sente una comunicazione in Vhf in cui viene detto ai libici di non «sovrapporsi» durante il salvataggio. Dunque di restare a distanza.
QUELLO CHE ACCADE dopo la Ong lo aveva già mostrato a seguito del fermo amministrativo della nave subito all’arrivo a Pozzallo: i libici frustano le persone che hanno sul ponte mentre alcune tentano la fuga, poi minacciano e sperano i gommoni dei soccorritori. «Noi cerchiamo sempre di far mantenere la calma. Se anche avessimo voluto, non avremmo potuto comunicare con i migranti a bordo della Fezzan: lo impedivano i rumori degli spari e dei motori, oltre alla situazione di panico», afferma Fabio Gianfrancesco, rescue coordinator di Mediterranea che si trovava a bordo del mezzo di soccorso e compare nei video.
La versione di Piantedosi di fatto ricalca quella scritta nel verbale di detenzione della Mare Jonio, con la firma di guardia costiera, polizia e guardia di finanza. Il ministro, però, sembra condirla con una grossa imprecisione: è vero che la Fezzan aveva terminato un intervento, ma nelle carte il riferimento non è al caso seguito da Mediterranea, ma a uno precedente. Sul ponte della motovedetta c’erano già delle persone proprio per questo motivo. In ogni caso l’aspetto più problematico resta un altro: secondo la Ong quella ricostruzione non è suffragata da prove.
LO HANNO SCRITTO nel ricorso contro il fermo le avvocate dell’organizzazione umanitaria: «il provvedimento è macroscopicamente illegittimo» e «basato su un palese travisamento dei fatti». Le autorità presenti nel porto di sbarco, del resto, non hanno chiesto né la versione di Mediterranea, né visionato il materiale documentale – video e relativo alle comunicazioni – che questa voleva produrre a sostegno della propria versione.
Durante procedimenti civili su casi analoghi si è scoperto che prove di questo tipo i libici non ne avevano fornite alle autorità italiane. A Brindisi dal processo sul fermo della Ocean Viking è venuta fuori soltanto una mail con la versione dei fatti di Tripoli. A Ragusa nel caso che riguarda la Sea-Watch 5 l’Avvocatura dello Stato italiano voleva evitare di produrle in udienza e avere la fiducia del giudice sulla parola. Vedremo come andrà stavolta: l’Ong ha chiesto al tribunale di depositare tutto il materiale in proprio possesso e che altrettanto facciano le autorità italiane. L’udienza cautelare è stata fissata, sempre a Ragusa, il prossimo 23 aprile.
Commenta (0 Commenti)UNIONE EUROPEA. Roma e Budapest uniche contrarie alla direttiva sul risparmio energetico degli edifici approvata definitivamente dall’Ecofin. Patrizia Toia (Pd): «Il provvedimento non impone alcun obbligo ai cittadini, piuttosto chiede agli Stati nazionali di impostare politiche sensate e a lungo termine. E questo il governo lo sa benissimo».
Il ministro Giorgetti alla riunione Ecofin di marzo - Ansa
Roma e Budapest si allineano di nuovo sulla direttiva Casa Green. All’atto dell’approvazione finale del provvedimento, durante la riunione dei ministri dell’Economia dei 27 (Ecofin) in Lussemburgo, Italia e Ungheria sono stati gli unici Paesi ad esprimere una contrarietà netta. Perfino peggio fa l’Italia su un altro voto conclusivo al Consiglio Ue: in quello sulle emissioni industriali, dove Roma è stata l’unica a votare contro.
