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Legge di Bilancio Salta l'80% del fondo per il settore. Denuncia di Fim, Fiom, Uilm: «Grave». Convocazione a palazzo Chigi il 4, il 13 le imprese

Lavoratori Stellantis Lavoratori Stellantis – Foto Ansa

Un taglio di 4,6 miliardi, pari all’80% del totale, al fondo per l’automotive.

Questa volta Carlos Tavares non c’entra. A fare tutto è stato il governo Meloni e i ministri Giorgetti e Urso,quello che continuava a far finta di voler produrre un milione di auto in Italia.
Se ne sono accordi Fim, Fiom e Uilm analizzando le tabelle allegate alla legge di Bilancio. Che mettono nero su bianco come il fondo da 9 miliardi istituito dal governo Draghi per affrontare la transizione verso l’elettrico e finanziare gli incentivi alla rottamazione è stato falcidiato dal governo Meloni.

A pagina 424 della legge di Bilancio depositata in parlamento infatti che il «Fondo per la transizione verde, la ricerca, gli investimenti del settore automotive e per il riconoscimento di incentivi all’acquisto di veicoli non inquinanti» istituito dal decreto legislativo 17 del 2022 (ministro Franco del governo Draghi) con 8,7 miliardi che scade nel 2030 si opera un «definanziamento» di 562.186.388 euro nel 2025 rispetto ai 762.186.388 euro previsti. Ancora peggio per i prossimi anni. Il tutto porta la dotazione del fondo a soli 200 milioni per gli anni 2025-2026-2027 e così via fino al 2030. Il taglio totale è di 4,6 miliardi sui 5,8 miliardi rimasti.

Nel denunciare il taglio, le segreterie nazionali di Fim, Fiom e Uilm esprimono «profonda preoccupazione e ferma contrarietà per la recente decisione del governo nella Legge di stabilità di tagliare il fondo automotive». Per i segretari generali Ferdinando Uliano, Michele De Palma e Rocco Palombella «si ignora così un intero settore e le richieste di oltre 20mila lavoratori, che lo scorso 18 ottobre hanno partecipato allo sciopero nazionale e alla manifestazione di Roma per chiedere un supporto concreto», proseguono i sindacalisti. «Questa mobilitazione, anziché trovare ascolto e una risposta positiva, è stata seguita da un provvedimento che va nella direzione opposta a quella auspicata, mettendo a rischio il futuro di migliaia di famiglie e la sopravvivenza di una filiera strategica per il paese». Come segreterie nazionali di Fim, Fiom e Uilm, «chiediamo che i 5,8 miliardi del fondo dell’auto vengano non solo ripristinati, ma anche incrementati, in linea con le necessità attuali e con quanto si dovrà ottenere anche a livello europeo, per sostenere una giusta transizione ecologica e occupazionale». Per questo, «ribadiamo l’urgenza di una convocazione ufficiale da parte della Presidenza del Consiglio», conclude la nota unitaria.

Per tutta risposta il ministro Urso non contesta il merito della denuncia, limitandosi a un generico «siamo impegnati a garantire che la filiera dell’automotive abbia gli strumenti necessari per affrontare la sfida della transizione», convocando – finalmente – a Palazzo Chigi i sindacati e le imprese, rispettivamente il 4 e il 13 novembre, per un confronto. Nel frattempo perfino l’Anfia – l’associazione di Confindustria che riunisce le imprese della filiera auto – commenta con «sconcerto» la decurtazione al fondo

 

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Autostop Il piano del Gruppo prevede la chiusura di almeno tre stabilimenti, licenziamenti di massa, salari ridotti. Sindacato in rivolta: paralizzeremo tutte le fabbriche. Le elezioni si avvicinano, Scholz: «Tagli inaccettabili». Destra e Sahra Wagenknecht accusano le politiche green

