Spagna In 130mila alla manifestazione nel capoluogo valenciano, al centro delle critiche il presidente della Regione, sotto accusa accusato per i ritardi nel lanciare l'allarme alla popolazione e poi per la caotica gestione dell'emergenza
Undici giorni dopo lo tsunami di fango e acqua che ha travolto 78 municipi della provincia di Valencia e ucciso oltre 200 persone, l’indignazione è scesa in piazza nel capoluogo spagnolo, dove decine di migliaia di cittadini hanno protestato contro la «fallimentare gestione» dell’emergenza provocata dalla Dana e le conseguenti alluvioni e chiedere le dimissioni del presidente della regione Carlos Mazón accusato per i ritardi nel lanciare l’allarme alla popolazione e poi per la caotica gestione dell’emergenza.
«Noi ci siamo macchiati di fango, tu ti sei macchiato di sangue», uno slogan vergato su uno striscioni della marcia. Nel comunicato letto dagli organizzatori anche critiche al Governo dello Stato perché «avrebbe dovuto esercitare pressioni immediatamente e con forza contro l’inerzia del Governo valenciano affinché intervenisse con tutte le truppe disponibili e aiutasse i cittadini a ricostruire le loro vite.
A margine della protesta sono state portate decine di paia di scarpe sporche di fango davanti alla sede del governo della Regione. Fra i manifestanti, intere famiglie e persone di tutte le età, e molti volontari che hanno aiutato in questi giorni a ripulire dal fango e dai cumuli di rottami e detriti i municipi colpiti.
Commenta (0 Commenti)Trump incombe sulla Cop29. L’equipe del tycoon avrebbe già pronte le carte per far uscire gli Usa dall’Accordo di Parigi. Defezioni, trattative sui pozzi di petrolio, frattura tra Nord e Sud del mondo: la Conferenza sul clima si apre domani a Baku sotto i peggiori auspici
Previsioni del tempo La conferenza sul clima di Baku, in Azerbaijan, si apre lunedì tra defezioni importanti - assenti tra gli altri Biden, Modi, Trudeau e von der Leyen -, accordi sui pozzi di petrolio e frattura tra Nord e Sud del mondo. Mentre il prossimo presidente americano avrebbe già pronte le carte per far uscire gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi
Marcia degli attivisti per il clima a Washington
Cop29 inizia con cupezza. Il ventinovesimo round negoziale sul contrasto al riscaldamento globale promosso dalle Nazioni Unite apre le porte domani nella capitale azera Baku. Le agenzie battono da giorni gli annunci relativi alle defezioni dei più importanti leader globali, mentre la vittoria elettorale del negazionista climatico Donald Trump incombe come uno spettro su tutto il processo. Ma i negoziatori hanno un solo vero tema di cui parlare: i soldi. Non arriveranno annunci eclatanti su altri dossier da queste due settimane, e sul tema della finanza andrà valutato il successo o il fallimento della Conferenza.
FACCIAMO UN PASSO indietro. L’agenzia Reuters, citando fonti del New York Times, ha fatto sapere due giorni fa che l’equipe di Trump avrebbe già pronte le carte per far uscire gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi – la più importante intesa globale sul contrasto alla crisi climatica. Non è una notizia inattesa: già durante il suo primo mandato il tycoon prese la stessa decisione. Quella volta, però, si convinse quasi alla fine del quadriennio, e i democratici rientrarono nell’Accordo appena riconquistata la Casa Bianca. Stavolta Trump ha la possibilità di tirare fuori il secondo emettitore globale fino ad (almeno) il 2028.
Va detto che Cop29 non navigava comunque in acque tranquille. Non solo la Conferenza del 2015, ma anche la Cop26 di Glasgow del 2021 appare lontanissima. Oggi è la guerra a occupare le menti dei leader globali. La sintesi l’ha offerta, involontariamente, la presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen. Rispondendo a una domanda poche settimane fa, ha spiegato che nella formazione della sua seconda squadra di governo il criterio chiave non è stato il clima, ma «sicurezza e competizione». Ovvero, guerra contro la Russia e dazi contro la Cina.
