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Due giorni alle elezioni presidenziali negli Usa. Testa a testa negli stati decisivi, il risultato si farà attendere ma Trump è già pronto a non riconoscere una vittoria di Harris. Nei tribunali e nelle piazze

Elettorale americana Testa a testa: tre stati in bilico per uno. 69 milioni di cittadini hanno votato in anticipo. I dem si affidano a Beyoncé e JLo

Urne aperte per il voto anticipato in Massachusetts Ap/Steven Senne Urne aperte per il voto anticipato in Massachusetts – Steven Senne/Ap

Man mano che si avvicina il 5 novembre, chi è registrato a una o a entrambe le campagne elettorali sta ricevendo un numero crescente di messaggi, via email, via sms, a ondate sempre più vicine. Donald Trump più aggressivo, conciso e in maiuscolo che mai; Kamala Harris con comunicazioni lunghe e articolate, corredate da fotografie. Con più di 69 milioni di elettori che hanno già espresso il loro voto, le campagne si focalizzano ora sul convincere gli indecisi.

ENTRAMBI i candidati si rincorrono di stato in bilico in stato in bilico inanellando comizi, con la campagna democratica che continua a fare affidamento sul potere delle star. Jennifer Lopez, Beyoncé, Ricky Martin, Michelle Obama. A Las Vegas, con il candidato vice presidente Tim Walz, è arrivata Eva Longoria. Sempre più repubblicani stanno sostenendo Harris, tra cui la figlia di George W. Bush, Barbara Pierce Bush che ha dato il suo endorsement e si è unita a Liz Cheney, che fa attivamente campagna per Harris. Cheney è stata una dei soli due repubblicani nella commissione della Camera che ha indagato sulla rivolta del 6 gennaio ed è la più importante sostenitrice repubblicana di Harris. Per questo è stata definita da Trump un «falco di guerra radicale», in un’intervista con il commentatore conservatore Tucker Carlson a Glendale, in Arizona.

Non è chiaro quanto gli endorsement e la presenza delle star in realtà funzioni. Quando Barack Obama e Bill Clinton si sono rivolti alla comunità arabo americana invitandola a votare per Harris hanno avuto risultati tiepidi, mentre le contestazioni durante i comizi della candidata Dem continuano. Secondo i sondaggi del Washington Post, che si basano su una media di sondaggi nazionali e statali, la corsa è ancora incredibilmente combattuta.

HARRIS ha mantenuto il suo vantaggio a livello nazionale in Michigan, Wisconsin e Nevada, ma quello in Pennsylvania si è ridotto nell’ultima settimana. Trump è ancora in testa in Arizona, Georgia e North Carolina. Si parla comunque di percentuali di vantaggio entro il margine di errore, nell’ordine del mezzo punto, nel caso della Pennsylvania, dove Harris ha in programma di tenere il suo comizio finale, la sera del 4 novembre, a Philadelphia (Trump invece dovrebbe essere a Pittsburgh).
Come ha riassunto il content creator Hayden Clarkin in un post su Thread: «Il collegio elettorale è così divertente: cosa significa che il futuro della Nato dipende dalla contea di Erie, Pennsylvania?»

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L’insofferenza per lo stato di diritto va oltre l’assalto alle toghe. Atti parlamentari provano il tentativo del governo di uscire dalle regole europee per continuare a deportare i migranti. Arriva il conto dell’hotel in Albania per gli agenti di guardia nei campi di detenzione

Check out Fino a 9 milioni per gli agenti stanziati oltre Adriatico. L’opposizione: «Spreco nazionale». Da domani beltempo a sud di Lampedusa. Occasione per il governo di riprendere le deportazioni

L'hotel Rafaelo resort a Shengjin L'hotel Rafaelo resort a Shengjin

A Shengjin l’hotspot è ancora vuoto ma, almeno, un paio di resort si sono riempiti. Dentro ci sono le forze di polizia italiane coinvolte nell’attuazione del protocollo Roma-Tirana per la detenzione oltre Adriatico dei richiedenti asilo. Tra l’Hotel Comfort e il Rafaelo Executive, alberghi a 4 e 5 stelle, c’è posto per 295 agenti. Le strutture appartengono alla Rafaelo Resort e dispongono di spiaggia privata, centro benessere, piscina e ristorante. Per il vitto è anche possibile, in via esclusiva, mangiare presso il Comfort Family. Al termine dei lavori di edificazione altri alloggi saranno ubicati nel Rafaelo Lake. In totale fanno 9 milioni di euro per una spesa «unitaria giornaliera onnicomprensiva di 80 euro».

NON POCO PER un paese con un costo della vita molto più basso rispetto all’Italia. La convenzione dura 12 mesi, ma non è chiaro se sia il risultato di un bando pubblico. Tutti i dettagli sono contenuti nei documenti del ministero dell’Interno, dipartimento della Pubblica sicurezza, visionati dall’agenzia LaPresse che ieri ha dato la notizia.

Sono cifre che si vanno ad aggiungere ai costi astronomici, tra 700 milioni e un miliardo di euro in cinque anni in base alle diverse stime, del progetto Albania. Progetto su cui la premier Meloni ha puntato tutto. I soldi, a giudicare dalla rivelazione, andranno versati in ogni caso, ma il Viminale fa trapelare che si tratta solo di massimali da verificare in base alle presenze effettive. Tra l’hotspot di Shengjin e i centri detentivi di Gjader, comunque, rischia di non essere recluso nessuno dal momento. Almeno il governo sembra non aver trovato vie d’uscita efficaci dal cul de sac sul tema dei paesi di origine sicuri. La classificazione – contestata dalla Corte di giustizia Ue e dai tribunali di Roma, Bologna e Catania – rappresenta il presupposto dello svolgimento dietro le sbarre dell’iter per la protezione internazionale.

