BOLOGNA. La presidente dell’Emilia-Romagna Irene Priolo ha firmato e inviato alla presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, la richiesta di stato di emergenza nazionale per gli «eccezionali eventi metereologici» che hanno colpito l’Emilia-Romagna a partire dal 17 ottobre. «Al fine di dare avvio e copertura ai primi interventi urgenti- informa la Regione- è stato chiesto un primo stanziamento di 50 milioni di euro». La richiesta è stata inviata anche al ministero per la Protezione civile e al capo dipartimento della Protezione Civile.
L’obiettivo, fa sapere sempre viale Aldo Moro, è poter procedere «già nei prossimi giorni, anche avvalendosi delle indispensabili deroghe previste dalle ordinanze di protezione civile, all’attivazione di forme di assistenza alla popolazione (soluzioni alloggiative temporanee e Cas), a interventi di gestione del materiale alluvionale e dei rifiuti causati dagli eventi, al ripristino di servizi pubblici essenziali, agli interventi di somma urgenza per il ripristino dei sistemi arginali e sui corsi d’acqua e canali esondati, alla riapertura della viabilità interrotta a causa di smottamenti e frane, alle spese del sistema regionale di volontariato di protezione civile e alle misure di supporto alle attività del commissario delegato».
A oggi, informa ancora la Regione, sono già stati effettuati oltre 950 interventi dal sistema nazionale e regionale di protezione civile «per far fronte ai diversi danneggiamenti che hanno interessato il territorio e alle misure più urgenti di assistenza alla popolazione, comprese le evacuazioni e relative ricollocazioni delle persone in strutture alberghiere».
Commenta (0 Commenti)Diritti Un report parla di profilazione su base etnica e cita i linguaggi d'odio sdoganati dalla destra. La politica insorge Ma anche un recente dossier dell’Onu giunge alle stesse conclusioni
Secondo la Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa, in Italia le forze dell’ordine sono solite ricorrere alla profilazione razziale, cioè alla selezione sistematica di controlli e fermi di polizia in base all’origine etnica. L’organizzazione internazionale composta da esperti indipendenti nominati dai governi dei quarantasei paesi membri ha diffuso ieri un rapporto che si basa su «analisi documentali, un sopralluogo nel paese e un dialogo confidenziale con le autorità nazionali»: vi si sostiene che polizia e carabinieri italiani non paiono essere neppure «consapevoli» dell’entità del problema. Non sembra esserne cosciente neanche la gran parte dei politici italiani che all’unisono (con l’eccezione di Avs) esprime solidarietà alle forze dell’ordine, dalla premier Giorgia Meloni al ministro dell’interno Matteo Piantedosi, fino al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale fa sapere di aver telefonato al capo della polizia Vittorio Pisani esprimendogli il suo «stupore».
LE 48 PAGINE poggiano su «molte testimonianze» confermate anche dai documenti delle organizzazioni della società civile e di altri organismi di monitoraggio internazionali specializzati. Il racial profiling, sottolinea l’Ecri, «ha effetti notevolmente negativi», perché genera un senso di «umiliazione ed ingiustizia» per i gruppi coinvolti, provocando «stigmatizzazione e alienazione». La commissione suggerisce che le autorità sottopongano le pratiche di fermo e di controllo e perquisizione della polizia a un giudizio indipendente: «L’esame dovrebbe essere condotto con la partecipazione attiva delle organizzazioni della società civile e dei rappresentanti dei gruppi potenzialmente esposti alle pratiche di profilazione razziale». Poi insiste sulla necessità che gli uomini in divisa siano formati all’uopo. I funzionari delle forze dell’ordine dovrebbero conoscere «le pratiche che possono potenzialmente condurre alla profilazione razziale, con effetti nocivi sulla fiducia dei cittadini nella polizia, nonché per identificare modelli indicativi di razzismo istituzionale all’interno delle forze dell’ordine, in particolare nei confronti dei rom e delle persone non bianche o di origine africana».