Un disinteresse globale che si riflette nel lungo elenco di defezioni. Non sorprende l’assenza di Xi Jinping e Vladimir Putin. Ma dall’elenco dei presenti mancano anche lo statunitense Joe Biden, l’indiano Narendra Modi, il canadese Justin Trudeau. A sorpresa non ci sarà nemmeno Ursula Von Der Leyen. Discorso a parte per Emmanuel Macron e Olaf Scholz. Il primo non parteciperà, si legge sulla stampa europea, anche in polemica con il governo azero che ospita i colloqui.
La Francia è infatti il maggior alleato europeo dell’Armenia, nemico storico dell’Azerbaijan. Il secondo aveva invece previsto di partire alla volta di Baku, ma ha deciso di rimanere a Berlino per via della crisi che ha investito la sua coalizione di governo. Tra le poche presenze che parrebbero certe, tra i leader di peso dello scenario globale, rimarrebbero il leader britannico Keir Starmer, lo spagnolo Pedro Sánchez, il turco Recep Tayyip Erdogan. Anche Giorgia Meloni dovrebbe esserci, mentre il brasiliano Lula Ignacio da Silva non può volare a causa di una piccola emorragia cerebrale, ma potrebbe parlare tramite video.
I PADRONI DI CASA ci hanno messo del loro per abbassare le aspettative. Elnur Soltanov, uno dei massimi dirigenti della macchina negoziale, è stato filmato segretamente da un gruppo di attivisti sotto copertura mentre usava il suo ruolo per mercanteggiare accordi su nuovi pozzi petroliferi. Il 90% delle esportazioni azere consistono in idrocarburi – molto del loro gas arriva ad esempio in Italia – e la scelta di prendersi la presidenza di Cop29 si inserisce nella linea da anni adottata dai petrostati: impadronirsi dei negoziati per sabotarli. Tutti segnali che lasciano intendere come il problema non sia certo solo Trump: anche con una Kamala Harris vincente il meccanismo delle Cop sarebbe
Leggi tutto: Trump incombe sulla Cop29, accordo di Parigi a rischio - di Lorenzo Tecleme
Commenta (0 Commenti)Stati Uniti Dal 2022 hanno dato vita a scioperi eccezionali per durata, popolarità e conquiste. E ora?
Minnesota, operai edili a un comjzio democraticofoto – Ap/Carlos Osorio
Bisognerà cominciare a ripescare dalla fanghiglia di questi giorni i fili che i primi quattro anni di Trump avevano sciolto e Biden non è riuscito a riannodare. A partire dalla società che un giornalista del New York Times aveva definito “sfilacciata”.
Nella società dove è stato lo stesso Trump, e non Harris, a fare una prima ricucitura. I sondaggi preelettorali, a cui dovremo abituarci a non credere, ci avevano detto che sarebbe stato un testa a testa e fatto ritenere possibile che la perbene vincesse sul permale. Errore. In una società che perde lavoro, bussola e memoria vince il demagogo.
Al di là delle certezze istituzionali, cioè che ora Trump comanda ovunque (probabilmente anche nella Camera dei rappresentanti), tutte le prime analisi sono provvisorie. Spiccano comunque i numeri del voto popolare: Trump ha vinto con uno scarto a suo favore di cinque milioni di voti, ribaltando i sette milioni in meno del 2020, quando fu sconfitto da Biden. Anche ora come allora la mobilitazione degli elettori è stata alta e generale: nella maggioranza degli stati ha superato il 65%.
Quasi ovunque ha premiato Trump e i repubblicani e dove la maggioranza è andata ai democratici – negli stati, nei gruppi sociali e nei centri metropolitani tradizionalmente “blu” – le quantità dei voti sono state più basse che in passato. La sconfitta è brutale.