Protesta del sindacato ad Hannover, in Bassa Sassonia; sotto Daniela Cavallo, leader del Consiglio di fabbrica, e Thorsten Grögerm, capo negoziatore dell’Ig Metall Protesta del sindacato ad Hannover, in Bassa Sassonia; sotto Daniela Cavallo, leader del Consiglio di fabbrica, e Thorsten Grögerm, capo negoziatore dell’Ig Metall – Ap

Arriva il conto di tutto: del disastro industriale, della macelleria sociale, della catastrofe politico-elettorale che inevitabilmente verrà presentato al governo Scholz al massimo tra 10 mesi quando si apriranno le urne per il rinnovo del Bundestag. La realtà a Berlino come a Wolfsburg è che la crisi del Gruppo Volkswagen è pronta a esplodere in tutta la sua ampiezza già entro 60 giorni, quando i lavoratori paralizzeranno tutte le fabbriche tedesche come annunciato dal sindacato.

«Sarà un autunno caldo» promette Thorsten Grögerm, capo negoziatore dell’Ig Metall, mentre la leader del Consiglio di fabbrica, Daniela Cavallo, denuncia il modus operandi del management Vw non solo «inaccettabile» nel contenuto ma anche «squallido» nei modi.

Finisce in questo modo la tradizionale pratica della concertazione: il pilastro della cogestione d’impresa alla base dell’economia nazionale. Ma il piano di tagli di Vw getta nuova benzina sul fuoco dell’irrisolta questione orientale. Fra le fabbriche da sacrificare spunta lo stabilimento di Zwickau che per i vertici di Vw rappresenta solo uno dei tanti siti da «ristrutturare» e invece è l’emblema del problema politico.

Qui costruivano le Trabant, simbolo dell’autarchia della Ddr e poi della Riunificazione tedesca, prima che Volkswagen decidesse di convertirla a catena di montaggio per la Polo e infine per i modelli elettrici oggi invendibili per il crollo del mercato. Lo stabilimento sarà ridotto fino a metà della sua capacità produttiva. Non c’è peggiore notizia a Zwickau, città di 87 mila abitanti in Sassonia legata mani e piedi all’automotive.

ALLE ULTIME ELEZIONI comunali un anno fa qui era già evidente il maxi-consenso per Afd (32%), Cdu (20%) e Alleanza Sahra Wagenknecht (13%), i tre partiti nemici della riconversione ambientale pronti a dare battaglia sulla chiusura della locale fabbrica che oggi impiega oltre 10 mila lavoratori.

«Colpa della transizione ecologica imposta dal governo Scholz» tuona l’opposizione pronta a cogliere la palla al balzo, e proprio per questo il cancelliere si è precipitato a lanciare il monito: «I lavoratori non devono pagare gli errori del management dell’impresa». Nelle vesti di capo del governo quanto di leader della Spd, il partito che guida la Bassa Sassonia, il Land azionista di riferimento di Vw che detiene il 20% del capitale. Non una moral suasion ma il chiaro avvertimento ai manager di Wolfsburg che l’esecutivo federale non accetterà mai il piano lacrime e sangue.


BOCCIATO IN PRIMIS dal sindacato consapevole come l’imminente futuro sia segnato dalla decisione di chiudere un terzo delle fabbriche in Germania tagliando di un quinto lo stipendio degli operai: inizia proprio così il mega-piano messo a punto dai vertici Vw per far quadrare i conti dell’impresa devastati dalla pessima gestione aziendale prima ancora della crisi dell’auto elettrica.

Come ammesso finora solo nelle carte riservate a uso interno, a pagare il prezzo della fallimentare politica industriale perseguita dai manager saranno unicamente i dipendenti, mentre si profila il punto di non ritorno tanto che «attualmente nel Gruppo Vw nessun posto di lavoro è più al sicuro» come ha rivelato ieri Daniela Cavallo, presidente del Consiglio di fabbrica, agli operai in riunione straordinaria nello stabilimento di Wolfsburg.