IL GOVERNO MELONI non è nuovo a prese di posizione contrarie al Green Deal. Ha puntato i piedi fino all’ultimo contro il regolamento Imballaggi, si è espresso con decisione contro il passaggio da motore termico a elettrico per le auto di nuova fabbricazione a partire dal 2035. Negli ultimi mesi dell’attuale legislatura europea, l’Italia ha contribuito allo stallo della direttiva sull’etica d’impresa, avversata dalle multinazionali, e ha giocato un ruolo chiave nelle esenzioni da regole ambientali stringenti del settore agricolo, riforma della Politica agricola comune (Pac) inclusa. Una battaglia che ha condotto, tra gli altri, al fianco dell’Ungheria di Viktor Orban, come è accaduto anche per la Legge sul Ripristino della Natura, pilastro del Green deal, congelata all’ultimo minuto in Consiglio Ue e ormai affossata, almeno per ora.
LA CASA PERÒ per il governo di destra è tema identitario fin dai tempi di Berlusconi ed è per questo che la battaglia contro la direttiva è stata implacabile, anche se alla fine si è rivelata fallimentare. Il nuovo provvedimento Ue riguarda le prestazioni energetiche degli edifici, che nei prossimi anni dovranno essere portate a un livello superiore di efficienza in modo da salvaguardare l’ambiente: meno consumi, meno inquinamento e più risparmio in bolletta per i cittadini, dicono i suoi sostenitori.
«Per noi il tema è: chi paga?», si chiede il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti citando l’esperienza negativa del Superbonus, subito dopo il voto in sede Ecofin. Gli fa eco l’eurodeputata leghista Isabella Tovaglieri, relatrice italiana della direttiva nella commissione Industria ed Energia dell’Europarlamento a cui Casa green era stata assegnata: «Bene che il governo abbia detto no alla direttiva Case green, dando un segnale forte a un’Europa lontana anni luce dalla realtà, che in nome dell’ambientalismo ideologico impone ristrutturazioni che costeranno fino 60 mila euro a famiglia». Plaude al no italiano anche Confedilizia, che pur ricordando i miglioramenti inseriti nella legge grazie proprio all’intervento di Roma, parla di testo «ancora non accettabile».
A GIORGETTI e al suo «bello, ma chi paga?» replicano Annalisa Corrado e Brando Benifei, rispettivamente ambiente Pd e capodelegazione degli eurodeputati Pd al Parlamento europeo. Se il Ministro dell’economia non sa dove reperire i finanziamenti «il testo della direttiva approvata ricorda gli strumenti Ue utilizzabili a tal scopo». Tra questi, oltre al Pnrr, RePowerEU e i fondi di coesione, c’è ancora «il Fondo sociale per il clima, che mette a disposizione 65 miliardi di euro da spendere tra il 2026 e il 2032 per i piani nazionali di ristrutturazione degli edifici».
SEMPRE RESTANDO sul versante dei finanziamenti, un’ampia parte decisionale è demandata alle capitali. Non bisogna infatti trascurare che la legge europea, essendo in questo caso una direttiva, andrà recepita dai singoli Stati entro due anni. Il governo Meloni avrà quindi un ruolo importante nel mettere a terra il provvedimento, come tra l’altro ha sempre chiesto in sede di trattative per la definizione della legge che si sono svolte a Bruxelles nel corso di molti mesi. «Il nostro Paese ha il patrimonio immobiliare più vecchio e inefficiente d’Europa», sottolinea l’eurodeputata Pd Patrizia Toia «la direttiva non impone alcun obbligo ai cittadini, piuttosto chiede agli Stati nazionali di impostare politiche sensate e a lungo termine. E questo il governo lo sa benissimo».