NEL DOSSIER si traccia un nesso col contesto politico-culturale più generale del paese: «Il discorso pubblico è diventato sempre più xenofobo – si legge nel documento – E il discorso politico ha assunto toni altamente divisivi e antagonistici prendendo di mira in particolare rifugiati, richiedenti asilo e migranti, così come cittadini italiani con contesto migratorio, rom e persone Lgbti. L’incitamento all’odio, anche da parte di politici di alto livello, spesso rimane incontrastato». Vi si cita, senza nominarlo direttamente, anche il caso del neo-eletto in Europa Roberto Vannacci: «Esempi recenti di dichiarazioni razziste e fobiche nei confronti delle persone Lgbti nella vita pubblica includono le osservazioni fatte in un libro pubblicato nel 2023 da un generale delle forze armate italiane». E ancora: «Nel loro percorso verso l’integrazione e l’inclusione, i migranti hanno sperimentato problemi concreti a causa della narrazione, sostanzialmente negativa, caldeggiata dalla classe politica. Anche le eccessive critiche rivolte a singoli giudici che si occupano di casi di migrazione mettono a rischio la loro indipendenza». Ma va anche detto che l’Ecri ha inviato il report alle autorità italiane, raccogliendone le osservazioni, che riporta in calce al testo. E che nelle sei pagine inviate da Roma sono commentate varie parti del rapporto, compreso il paragrafo sulla profilazione razziale. Nei commenti ci si limita a far sapere che «l’osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (che dipende dal Viminale) ha introdotto dal 2014 un focus specifico», nell’ambito delle attività di formazione, sui rischi connessi alla «profilazione discriminatoria».
LORENZO TRUCCO dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che è tra i referenti del dossier e che segnala che si tratta di «una cosa molto seria» che «mette in rilievo delle inefficienze, delle arretratezze e arriva tramite un percorso molto dettagliato». Del resto appena venti giorni fa anche le Nazioni unite, in un documento del gruppo per il superamento del razzismo nel sistema poliziesco e giudiziario, sono arrivate a conclusioni simili circa la situazione del paese, il comportamento delle forze dell’ordine e le deportazioni in Albania
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Meloni costretta a festeggiare i due anni di governo solo in video e con una serie di slide su record inventati. Rafforzato il decreto anti-migranti per salvare il modello Albania, ma resta inutile o quasi. E il testo della manovra non c’è
Io parlo da sola Il governo cambia il decreto sui Paesi sicuri. Mattarella firmerà, il pasticcio resta
Un’immagine dal video postato ieri da Giorgia Meloni
Doveva essere una festa a caviale e champagne, conferenza stampa fiume con tutti i ministri in bella schiera, trionfalismo a go go, superlativi a perdere. È finita a spumantino e tramezzini da bar. La celebrazione del secondo compleanno del governo Meloni si è risolta in un modesto videomessaggio della premier, di quelli da ordinaria amministrazione. Poco meno di due minuti: «Non mi sono risparmiata», «Sono soddisfatta dei risultati e dei traguardi raggiunti», «Sono consapevole di quanto lavoro ci sia ancora da fare». Non entrerà negli annali. Fatica persino ad approdare nella cronaca di giornata.
COLPA IN PARTE della manovra, che ancora non quadra come dovrebbe e tarda ad arrivare in parlamento. Con la legge di bilancio vacante sarebbe stato comunque un compleanno senza torta. Colpa soprattutto del pasticcio albanese, che è un guaio serio e chi ha voglia di fare festa quando il fiore all’occhiello si scopre appassito, la carta vincente per indicare la direzione all’Europa si rivela un’inutile scartina?
Il dl presentato lunedì sera da Mantovano, Nordio e Piantedosi serviva solo alle esigenze della propaganda, certo non secondarie ma neppure risolutive. I magistrati possono ignorare quel decreto in nome della prevalenza gerarchica della norma europea. Il Colle si era messo di mezzo su ogni ulteriore contenuto di carattere procedurale. Il governo, dopo alcuni momenti di tensione alta, si era rassegnato ad arretrare.
ALLA FINE LA PREMIER e i suoi ministri hanno deciso di forzare almeno un po’ per portare a casa qualcosa in più di una lista dei Paesi sicuri promossa a norma primaria, in quanto legge, ma inutile o quasi lo stesso. Il testo finale contiene a sorpresa una seconda modifica, della quale non c’era stata traccia nella conferenza stampa di lunedì sera: i ricorsi contro le sentenze del Tribunale saranno presentati in Appello, che deve decidere entro 10 giorni, e non più in Cassazione. Questione di celerità insomma. Il Quirinale non si aspettava la
Leggi tutto: Meloni rilancia sull’Albania, ma la festa non decolla - di Andrea Colombo
Commenta (0 Commenti)Palestina Diciassette giorni di assedio israeliano, famiglie divise e bombardamenti a tappeto. Onu: pericolo di distruzione del popolo palestinese. In due settimane 640 uccisi nelle città settentrionali. Tajani a Tel Aviv annuncia 15 camion umanitari, ma quelli che ci sono non passano
I feriti in un raid israeliano su una bancarella di verdure a Deir al-Balah
«Gli Stati uniti e i paesi europei…ritengono che le spiegazioni del governo (israeliano) non coincidano le operazioni dell’esercito sul campo». Ieri l’analista Amir Tibon, su Haaretz, riportava della convinzione crescente tra le cancellerie occidentali: Israele dice di non voler svuotare il nord di Gaza dei suoi abitanti palestinesi, ma nessuno ci crede.