E LA DENUNCIA della leader del sindacato Ig Metall ristabilisce la realtà della gestione aziendale incapace di leggere per tempo le criticità del settore quanto di valutare il reale peso della Cina: non più il mercato in espansione in grado di assicurare un futuro luminoso per il Gruppo ma un concorrente insostenibile che si prepara a rilevare la fabbrica Audi in Belgio in modo da aggirare le sanzioni Ue.

«L’intenzione dei vertici Vw è dissanguare le aree di produzione e condannare decine di migliaia di dipendenti alla disoccupazione di massa» precisa la sindacalista della Ig Metall dettagliando i numeri del piano padronale, dal taglio del 10% del salario allo stop dell’indennità mensile di 167 euro: sommati portano alla riduzione del 18% dello stipendio.

«I vertici Vw hanno dato fuoco a tutte le garanzie per i lavoratori e poi si sono dileguati. Questo comportamento è squallido e rappresentativo di un vero e proprio sistema» chiosa Cavallo che rappresenta i 120 mila lavoratori impiegato dal Gruppo in Germania, di cui circa metà nella fabbrica di Wolfburg. «Mancano le vendite di due stabilimenti» spiegavano a inizio mese i manager di Vw, e invece a chiudere saranno tre fabbriche più mezza linea di produzione di Zwickau e in più verranno aboliti i bonus per i dipendenti e i pagamenti annuali una tantum per i 25 anni di servizio, da sempre garantiti dall’impresa.

Domani è previsto il prossimo incontro fra il Consiglio di amministrazione e il sindacato che rilancia con la richiesta di aumento del 7% del salario previsto dal contratto collettivo promettendo battaglia a dicembre con il blocco delle fabbriche.
L’«auto del popolo» contro l’automotive del padrone. Questa è la posta in gioco da Scholz in giù

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Pesti Bucci supera il centrosinistra per 9mila voti: 48,7% contro il 47,4 ma è sconfitto a Genova. Pd primo al 28,5%, il M5S crolla al 4,5

La conferenza stampa di Marco Bucci ieri notte nel suo quartier generale La conferenza stampa di Marco Bucci ieri notte nel suo quartier generale

Attorno alle 8 di sera la partita della Liguria si chiude. Andrea Orlando, dato da subito in leggero svantaggio sull’avversario Marco Bucci nei primi exit poll, si ferma al 47,4% contro il 48,7% dell’avversario. In numeri reali sono circa 9mila voti, una manciata. Il sindaco di Genova perde in modo schiacciante nella sua città: 9 punti e 20mila voti in meno ma non bastano ad Orlando per fare l’impresa. La provincia di Imperia, dove regna Claudio Scajola, compensa il gap con 13mila voti di vantaggio e un distacco percentuale da brividi: 60% contro 35%. In provincia di La Spezia, sua terra d’origine, Orlando chiude avanti di 5 punti, nel savonese invece si impone Bucci per circa 3000 voti.

NONOSTANTE GLI EXIT POLL e le proiezioni fotografino fin da subito la vittoria di misura di Bucci, per quasi tutto il pomeriggio Orlando è avanti nei dati reali del Viminale: i seggi di Genova vengono calcolati per primi, così da creare un effetto ottico che sembra poter smentire le stime di Swg per La7 e Opinio per Rai. I sostenitori di Orlando sperano nell’effetto Todde: la governatrice della Sardegna che vinse per poche centinaia di voti dopo uno spoglio lungo quasi 20 ore. E invece alla fine le stime degli istituti demoscopici erano azzeccate.

Al mercato orientale di Genova, dove ha sede il comitato Orlando, è un pomeriggio al cardiopalma: lo staff si chiude in una cucina, con lavabi e fornelli, a compulsare dati: i numeri di Genova tengono viva la speranza per alcune ore, così come la vittoria nel feudo di destra di Sarzana, ma alla fine la sconfitta nel ponente è troppo larga, e l’affluenza al voto troppo bassa, al 46%, 7 punti sotto le regionali del 2020 vinte da Toti. Ai big del centrosinistra e allo stesso Orlando era chiaro che per conquistare la regione serviva uno scatto di popolo, un recupero di voti di sinistra dall’astensionismo: non è successo.