CERTO, LA CONSEGUENZA di maggior impatto politico di questo voto rimane, come scrivono ancora i dem Corrado e Benifei, «l’ennesima dimostrazione dell’isolamento del governo in Europa e della sua incapacità di portare a casa risultati nell’interesse del nostro Paese». L’allineamento Roma-Budapest sulla direttiva Casa green non sembra occasionale: se letto alla luce delle convergenze del passato, diventa una prova più che un indizio
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MODELLO VINCENTE. Torino in marcia contro tutti per restare la capitale dell’auto. In 12mila in corteo contestano Elkann, governo e sindaco Lo Russo per il selfie con Tavares. De Palma: «Ritrovata unità e dignità». «Per i manager stipendi vergognosi, per noi solo Cig». E alla Lear a fine anno finiranno gli ammortizzatori
Piazza Castello a Torino per lo sciopero unitario Stellantis - Foto Ansa
È passato talmente tanto tempo dall’ultimo corteo unitario che i pareri divergono. L’opinione prevalente è di considerare quello del 2002: «Anche quella volta chiedevamo di produrre 200 mila auto l’anno, quota che Umberto Agnelli considerava fatidica: senza non ha senso neanche accendere la luce, diceva», ricorda Giorgio Airaudo che in quegli anni era segretario cittadino della Fiom e ora è segretario regionale della Cgil.
SONO PASSATI 22 ANNI, dunque. Chi vi partecipò ed era in piazza ieri va considerato superstite della difficile vita del metalmeccanico, specie se nel frattempo ha subito la «rivoluzione Marchionne».
Ieri mattina un tacito patto sindacale ha portato a non citarlo dal palco. Ma il suo fantasma aleggiava lungo il corteo che ha sfilato da piazza Statuto a piazza Castello.
I cori dei lavoratori però avevano come bersaglio sopratutto John Elkann, considerato ormai da gran parte degli operai «quello che si prende i soldi e di Torino non gliene frega niente».
Il corteo è molto anarchico. Gli spezzoni non sono divisi in modo preciso e le bandiere rosse della Fiom – nettamente prevalenti – si mischiano con quelle blu della Uilm e le biancoverdi della Fim Cisl.
In sindacati parlano di 12 mila partecipanti con buona presenza di semplici cittadini e studenti e qualche esponenti dei centri sociali a chiudere il corteo.
Lo striscione più riuscito invece è una gigantografia dell’improvvido selfie che il sindaco di Torino Stefano Lorusso ha insistito a fare con Carlos Tavares mercoledì a Mirafiori, dopo che
Commenta (0 Commenti)«Le operazioni di soccorso all’interno della Striscia sono pressoché impossibili e ad altissimo rischio. Alla luce di quanto sopra, d’intesa con l’Unità di crisi, si rappresenta pertanto, allo stato attuale, l’inopportunità di operare». Si conclude così la comunicazione del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, con data 27 febbraio e firmata dal direttore generale Stefano Gatti, con cui il governo italiano ha bloccato le linee di finanziamento ai progetti a Gaza delle Ong italiane. Nel momento in cui la Striscia affronta una crisi umanitaria spaventosa e la sua popolazione ha bisogno di tutto l’aiuto possibile, il ministro Antonio Tajani ha decretato «l’inopportunità» di qualsiasi attività di cooperazione a Gaza.
Un passo che segue i mesi di incertezza in cui è stato lasciato l’ufficio di Gerusalemme dell’Aics, l’agenzia della cooperazione governativa, rimasto senza un indirizzo e di fatto ignorato dal governo Meloni impegnato ad evitare qualsiasi atto nei Territori palestinesi occupati che potesse risultare sgradito a Israele. Di ciò il nostro giornale ha riferito in un articolo pubblicato il 14 marzo.
Il ministero degli Esteri indica tra i motivi della sua direttiva la situazione a Gaza descritta come «un’area bellica, al centro di una intensa operazione militare, con elevatissimi rischi per la sicurezza». Tuttavia, le Ong italiane sospettano che dietro queste ansie e la decisione di sospendere i progetti, anche quelli già approvati e finanziati da tempo, ci sia ancora la volontà del governo italiano di rassicurare Israele. L’esecutivo guidato da Benyamin Netanyahu ripete dal 7 ottobre che i progetti a favore dei palestinesi di Gaza rappresentano un sostegno ad Hamas e, pertanto, vanno interrotti.