Non si ha un risultato/rovesciamento così eclatante se non in seguito al raggiungimento di uno stato di crisi sociale-culturale drammatico. Imprevedibile? No. L’evoluzione plutocratica o oligarchica della società aveva già messo in crisi il sistema democratico. Nel 2021, proprio all’inizio del suo mandato, Biden aveva detto che la democrazia americana è «fragile». E aveva cercato di restaurarla con un progetto “rooseveltiano” di riforma sociale e ridistribuzione dei redditi, denunciando i danni prodotti dal neoliberismo («l’esperimento quarantennale che ha fallito»). La sinistra interna al suo partito l’aveva appoggiato, il resto no, e Biden è stato costretto alla prima sua marcia indietro. La seconda è stata quella di mesi fa, che ha lasciato la corsa finale a Kamala Harris. Ora con Trump quello che rimane della democrazia è più fragile che mai.
Dopo l’uscita dalla pandemia, non sono stati pochi a gridare che i lavoratori «non ne possono più»: anzitutto i lavoratori in prima persona, scegliendo una nuova combattività rivendicativa e l’abbandono di milioni di posti di lavoro malsicuri e a basso salario, e insieme a loro intellettuali e ricercatori vicini al mondo del lavoro e molte sigle sindacali. Tra il 2022 e oggi hanno dato vita a scioperi eccezionali, vecchio stile per durata, popolarità e portata degli ottenimenti. Eppure ha vinto Trump, che di sicuro non è «amico del lavoratori».
La contraddizione è evidente; d’altro canto, non è l’unica. La crescita delle “incoerenze” nei comportamenti ha investito tutte le componenti sociali: le donne, gli ispanici, gli afroamericani, i lavoratori (bianchi e di colore, maschi e femmine, giovani e anziani, diplomati e no, sindacalizzati e no…). Le cronache meno superficiali hanno parlato per anni della “crisi epistemica” strisciante e della distruttività di disuguaglianze sociali, di precarizzazione del lavoro e delle vite, di individualismo e di solitudini, di crisi identitarie, di violenze, di oppioidi e overdose e suicidi. Di milioni la cui condizione sociale non si sposta di una virgola verso l’alto da mezzo secolo. Tutto va tenuto in conto.
Questo è il paese senza memoria – si ripassino le promesse fatte da Trump nel 2016 – cui ha parlato il demagogo, promettendo per la seconda volta di risolvere ogni problema, per ognuno. Senza la confusione mentale di questi tempi – non solo in America, naturalmente – non avrebbe vinto.
Tra chi non gli ha creduto ci sono i dirigenti sindacali che hanno dato organizzazione alla combattività delle loro basi in questi ultimi anni. Non è del tutto così per i lavoratori. La contraddizione che attraversa anche loro non è immune dalla confusione dominante, ma si spiega anche in altro modo. Come dappertutto, è una doppia logica che guida i loro comportamenti: il legame alla propria organizzazione sindacale è una cosa, il rapporto con la politica e il voto è un’altra. Il primo tiene, soprattutto nelle fasi di rivendicazioni e di lotta, com’è l’attuale; il secondo è volubile. Poi però: la percentuale nazionale della sindacalizzazione è al 10%. Infine, anche se gli iscritti sindacali e i loro familiari votano al 60% per i democratici, tra i tanti non sindacalizzati (soprattutto nel Sud e nei 27 stati con le right to work laws, le leggi antisindacali) il voto si divide, metà e metà.
Ora ci si domanda quale sarà l’evoluzione delle dinamiche di conflittualità, di mobilitazione e rivendicazione, che il mondo del lavoro ha messo in campo in questi ultimi anni. Se avrà seguito la resurgence, la rinascita del movimento sindacale ora evidente, oltre che negli scioperi, anche nella crescita della “popolarità” delle unions (che precede la crescita degli iscritti), delle richieste di elezioni per l’introduzione del sindacato nei singoli luoghi di lavoro, delle denunce contro le aziende per i loro comportamenti antisindacali. Si vedrà se nelle nuove condizioni, prevedibilmente così avverse, sarà ancora possibile dare una risposta di speranza alla domanda che si poneva qualche mese fa una rivista di sinistra: «Sarà in grado il movimento sindacale di ricostruire la nostra democrazia?»