E QUI È DESTINATA AD APRIRSI l’analisi del voto che si preannuncia dolorosa. Il Pd si consola con il risultato di lista: 28,5%, primo partito in regione seguito da Fdi al 14,9%, con i fratelli di Meloni decimati dai voti andati alle due civiche del neogovernatore (Lega all’8,5% e Forza Italia all’8%) . A sinistra segue Avs con il 6%, che supera un M5S al 4,6%, uno dei peggiori risultati di sempre da queste parti, con il dibattito che seguirà su quanto abbia influito la plateale rottura tra

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Il comizio a Madison Square Garden Doveva essere un’opportunità per il candidato repubblicano per presentare i suoi argomenti conclusivi e chiudere alla grande, ma il trumpismo ha preso il sopravvento suscitando molte critiche

Comizio di Trump di Madison Square, Ap Madison Square Garden, New York. Tutto esaurito per il comizio di Trump

Migliaia di persone provenienti da tutta l’area di New York e da altre parti del Paese si sono radunate a Madison Square Garden per il comizio di Donald Trump, a soli nove giorni dal giorno delle elezioni, con i due candidati alla Casa Bianca che restano testa a testa. Un sondaggio di Cbs News uscito durante il comizio ha mostrato  Kamala Harris al 50% e Trump al 49% a livello nazionale, mentre negli stati in bilico invece i due candidati sarebbero assestati entrambi al 50%.

Il comizio di Trump nella democraticissima New York ha segnato una deviazione dagli stati campo di battaglia dove fino ad ora si sono concentrati tutti gli sforzi e ha fatto il tutto esaurito per i suoi 19.500 posti. L’evento doveva essere un’opportunità per Trump per presentare i suoi argomenti conclusivi e chiudere alla grande, ma gli insulti razzisti e la volgarità degli interventi di apertura, pronunciati prima dell’arrivo dell’ex presidente, sono stati così pesanti e hanno scatenato una tale reazione negativa che la stessa campagna è stata costretta a divulgare un disconoscimento.

Il comico Tony Hinchcliffe, conosciuto come Kill Tony, si è riferito a Porto Rico come a “un’isola galleggiante di spazzatura” e ha continuato inanellando battute offensive sui neri e sugli ispanici che “adorano fare bambini. Non è riescono a tirarsi fuori. Vengono dentro, proprio come fanno col nostro Paese”.

Sid Rosenberg, un conduttore radiofonico con cui Trump parla spesso, ha definito Hillary Clinton una “figlia di puttana malata” e ha chiamato i migranti dei “fottuti illegali”. David Rem, un amico d’infanzia di Trump, ha definito Harris “l’anticristo” e i democratici, più in generale, come “odiatori degli ebrei e persone di basso livello”. Grant Cardone, un imprenditore, ha detto che Harris “e i suoi papponi distruggeranno il paese”.

Nel suo discorso Trump, introdotto a sorpresa da sua moglie Melania, ha ripetuto alcune delle sue affermazioni più dure sul tema dell’immigrazione, inclusi gli appelli a estirpare “il nemico dall’interno”, per poi continuare chiedendo la pena di morte per “qualsiasi migrante che uccide un cittadino americano o un agente delle forze dell’ordine”. Il target del tycoon nelle ultime settimane sono diventati i venezuelani e a un certo punto si è fermato per mostrare un video proprio sui migranti venezuelani e sull’attività delle bande a New York, mentre la folla scandiva: “Rimandateli indietro”.


Da anni The Donald desiderava tenere un evento al Madison Square Garden, nel cuore di Manhattan, e il comizio è stato una sfilata di star Maga e miliardari: da Elon Musk a l’ex giornalista di punta di Fox News Tucker Carlson, all’ex wrestler professionista Hulk Hogan.