Tibon ha raccolto le voci di diversi diplomatici occidentali, ormai convinti che l’assedio totale del nord della Striscia non sia volto – come dice Tel Aviv – a distruggere l’infrastruttura militare di Hamas ma a mettere in pratica il famigerato «Piano dei Generali», ovvero «rimuovere l’intera popolazione civile e trasferirla a sud, oltre il corridoio Netzarim».
A spingere in questa direzione, continua Tibon, c’è il blocco degli aiuti umanitari che a nord non si vedono dal primo ottobre, «una mossa che il mondo ha interpretato come il tentativo di affamare la popolazione».
LE PREOCCUPAZIONI europee e statunitensi (che non si traducono in alcuna misura pratica di pressione su Tel Aviv, se non – scrive Haaretz – lettere e messaggi) a Gaza sono vissute in tutt’altro modo. Terrore e lotta per sopravvivere.
Gli ultimi giorni hanno visto l’intensificarsi della violenza militare perpetrata a nord, con l’apice toccato nella notte tra sabato e domenica: un attacco aereo durissimo su un palazzo di Beit Lahiya ha ucciso almeno 73 palestinesi e ne ha feriti un centinaio.
Le notizie che giungevano quella notte ridavano indietro, attutito, l’orrore: donne e bambini tra le vittime, nessun avvertimento nei minuti precedenti, l’edificio collassato su se stesso, l’intera città che tremava e i soccorritori bloccati dai continui bombardamenti.
Molti feriti, avverte il direttore dell’ospedale Kamal Adwan, Hossam Abu Safia, non sopravviveranno: manca tutto; i dispersi non saranno recuperati, mancano i mezzi. Domenica l’Alto commissariato Onu per i diritti umani ha parlato del pericolo che l’offensiva israeliana a nord «possa causare la distruzione del popolo palestinese attraverso morte e sfollamento».
Parole durissime, che si traslano in quel «genocidio plausibile» che la Corte internazionale di Giustizia ha già individuato 10 mesi fa.
IN QUEL PEZZO di Gaza non entrano cibo e medicine da oltre venti giorni, 400mila persone sono in trappola e da domenica, dopo i raid a tappeto, le forze israeliane sono avanzate via terra compiendo violente incursioni dentro i rifugi degli sfollati.
I giornalisti riportano le testimonianze raccolte: «Ci hanno costretto a lasciare la scuola – racconta una donna a Middle East Eye – Hanno arrestato tutti gli uomini e hanno cacciato noi donne, a gruppi. Non ci siamo portate nulla con noi, neanche il latte per i bambini».
L’Alto commissariato ha ricevuto le stesse segnalazioni: palestinesi in fuga presi di mira dai cecchini, distruzione dei rifugi (come quello intorno all’ospedale Indonesiano di Beit Lahiya, dato alle fiamme), famiglie separate con decine di uomini arrestati. Ieri nel nord di Gaza, tra l’alba e il primo pomeriggio sono stati uccisi 33 palestinesi, dicono fonti mediche.
Il bilancio degli ultimi 17 giorni di assedio è di almeno 640 vittime solo in quella porzione di Gaza. A sud ieri la protezione civile ha recuperato cinque cadaveri a Rafah, altri due a Gaza City.
IL MASSACRO peggiore è accaduto di nuovo a Jabaliya, il campo profughi del nord, con 18 uccisi: «La gente riempiva i container dell’acqua quando è stata colpita», riporta il giornalista Ibrahim al-Khalili. L’Onu ha invece denunciato raid contro tre scuole Unrwa e un gruppo di case demolite a Jabaliya e il diniego ricevuto da Israele, per il quarto giorno di fila, a entrare a Jabaliya.
In tale contesto la diplomazia è un fantasma che si aggira su Gaza. Se domenica Amnesty ha chiesto ai paesi europei l’embargo totale di armi a Israele, i paesi occidentali alleati non agiscono.