Commenta (0 Commenti)
Donne e bambini Nuovo rapporto dell’Onu: il 44% sono minori, la maggior parte aveva tra i 5 e i 9 anni. Tel Aviv: «Non ci sarà nessun ritorno a nord»
Un gruppo di palestinesi piange i bambini uccisi in un raid israeliano a Deir al-Balah – AbdelKareem Hana/ Ap
Soprattutto donne e bambini. Sull’ormai abituale bollettino della morte a Gaza si è pronunciato ieri l’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Ohchr), con un nuovo rapporto: il 70 percento delle morti accertate nei primi sei mesi dell’invasione israeliana a Gaza erano donne e bambini. La maggior parte di loro aveva tra i 5 e i 9 anni, e complessivamente i bambini ammazzati sono il 44 percento delle vittime totali. Incrociando le informazioni fornite dai vicini delle case bombardate – i pochi rimasti -, dai familiari, dalle Ong locali e dal personale delle Nazioni unite sul campo con i dati sui registri ospedalieri, il rapporto documenta che la vittima più giovane era un bambino di appena un giorno. Tutto questo nella «sconsiderata noncuranza» di Israele, come denuncia Volker Turk, alto commissario Onu per i diritti umani. Turk ha esortato Tel Aviv a rispettare gli obblighi internazionali, ricordando che ci sono mezzi e modi per «limitare e prevenire le sofferenze umane in tempi di conflitto armato».
PROSEGUENDO nella più totale negligenza delle regole e delle istituzioni internazionali, Israele commenta il rapporto delle Nazioni unite derubricandolo a «informazioni non verificate», nelle parole della missione diplomatica israeliana a Ginevra, e prosegue nell’inflizione di sofferenze che da oltre un mese investe il nord della Striscia. Almeno una ventina di palestinesi uccisi e oltre un centinaio feriti, soltanto nelle ultime 24 ore. Al Jazeera riporta che ieri un attacco aereo dell’esercito israeliano ha colpito le aree orientali di Gaza City e un altro ha abbattuto un’abitazione nel campo profughi di Jabaliya, a nord. Ancora a Jabaliya, diversi palestinesi sono rimasti feriti in un bombardamento israeliano all’ingresso della scuola Halima al Sadia, che ospita alcuni sfollati. La distruzione delle infrastrutture civili non accenna a rallentare: l’agenzia di stampa palestinese Wafa registra almeno quattro vittime nell’attacco a una casa nel quartiere di Al Manshiya, a Beit Lahiya.
ANCHE IL RESTO della Striscia continua a essere bersaglio dell’esercito israeliano, che pure avrebbe istituito nel centro e a sud la «zona umanitaria», dove si rifugiano la
Leggi tutto: La strage di Gaza, altro che terroristi - di Enrica Muraglie
Commenta (0 Commenti)Usa, il vincitore Trump si prepara a fare a pezzi lo Stato e i suoi rivendicano la famigerata agenda “Project 2025”:
«È tutto vero, la realizzeremo». Tra i vinti volano gli stracci, il capro espiatorio Biden non fa autocritica. Sanders e la sinistra dei democratici avanzano una spiegazione: i lavoratori vogliono un cambio, e hanno ragione
Stati uniti Biden e Harris promettono una transizione pacifica ma non si assumono responsabilità. Ci pensa la sinistra di Sanders e Ocasio-Cortez. Dopo averlo negato per mesi, ora l’entourage trumpiano rivendica l’agenda: è il Project 2025. Sms e mail dalle città democratiche: terapia gratis per superare il trauma e farne resistenza
Joe Biden alla fine del suo discorso alla Casa Bianca - foto Ansa
In campagna elettorale Donald Trump si è più volte distanziato dal «Project 2025», programma politico lanciato dalla super conservatrice Heritage Foundation, per ridefinire i ruoli istituzionali del governo federale. Ora che ha vinto, tutto il suo entourage più destrorso rivendica la validità di quel progetto.
Da quando ha fatto il suo discorso da vincitore, Trump non ha parlato pubblicamente; a gongolare e a rivendicare le posizioni più a destra ci ha pensato Matt Walsh, podcaster di estrema destra, che su X ha scritto: «Penso che possiamo finalmente dire che sì, in realtà il Progetto 2025 è l’agenda. Lol». Subito dopo l’ex consigliere della Casa bianca Steve Bannon nel suo podcast ha elogiato Walsh, così come ha fatto l’influencer di destra Benny Johnson, sempre su X: «È un onore per me informarvi che il Progetto 2025 è sempre stato molto reale per tutto il tempo». E anche Bo French, un funzionario repubblicano del Texas ha scritto su X: «Quindi ora possiamo ammettere che implementeremo il Project 2025».