“Questa è la casa di Donald Trump, fratello – ha detto Hogan – Sapete una cosa, Trumpmaniacs, non vedo nessun schifoso nazista qui”, ha concluso, riferendosi al famigerato raduno nazista del 20 febbraio 1939 che si è tenuto proprio al Madison Square Garden.

Due bizzarri ex democratici, Tulsi Gabbard e Robert Kennedy Jr., hanno attaccato tanto il loro vecchio partito quanto i repubblicani che sostengono Harris.

Per Gabbard la campagna dei democratici sta corteggiando in modo troppo aggressivo i repubblicani moderati ed è stata applaudita quando ha dichiarato che un voto per Harris è un voto per Dick Cheney, l’ex vicepresidente di George W. Bush ha appoggiato la candidata dem.

Anche Rudy Giuliani è stato accolto con una standing ovation. L’ex sindaco di New York ha perso la licenza di avvocato e questa settimana è stato condannato da un giudice di New York a consegnare alcuni dei suoi beni, tra cui un appartamento da 5 milioni di dollari a Manhattan e una maglia autografata di Joe DiMaggio.

Anche se New York non è uno stato campo di battaglia, la campagna di Trump sa che Manhattan è il tipo di location che attira una massiccia attenzione dei media e che questo da una spinta che nei giorni finali della campagna vale oro

 

 

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bombardamenti israeliani a Beirut, Libano. Ap

Nella foto: Bombardamenti israeliani a Beirut, Libano @Bilal Hussein/Ap

Oggi un Lunedì Rosso dedicato all’idea del fuori. La incarna l’attivista curdo iraniana Maysoon Majidi, finalmente uscita da una lunga reclusione nelle carceri italiane, dopo essere fuggita dalle persecuzioni di vari governi. Sono fuori, perché spesso detenuti e respinti ai confini dell’Europa, i richiedenti asilo che provengono da paesi definiti “sicuri”. Ma cosa definisce davvero un paese sicuro? Fuori, o sulla soglia sottile che divide salute e malattia mentale, qui si collocano oggi tanti abitanti di Israele, dopo oltre un anno di sangue, la tenuta nervosa del paese è in declino.

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Patria e famiglia Il degrado dell’istituzione cui è affidato il patrimonio del paese non è cominciato con Sangiuliano e nemmeno con Sgarbi. Ma i nuovi potenti ci si ritrovano alla perfezione

Il G7 della cultura in visita al Museo archeologico di Napoli Ansa Il G7 della cultura in visita al Museo archeologico di Napoli

Il degrado del ministero della Cultura – istituzione che dovrebbe tutelare e promuovere il patrimonio del paese, in tutte le sue forme, nell’interesse pubblico – non l’abbiamo scoperto con l’ondata di dimissioni partita a febbraio con la «resa» del sottosegretario Sgarbi.

Neppure il caso Boccia, che ha segnato la fine del ministro Sangiuliano, può considerarsi il culmine delle vergogne di un dicastero scosso nelle ultime settimane dalle dimissioni del capo di gabinetto Spano, nominato dal neo-ministro Giuli il 14 ottobre e durato, appunto, come una meteora.

Proprio le vicende di Spano – accusato anch’egli di conflitto d’interessi per l’assegnazione di un contratto di consulenza al Maxxi in favore del compagno (Marco Carnabuci, con cui si è poi unito civilmente) mentre era segretario generale del museo durante la presidenza di Giuli, hanno tolto il velo alla menzogna di un’azione moralizzatrice del governo di destra. Il cui obiettivo è stato da subito identificato nel sovvertimento dell’egemonia culturale della sinistra, intesa non solo come principi ideologici ma anche come modus operandi. Spano è stato infatti introdotto al Maxxi nel 2022 dall’allora presidente Giovanna Melandri, dopo aver ricoperto il ruolo di direttore dell’Unar, l’ufficio antidiscriminazioni razziali della presidenza del Consiglio dei ministri durante il governo Gentiloni.