L’Italia non è l’unico paese ad aver fatto questo passo, ma non è passata inosservata la sua solerzia nel rispettare le intimazioni di Israele. Un altro esempio è l’interruzione dei fondi per l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi. «Roma ha sospeso la linea di finanziamento per l’emergenza e ci chiede di spostare ogni progetto in Cisgiordania, quindi di abbandonare Gaza. Noi lo troviamo inaccettabile, in questo momento la Striscia deve poter ricevere tutto l’aiuto di emergenza possibile. La gente muore di fame», spiega al manifesto un cooperante italiano che ha chiesto di restare anonimo. «Abbiamo proposto varianti ai progetti nella direzione del solo aiuto d’emergenza – aggiunge – perché siamo in grado di rispondere a bisogni primari grazie al personale palestinese a Gaza, ma ci siamo trovati davanti un muro. Eppure, a Roma sanno che alcune di queste attività proposte sono salvavita». La possibilità scartata di poter adattare e continuare i progetti con l’impiego solo del personale palestinese, quindi senza prevedere l’ingresso a Gaza (peraltro al momento quasi impossibile) di cooperanti stranieri, alimenta ulteriormente il sospetto che il ministero degli Esteri sia animato da considerazioni di natura politica e non di sicurezza per gli operatori umanitari italiani.
Tra le Ong colpite direttamente dalla sospensione dei progetti a Gaza già approvati e dall’interruzione della linea di finanziamento ci sono sono Acs, Educaid, Cesvi, Cospe, Oxfam, WeWorld e Progetto Mondo. «Il 15 aprile avremo un nuovo confronto e ribadiremo con forza che bloccare i i progetti di emergenza è una decisione drammaticamente sbagliata – dice Meri Calvelli, capoprogetto di Acs – e uno scempio nel momento di maggior bisogno per i civili palestinesi. In ogni caso, continueremo ad inviare a Gaza gli aiuti che garantiamo con le donazioni proveninenti dalla solidarietà popolare italiana».
CAOS IN PUGLIA. Fratoianni vuole azzerare la giunta, Schlein irritata chiede «un netto cambio di fase». Via il capogruppo in regione Caracciolo, indagato, lascia un altro consigliere dem. Il governatore ha ancora i numeri in aula e convoca una riunione di maggioranza, ma Azione minaccia lo strappo: per noi anni di supplizi
Per Michele Emiliano è la notte più nera in vent’anni di vita politica, prima da sindaco di Bari e poi da governatore: molto peggio di quando nel 2012 un imprenditore indagato gli regalò un cesto natalizio con astici e cozze pelose. Lo schiaffo di Conte in pubblico con l’uscita dalla giunta, poi compensato da un colloquio «cordiale» con il consiglio di istituire un assessorato alla legalità, è solo la punta dell’iceberg di un assedio che arriva dagli ex colleghi magistrati.
NON È TANTO IL PESO delle singole inchieste, alcune rispuntate all’improvviso dopo anni “in sonno” (come quella che sui fratelli Pisicchio), ma il succedersi di indagini e arresti che, come confida un esponente del centrosinistra, «fa sembrare Bari come la Palermo degli anni di Ciancimino». Un clima irrespirabile, che ha offerto l’occasione a Conte di fare il beau geste di sbattere la porta e di colpire una volta ancora Schlein. Ma che fa anche tremare la maggioranza che governa la Puglia. Certo, i 5 stelle si erano accodati dopo aver perso le elezioni del 2020 e i loro 4 consiglieri non sono indispensabili per tirare fino al 2025. Ma ieri anche Sinistra italiana con Nicola Fratoianni ha chiesto di «resettare la giunta». «Serve un atto di discontinuità, non possiamo far finta che non sia successo niente».