MENTRE SI ATTENDE di capire in che modo The Donald vorrà mantenere le sue promesse elettorali, la parola è ancora del partito sconfitto. «In democrazia prevale sempre la scelta del popolo, e noi lo accettiamo: non si può amare il Paese solo quando si vince» ha detto Joe Biden nel suo primo discorso dopo la sconfitta, promettendo una «transizione dei poteri pacifica e ordinata», sottolineando che avrebbe «onorato la Costituzione» e ricordando alcuni dei successi della sua amministrazione.
Anche Kamala Harris, quando mercoledì pomeriggio si è rivolta ai suoi sostenitori, ha parlato di «transizione pacifica» e rispetto della costituzione, così come Nancy Pelosi e il comitato elettorale democratico, per rimarcare la differenza fra questa amministrazione e quella che l’ha preceduta e che la seguirà.
MAGRA SODDISFAZIONE di stile, per un Paese che si è consapevolmente avviato verso l’autoritarismo. Dopo essersi assicurati Casa bianca e Senato (alla Corte suprema aveva pensato Trump già nel primo mandato), i repubblicani sono pronti a prendere il controllo della Camera: decine di seggi sono ancora impegnati in testa a testa troppo vicini per decretare un vincitore. Per i dem però, non sembra tirare una buona aria, neppure lì. Chiunque vincerà avrà una maggioranza risicata, ma se per i repubblicani sarebbe solo una facilitazione, per i Dem rappresenta l’unico appiglio.
«Mentre la leadership democratica difende lo status quo, il popolo americano è arrabbiato e vuole il cambiamento. E ha ragione», ha detto il socialista Bernie Sanders commentando la catastrofica sconfitta elettorale, dopo essere stato rieletto per la quarta volta come senatore del Vermont. Sanders ha sottolineato il distacco del partito dalla sua base: «Non ci deve sorprendere che un partito democratico che ha abbandonato la classe lavoratrice scopra che la classe lavoratrice gli ha voltato le spalle alle urne. All’inizio è stata la classe operaia bianca, ora anche i lavoratori ispanici e neri».
SANDERS HA PARLATO di «grandi interessi economici e consulenti ben pagati che controllano il partito democratico» e si è chiesto: «Impareranno qualche vera lezione dalla
Leggi tutto: Tra i dem volano gli stracci - di Marina Catucci NEW YORK
Commenta (0 Commenti)Germania Il cancelliere Scholz licenzia il ministro delle Finanze Lindner. Incubo elezioni anticipate
Il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il ministro delle finanze Christian Lindner nel Bundestag a Berlino, in Germania – Michele Tantussi/Getty Images
Ufficialmente doveva essere solo il prolungamento serale della riunione dell’esecutivo sullo stato dell’economia iniziata in tarda mattinata fra i più larghi sorrisi dei ministri. Invece si è trasformata nella resa dei conti finale nella coalizione Semaforo che di fatto non esiste più dopo la clamorosa decisione del cancelliere Olaf Scholz comunicata in diretta televisiva a reti unificate a milioni di tedeschi poco dopo le 21.30.
«HO APPENA SOLLEVATO dall’incarico il ministro delle Finanze, Christian Lindner, per incompatibilità della sua visione rispetto a quella del resto del governo» scandisce il leader socialdemocratico con voce ferma, lo sguardo scuro esattamente come la giacca e cravatta. Al Semaforo di Berlino è scattato così lo stop al ministro e segretario del partito liberale, pronto a scaricare sul Paese il piano lacrime e sangue bastato unicamente sull’austerity finanziaria, lo smantellamento del welfare e la fine della svolta ecologica.