Ieri il presidente francese Macron da Parigi e il ministro degli esteri italiano Tajani a Tel Aviv (e oggi arriva il segretario di stato Usa Blinken) hanno ribadito la «strategia»: pressioni a parole sul governo israeliano, addirittura sulla soluzione a due stati. Tajani, prima di lasciare Tel Aviv e Ramallah (ha incontrato entrambe le leadership in mezza giornata) ha annunciato l’invio di 15 camion di aiuti italiani nell’ambito del suo programma Food for Gaza.
MA DI CAMION in attesa in Egitto ce ne sono migliaia, il problema non è la mancanza di aiuti: è che Israele non li fa entrare. «(L’esercito) invade le case, caccia i residenti – scrive la giornalista Hind Khoudary da Deir el-Balah – Le persone chiedono aiuto, registrano video mentre sono in trappola. Senza cibo, senza niente»
Verona Presidio alla stazione per ricordare il 26enne del Mali. Gli amici: «non si risponde con le armi al disagio sociale e psichico
Il presidio alla stazione di Verona – Jacopo Rui
In tanti si sono recati ieri sera alla stazione di Verona per ricordare con mazzi di fiori Moussa, il 26enne del Mali ucciso. L’episodio è accaduto domenica di prima mattina. Il giovane, in evidente stato di disturbo psichico, avrebbe tentato di aggredire tre poliziotti della Polfer con un coltello, uno dei quali gli ha esploso contro tre colpi di pistola, uccidendolo. Ma se la dinamica dell’episodio, attualmente al vaglio della magistratura, è ancora da chiarire, la politica non ha perso tempo a cavalcare il fatto. A Verona, l’opposizione di destra si è immediatamente scagliata contro i migranti e le politiche, a loro modo di vedere, troppo permissive della Giunta guidata dal sindaco Damiano Tommasi. Non poteva mancare un intervento a gamba tesa di Matteo Salvini che ha scritto sui social: «Con tutto il rispetto, non ci mancherà. Grazie ai poliziotti per aver fatto il loro dovere».
MA CHI ERA, QUESTO ragazzo del Mali che non mancherà al leader della Lega? Moussa Diarra, questo il suo nome, era fuggito dalla guerra che insanguina il suo Paese. Sognava di lavorare nei campi in Italia, come suo fratello. Sbarcato a Lampedusa nel 2016, dopo aver attraversato l’inferno libico, è stato ingabbiato nel Cas veronese di Costagrande, struttura ora chiusa e tristemente famosa per le condizioni in cui tratteneva i suoi “ospiti”. Qui Moussa aveva avviato la trafila per un permesso di soggiorno umanitario e cercare lavoro. Quando l’hanno rimesso in libertà, soffriva oramai di depressione e di disturbi psichici. Ma fuori del Cas, per Moussa, come per tanti altri, non c’è niente.
GLI ATTIVISTI DEL CENTRO sociale Paratodos gli avevano trovato un giaciglio al Ghibellin Fuggiasco, uno spazio occupato per offrire ai senza tetto quel minimo di assistenza che Stato non garantisce. La sera, mangiava qualcosa al Rifugio Due, un centro messo in piedi dalla Ronda della Carità e dall’onlus One Bridge To Idomeni per dare supporto legale e aiutare nella ricerca di un lavoro chi ne ha bisogno. Cittadini stranieri per lo più, ma anche tanti anche italiani. «Moussa si era rivolto ai nostri sportelli questa estate, cercava un supporto legale per ottenere i documenti necessari a regolarizzarsi e lavorare – spiega Jacopo Rui, coordinatore dello sportello -. I cedolini provvisori che la questura rilascia non vengono nemmeno presi in considerazione dalle banche e dai datori di lavoro e lui si era adattato a vivere per strada. Sono in tanti nelle sue condizioni. Non fa certo meraviglia che possano nascere disagi psichici. Doveva essere curato e non ucciso in questa maniera».
IL GIOVANE SI ERA RIVOLTO al Cesaim, Centro Salute Immigrati di Verona dove gli erano stati prescritti degli psicofarmaci. Ma, raccontano i suoi amici, certi giorni non riusciva neppure ad alzarsi dal letto per la depressione. E così aveva perso l’appuntamento del 10 ottobre per il rinnovo del permesso di soggiorno. «Oramai non credeva più a niente – dice un migrate suo amico -. Sognava solo di tornare nel Mali».
