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Il limite ignoto La nuova dottrina: per «proteggere la sovranità nazionale» l’aggressione di uno Stato senza armi nucleari ma sostenuto da un Paese che ne dispone, sarà un attacco alla Russia

I militari ucraini nella regione di Kursk, in Russia foto Oleg Palchyk/Getty Images Soldato ucraino nella regione russa di Kursk

Che dovessimo finire l’anno parlando di minaccia nucleare per l’Europa e per il mondo era, ahimè, facile profezia già prima delle presidenziali Usa, quando a settembre l’annunciato invio di missili a lungo raggio chiesti da Zelensky veniva rimandato in attesa dei risultati del voto: Kamala Harris o Trump? La risposta c’è stata, ma quello che va in onda ora non è il paradosso della “pace trumpiana” – che al contrario non esiterà a rinfocolare conflitti per la primazia Usa, dal Medio Oriente all’Asia. E’ sull’Ucraina che arriva il colpo di coda della presidenza Biden, per il quale l’Ucraina è dal 2014 quasi un fatto personale, se non privato. Sarà in carica fino al 20 gennaio, non ha ancora giurato Trump.

Che promette di risolvere la crisi ucraina in «24 ore», senza dire come, e che ha sempre schernito le tante richieste di armi di Zelensky, manifestando un’altra vocazione: quella di europeizzare conflitti e sicurezza, chiedendo più spesa militare ai Paesi della Nato.

Ma siccome la vera eredità che ogni presidente Usa lascia al suo successore è un dividendo di guerra, Biden, a sorpresa, ha confermato la tradizione e ha deciso di fornire i missili Atacms che hanno un lunghissimo raggio di azione di 300 km, da usare in territorio russo, più volte negati a Kiev perché avrebbero attivato una reazione eguale e contraria – come l’ingresso nella Nato, per una neutralità chiesta da Putin ma fino ad oggi negato anche dallo stesso Biden perché, diceva “sarebbe l’inizio della Terza guerra mondiale”. Ci si interroga se sugli Atacms ci sia stato, al caminetto della Sala Ovale una specie di assenso tra i due presidenti. Pare difficile immaginarlo perché Biden fa l’esatto contrario degli annunci di Trump, sconvolgendogli i piani con un invio qualitativo di armi che possono concretamente impedirgli un futuro ruolo negoziale. Perché?

Perché la decisione subito alimenta la guerra. E siamo all’assurdo: l’uso dei nuovi missili a lunghissimo raggio dovrebbe essere limitato “in un primo momento” al Kursk, oblast russo occupato dall’inizio di agosto da truppe ucraine, e ora ripreso in parte da quelle russe coadiuvate, pare, da quelle nordcoreane che stanno come carne da cannone nella terra della Federazione russa, almeno finora; dunque l’obiettivo è la tenuta dell’occupazione ucraina di questa regione russa, per proporre lo scambio con il Donbass in una trattativa per una “pace giusta”, per dare a Zelensky maggiore forza negoziale. Ma c’è da chiedersi: è uno scambio credibile, visto che la Crimea e il Donbass occupato rappresentano il 20% del territorio ucraino rispetto alla piccola porzione del russo Kursk? E se il Donbass, filorusso e irredento è all’origine di questa guerra – sono mille giorni di conflitto dall’aggressione russa, ma la crisi precipita con gli oscuri fatti di Majdan e dura dal 2014 – il Kursk non ha da questo punto di vista questa storica specificità speculare (irredenta e filo-ucraina); inoltre il Kursk occupato dall’Ucraina serve a Putin esattamente per raccontare alla sua opinione pubblica l’evidenza della minaccia occidentale. E ci conforta il Washington Post: fonti vicine a Putin dicono che il presidente russo esclude trattative di pace finché il Kursk sarà occupato. Poi, se doveva essere un’impresa che alleggeriva la pressione russa nel Donbass, va detto che da agosto in poi l’avanzata russa in Donbass è diventata inarrestabile.

Ma il fatto più grave, che mostra come la decisione di Biden sia tutto meno che razionale, è che non ha contemplato la reazione di Putin. Che non si è fatta attendere: ieri, proprio mentre veniva lanciato il primo attacco in Russia con 5 missili Atacms sulla regione di Bryansk, Putin ha ratificato la nuova, epocale, dottrina nucleare russa per «proteggere la sovranità nazionale». Stabilendo (nel documento ora nella Gazzetta ufficiale russa), che l’aggressione da parte di qualsiasi Stato che non disponga di armi nucleari ma che è sostenuto da un Paese, o da una alleanza militare, che ne dispone, sarà considerato un attacco congiunto di questi Paesi alla Russia. La ritorsione nucleare della Russia – a decidere sarà Putin – è dunque ora possibile come «misura estrema”» se il Paese affronta «una minaccia critica alla sua sovranità» creata anche con armi convenzionali (anche per un attacco alla Bielorussia), e nei casi di uso su vasta scala di aerei militari, missili da crociera, droni, aeromobili che attraversino il confine russo: in pratica la situazione attuale.

Si può essere scettici e rilanciare la tesi del bluff. Ma l’annuncio a mille giorni da una guerra per la quale non c’è soluzione militare ma solo negoziale – lo dichiara pure Zelensky che tuttavia dissimula la mai abbandonata «vittoria» – appare come una minaccia concreta. Attenti dunque, Putin non è Milosevic, il presidente della piccola Jugoslavia (Serbia e Montenegro) bombardata dalla Nato per 78 giorni nel 1999, piegato con un trattato di pace fatto poi a pezzi dalla Nato che sostenne invece l’indipendenza unilaterale del Kosovo, rompendo l’integrità territoriale della Serbia mentre in Ucraina fa esattamente l’opposto. Milosevic, che poi uscì di scena un anno e mezzo dopo con una rivolta sostanzialmente a guida dei nazionalisti più estremi di lui, scesi in piazza contro le sue rinunce e compromessi, finendo due anni dopo a processo all’Aja. Il conflitto dell’Ucraina con la Russia, costato finora centinaia di migliaia di morti, è impari e asimmetrico, non c’è invio di armi che tenga, aumenta solo la guerra, le vittime e l’odio: la differenza la fanno le armi nucleari. La Russia secondo l’Istituto Ispi ne ha 5.900 di cui 1.900 famigerate “tattiche”. E Putin con la nuova dottrina dice che è pronto ad usarle.