ANCHE I TRE CONSIGLIERI regionali di Azione manifestano insofferenza: «Non si può continuare così. Se qualche mese ancora di governo dobbiamo fare è opportuno farlo con onore e facendo pulizia». «Cosa avevamo detto negli ultimi anni, inascoltati, sbeffeggiati e osteggiati?», dicono gli uomini di Calenda. «Tutti i nodi stanno venendo al pettine. Avevamo chiesto di smantellare le mille fabbriche del potere, con le loro burocrazie, riti e sistemi asfissianti: un sistema opaco, composto da camarille e giannizzeri, sono stati anni di supplizio». Parole da forza di opposizione
IL PD SOFFRE PIÙ DI TUTTI gli altri. Cadono le prime teste. Dopo le dimissioni e l’addio dell’assessora Maurodinoia (il marito Cataldo è stato arrestato per compravendita di voti), ieri sono arrivate le dimissioni irrevocabili del capogruppo in regione Filippo Caracciolo, rinviato a giudizio con l’accusa di aver pilotato un appalto in cambio di favori. Lui si era già dimesso mesi fa, ma il gruppo gli aveva chiesto di restare. «C’è qualcuno che sta tentando di gettarmi in mezzo alla mischia, sfruttando una vicenda che nulla ha a che fare con quelle che da settimane stanno occupando le cronache». Si autosospende dal gruppo dem Michele Mazzarano, condannato in via definitiva a 9 mesi per corruzione elettorale: «C’è una evidente strumentalizzazione politica, il Pd non è un covo di delinquenti e malfattori».
LA LINEA DI SCHLEIN è netta: fuori tutti quelli che possono ledere l’immagine del partito. La segretaria non parla in pubblico del caso Puglia, ma fa sapere di essere «fortemente irritata» e di aver chiesto al Pd pugliese «massimo rigore e atti concreti» e ad Emiliano «un netto cambiamento di fase». Andrea Orlando avvisa Conte: «Fermiamoci, a cavalcare la tigre ci si rimane sopra. Il problema non si affronta scagliandolo contro gli altri, ma con una vera riforma dei partiti: nella scorsa legislatura metà dei parlamentari 5S hanno cambiato casacca, molti di loro oggi fanno i lobbisti»
EMILIANO, DAL CANTO SUO, fa sapere di voler convocare una riunione di maggioranza. Ma non pare incline all’idea di resettare la sua squadra. «Il rispetto della legalità e delle regole è un principio che è da sempre alla base della nostra attività politica e amministrativa», dice. «Siamo sempre stati pronti a denunciare irregolarità, a trasmettere in procura notizia di ogni situazione opaca». Di più: «Spesso le inchieste partano proprio dalle nostre segnalazioni». Insomma, «le parole di Conte sulla legalità «sono corrispondenti ai valori che hanno ispirato la mia intera vita. Non era indispensabile l’uscita del M5S dalla giunta per ribadire i nostri comuni convincimenti. Con Conte non abbiamo parlato di eventuali nuovi assessorati».
Anche i dem pugliesi chiedono una verifica. Il segretario Domenico De Santis annuncia la convocazione di tutti gli organismi, la segreteria e la direzione del Pd pugliese, il gruppo in regione. «A Emiliano chiediamo di convocare una riunione di maggioranza per avviare una verifica di governo e valutare il rilancio dell’azione amministrativa per un patto di fine legislatura». Quanto ai dem nei guai con la giustizia, «non possiamo fare sconti», dice De Santis.
IL QUADRO PUGLIESE è in continua evoluzione. Senza i 5s Emiliano può ancora contare su 28 consiglieri su 51. Ma tra questi 28 ci sono anche i tre dem che sono stati allontanati. Cui si somma il malessere dei 3 di Azione. Difficile che questo equilibrio possa reggere ad altre inchieste. In questa situazione passa sullo sfondo la vicenda del candidato del centrosinistra a Bari. Conte dice di voler continuare a sostenere l’avvocato Laforgia (che ha rinunciato a difendere Pisicchio in tribunale). Fratoianni continua a cercare un terzo nome che possa riunire i progressisti, ma la sua missione appare sempre più in salita. I dem restano su Vito Leccese. La destra gode e parla di «epilogo politico e morale di Emiliano e Decaro»
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