GLI ATTIVISTI DEL Paratodos hanno provato in tutti i modi a scuoterlo dalla sua apatia e lo avevano sollecitato a partecipare al recupero di una grande struttura abbandonata in via Villa, a Quinzano. «Sabato e domenica siamo andati a ripulire l’area – racconta Giorgio Brasola del Paratodos -. Moussa ci aveva detto che ci avrebbe raggiunto in bicicletta. Ma non è arrivato mai. Eravamo riuniti in assemblea quando è arrivata la notizia della sua morte. Non abbiamo più avuto il coraggio di continuare, non si può morire così a 26 anni. Costituiremo un comitato per chiedere verità e giustizia per Moussa e per tutti gli altri come lui. Non vogliamo vivere in un Paese violento dove si risponde con le armi al disagio sociale e psichico».
TRA LE ALMENO 500 persone, che piangevano il ragazzo del Mali, c’era anche il fratello, Djemagan Diarra, appena arrivato da Torino. «Non era un delinquente. Non voglio che sia ricordato così. Stava male. Gli avevano fatto di tutto in Libia. Non è giusto». A lui sì che il fratello mancherà
Commenta (0 Commenti)Il governo prova a salvare il “modello Albania” con il decreto sui «Paesi sicuri». Nordio alza la voce: «I giudici non possono disapplicare una legge». E la sentenza della Corte Ue? «Non l’hanno capita perché scritta in francese». Meloni rinvia la conferenza stampa di oggi
A quel Paese La lista dei Paesi sicuri trasformata in legge. Nordio: «Magistrati tenuti a rispettarla, altrimenti devono ricorrere alla Consulta». Per il ministro la sentenza europea male interpretata anche perché scritta in francese
Giorgia Meloni in Albania con il primo ministro Edi Rama – foto LaPresse
È un decreto lampo: deciso di corsa, approvato nel giro di mezz’ora. Non va oltre quanto previsto, la trasformazione in norma primaria, cioè in legge, della lista di Paesi che l’Italia considera sicuri. Dai 22 originari ne sono stati cancellati 3, Camerun, Colombia e Nigeria: una prova di disponibilità al dialogo a costo zero, trattandosi almeno nei primi due casi di Paesi a bassissimo tasso d’immigrazione. Cosa significhi la trasformazione in norma primaria lo chiarisce il guardasigilli Nordio in conferenza stampa: «Essendo legge i magistrati sono tenuti a rispettarla. Se ritengono che violi la Costituzione devono ricorrere alla Consulta».
È UNA PORTA LASCIATA aperta alla resa non incondizionata. I magistrati della sezione Immigrazione potrebbero infatti insistere sul fatto che la sentenza della Corte di giustizia europea del 4 ottobre, avendo valore costituzionale, è sovraordinata rispetto alle leggi nazionali e sentenziare di nuovo sui trasferimenti senza coinvolgere la Consulta. Il sottosegretario Alfredo Mantovano lascia capire che al quel punto il governo potrebbe usare l’arma fine-di-mondo, cioè sottrarre per decreto al Tribunale di Roma il compito di sentenziare in materia. La minaccia è esplicita: «Ulteriori interventi non si escludono». Ma probabilmente è un’arma spuntata. Significherebbe arrivare allo scontro frontale anche con il Quirinale, cosa che la premier preferirebbe di gran lunga evitare.
IL DECRETO È STATO in effetti scritto tenendosi in contatto continuo con gli uffici legislativi del Colle. Mattarella però non lo avrebbe ancora letto, essendo ieri sera impegnato nella cena di Stato con l’emiro del Qatar. La rapidità con cui emanerà il decreto sarà comunque indicativa: se lo terrà a lungo sulla scrivania sarà un segnale preciso. Il rinvio invece è improbabile. È una mossa estrema, non nello stile del presidente e a maggior ragione dopo i conciliaboli tra gli uffici legislativi per definire il testo.
I ministri che hanno presentato ieri il decreto, oltre a Mantovano e Nordio anche Matteo Piantedosi, insistono sulla assoluta assenza di conflittualità con la sentenza della Corte europea. Quella sentenza, disserta Nordio, «è molto complessa, dunque forse non compresa o non letta, anche perché era in francese».
Dopo aver dato degli “ignorantoni” ai magistrati della sezione Immigrazione il guardasigilli legge (in francese) i passaggi che a suo parere sono stati
Leggi tutto: Sfida ai giudici sul modello Albania, arriva il decreto - di Andrea Colombo
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