E la dichiarazione del leader della Spd significa di fatto fine del governo Scholz, anche se formalmente resta in piedi perché in Germania vige la sfiducia costruttiva e al momento non c’è una maggioranza alternativa già pronta al Bundestag da presentare al presidente della Repubblica. Ad ammetterlo è lo stesso cancelliere pronto a «chiedere il voto di fiducia a gennaio», la data sarebbe il 15, e in caso di insuccesso a dare il via libera alle elezioni anticipate al massimo entro la fine di marzo. Una vera e propria implosione interna nel primo governo dell’Europa, caduto – in buona sostanza – sul documento di programmazione economico-finanziaria di 18 pagine presentato da Lindner la settimana scorsa, respinto subito con forza da Spd e Verdi.
DOPO IL NEIN al Bundestag il cancelliere aveva convocato d’urgenza tre vertici con Lindner e il ministro dell’Economia, Robert Habeck, co-leader dei Verdi e vicecancelliere. Nulla da fare: invece di diminuire, la distanza fra gli ex partner della coalizione Semaforo è aumentata fino a sancire la separazione definitiva.
Non è ancora chiaro se il ritiro dall’alleanza riguarda solo Lindner oppure anche gli altri ministri del partito liberale, come il ministro della Giustizia, Marco Buchmann; ma appare certo che senza il leader di Fdp non potranno in alcun modo restare alla guida dei loro dicasteri.
IL LORO PASSO INDIETRO dovrebbe essere già annunciato domani in conferenza stampa, mentre dalle 22.30 di ieri nel quartiere generale Spd, ai piani alti della Willy Brandt Haus, era in corso la riunione semi-permanente fra i vertici del partito per definire il patch della crisi di governo aperta da Scholz e Lindner e la riassegnazione delle deleghe in una coalizione diminuita di ben un terzo.
Certo era tutto previsto dalle ripetute liti fra Spd e Verdi da una parte e liberali dall’altra praticamente su tutti i punti del programma concordato a inizio legislatura. Nessuno però si aspettava che il crollo potesse manifestarsi all’improvviso nel corso di un incontro in cui era stato previsto di parlare del rilancio del made in Germany.
«Il ministro Lindner ha tradito la mia fiducia troppo spesso. Come responsabile delle Finanze, non ha mostrato alcuna volontà di rispondere alle proposte per il bene del nostro Paese. Era solo interessato alla politica clientelare e alla sopravvivenza a breve termine del suo partito, un egoismo incomprensibile; e io non voglio più sottoporre la Germania a questo comportamento. Avrei preferito risparmiare ai tedeschi la decisione in questi in tempi difficili ma la situazione lo impone».
INFINE IL CANCELLIERE dettaglia la sua road map per marcare ancora più la distanza con Fdp. «Con il vice cancelliere Robert Habeck concordiamo che la Germania ha bisogno di chiarezza sul suo futuro corso politico in tempi brevissimi. Nelle settimane che ci separano da Natale metterò ai voti tutte le leggi che non possono essere rimandate» promette il leader Spd. Tradotto, vuol dire mettere mano alle pensioni e misure immediate a fondo perduto per l’industria, ovvero fumo negli occhi per l’austerity di Lindner. A cui Scholz già prova a togliere il terreno politico da sotto i piedi.
Se Lindner sta investendo nell’exit di Fdp dalla colazione Semaforo per presentarsi come alleato di minoranza per la Cdu nel 2025 (ammesso che superi la soglia di sbarramento del 5% al Bundestag), Scholz di contro si dichiara pronto al faccia a faccia con il leader della Cdu Friedrich Merz, capo dell’opposizione. «Cercherò il dialogo con lui quanto prima e gli proporrò una cooperazione costruttiva».
Partendo certamente dall’Ucraina non a caso citata – sul punto Lindner chiede di limitare l’impegno a favore di Kiev anche nei confronti dei rifugiati – alla fine del suo discorso sul licenziamento dell’ex partner di governo, il cancelliere conclude: « Il ministro delle Finanze ha proposto di ridurre le tasse ai ceti alti. Tuttavia i tributi servono per pagare le riforme sociali, attuare la digitalizzazione e la transizione ecologica. Oltre che ad aiutare l’Ucraina».
Commenta (0 Commenti)