ANCHE IL MILLANTATO spoil system annunciato a più riprese da Sangiuliano (e non si sa fino a che punto interrotto dal feuilleton estivo di sapore berlusconiano) si è rivelato un bluff. L’ex ministro, che aveva puntato sull’uso del patrimonio per alimentare la propaganda nazionalista – frequenti le sue visite al sito archeologico di Pompei, dove in sua assenza si è svolto il G7 della cultura più chiacchierato della Storia – ha sostanzialmente mantenuto attorno a sé i dirigenti scelti dal suo predecessore Franceschini. Alcuni di essi, come Alfonsina Russo e Luigi La Rocca, sono stati addirittura promossi al vertice di due dei quattro dipartimenti (rispettivamente il DiVa-Dipartimento per la valorizzazione del patrimonio culturale e il DiT- Dipartimento per la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio) istituiti con la riorganizzazione del ministero entrata in vigore lo scorso maggio. Una riforma che moltiplica le poltrone e appesantisce la macchina burocratica, senza apportare reali miglioramenti alla gestione delle attività culturali e di un vasto e variegato patrimonio che continua a essere alle mercé di lotte partitiche e interessi privatistici.

Oltre alla controversa nomina dei quindici esperti della commissione Cinema (parzialmente sconfessati da Giuli), un esempio della deriva in cui si trova il MiC è dato dalla gestione dei parchi e dei musei archeologici autonomi, stretti tra le maglie di un carrierismo perverso legato a nomine fiduciarie non basate sulla competenza e da politiche di valorizzazione che esasperano l’aspetto commerciale (entrambi retaggi franceschiniani), generando incassi da reinvestire solo idealmente nella tutela e incrementando invece un giro di affari estraneo alle finalità dei musei. Basti citare, a questo proposito, gli acquisti spericolati di opere d’arte contemporanea al museo delle Civiltà di Roma e lo showroom di Bulgari al museo Nazionale Romano. Quest’ultimo evento, svoltosi lo scorso maggio, ha comportato la chiusura al pubblico per due settimane di intere sezioni del museo: una truffa verso gli ignari visitatori paganti e un probabile danno erariale.

IN TALE CLIMA di anarchia (o di oligarchia) continua a imperversare il direttore generale dei musei Massimo Osanna, nominato da Franceschini nel 2020 dopo essere stato alla guida del Parco archeologico di Pompei (dove era arrivato nel 2014 come «soprintendente speciale» grazie all’appoggio dell’allora ministro Bray), confermato nel settembre del 2023 da Sangiuliano – che gli ha però negato la promozione a capo dipartimento – e ora al servizio del ministro Giuli. La prima uscita pubblica congiunta l’hanno fatta a Francoforte, in occasione della Fiera del libro. Nel padiglione Italia, Osanna aveva infatti organizzato e curato assieme ai suoi amici di lunga data Maria Luisa Catoni e Luigi Gallo la mostra Sotto un cielo antico. Pompei tra passato e presente, con alcuni preziosi reperti conservati al museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Per questo breve ed effimero prestito Osanna non ha dovuto concertarsi con nessuno. Dal novembre del 2023 risulta infatti delegato alla direzione del prestigioso museo napoletano, sebbene qualche mese prima della scadenza del mandato di Paolo Giulierini il «Mann» sia stato promosso tra gli istituti autonomi di «prima fascia» e dovrebbe quindi afferire, per effetto della Riforma, al Dipartimento per la valorizzazione del patrimonio. Nella prolungata attesa del bando per la scelta del nuovo direttore, Osanna esercita dunque il pieno controllo del «Mann», utile come bacino di risorse per operazioni di immagine o di consolidamento del potere di influenza ottenuto grazie alla presenza di suoi fedelissimi in posti chiave per l’archeologia.

 

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