«ALLE VIOLAZIONI dei diritti umani di un’operazione che la giustizia ha già bollato come illegittima si aggiunge l’enorme spreco di denaro», attacca la segretaria dem Elly Schlein. «Uno scandalo. Pur di non perdere la faccia sono disposti a continuare a perdere soldi degli italiani», dice Filiberto Zaratti, capogruppo di Avs nella commissione Affari costituzionali della Camera. «Altro che scenetta con la calcolatrice nel salotto televisivo di Bruno Vespa: Meloni ha sbagliato tutti i conti anche sui centri di detenzione per migranti d’oltre Adriatico», afferma il deputato e segretario di +Europa Riccardo Magi. Pure il leader di Italia Viva Matteo Renzi, distintosi dal resto dell’opposizione per l’idea che il problema non abbia a che fare con i diritti fondamentali ma sia solo di natura economica, ne approfitta per attaccare il governo: «Poliziotti e carabinieri servono in stazioni, periferie e strade italiane. Non nei resort albanesi al costo di milioni di euro».

Dalle parti della maggioranza nessuno commento la notizia, che ha riacceso le rivendicazioni del sindacato della polizia penitenziaria Uilpa. Il segretario Gennarino De Fazio denuncia la differenza di trattamento del corpo che rappresenta: «Per polizia resort, per penitenziaria container». Gli agenti della seconda, infatti, dormono nelle strutture prefabbricate

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La macchina del fango Quasi tutte le vittime sono di Valencia. Si scava nel fango. Sotto accusa il presidente della giunta: ritardi nel dare l’allarme

Gli abitanti puliscono le loro case dalla devastazione causata dall'alluvione nel comune di Paiporta, nella provincia di Valencia foto Ansa Gli abitanti puliscono le loro case dalla devastazione causata dall'alluvione nel comune di Paiporta, nella provincia di Valencia foto Ansa

Ieri la Spagna guardava in due direzioni. Da un lato verso il cielo, cercando di capire dove e con che forza sarebbe arrivata la tempesta dopo aver devastato Valencia. Dall’altra verso terra, iniziando a calcolare i danni, cercando i dispersi – ormai, i loro corpi – e dando il via alla polemica politica.

La conta dei morti è arrivata a 158. Di questi, 155 solo nella comunità valenciana. Anche i danni alle infrastrutture sono in continuo aggiornamento e di certo ingenti. Uscire o arrivare a Valencia è un’impresa difficile. Più di 150 strade rimangono chiuse, e i treni ad alta velocità tra la città e gli altri grandi centri – Madrid e Barcellona – non riprenderanno a circolare prima di quindici giorni. Le immagini d’altronde parlano da sole: auto accatastate ai lati delle strade, case invase dal fango, acqua che ancora riempie garage e cantine. Molti temono che spalando si troveranno altri cadaveri.

QUANDO chiudiamo questo articolo sei comunità autonome rimangono in stato di allerta, ma nessuna a livello rosso, il massimo possibile. Il vortice isolato – quello che gli spagnoli chiamano gota fría, goccia fredda, o Dana dall’acronimo di Depresión Aislada en Niveles Altos – spostandosi ha perso di potenza. E dopo la tragedia valenciana nessuno ha più sottovalutato la sua pericolosità.

COME LA PAURA per il pericolo imminente diminuisce, si fa strada il dolore di chi ha perso qualcuno, e con esso le domande. Chi è responsabile della catastrofe? Le istituzioni per ora rimangono sulla linea dell’unità. Il premier Pedro Sanchez è volato ieri a Valencia, ha portato la solidarietà del governo ed è apparso in conferenza stampa assieme a Carlos Mazón, il presidente conservatore della giunta regionale. Lui, sul banco politico degli imputati per i ritardi nell’allerta, ha ringraziato il capo dell’esecutivo: «Grazie, caro Presidente, per la tua rapida venuta e la tua vicinanza». Toni rispettosi, ma la tregua alluvionale non ha coinvolto Alberto Núñez Feijóo, leader del Partito Popolare e compagno di partito di Mazón. «Non chiedo al governo di collaborare di più, ma di collaborare. Avete visto quello che è successo ieri al Congresso: c’era più preoccupazione per i media pubblici e il loro controllo che per le persone che qui stanno in situazioni al limite». Il riferimento è alla scelta della maggioranza nazionale di non interrompere il dibattito parlamentare, centrato come da calendario sulla governance della tv statale.
Nessuno in Spagna, a dire il vero, sembra essersi indignato per questo. Il centro della discussione è il sistema di allarme. Martedì, giorno della strage, fabbriche e negozi erano aperti: la gente è stata travolta dal fango mentre tornava da lavoro o da scuola. «Un presidente di regione gestisce in base alle informazioni che riceve. E queste informazioni dipendono da organismi con competenza esclusiva del governo centrale» ha detto ancora Feijóo, cercando di spostare l’attenzione dalle responsabilità della giunta locale, di centrodestra, a quelle del governo nazionale a guida socialista.

AEMET, L’AGENZIA meteorologica statale, sembra però avere la coscienza a posto: il primo bollettino era stato rilasciato il 20 ottobre, l’allerta rossa era stata proclamata fin dalle 7:35 di martedì. È la comunità autonoma ad aver aspettato le 20:15 per far arrivare sul cellulare dei propri cittadini un sms di allerta. Un orario in cui, come scriveva ieri El Paìs, «la situazione iniziava già ad essere disperata». Per questo è il governo di Valencia il primo accusato. Alcune realtà dei movimenti e della sinistra si sono date appuntamento per sabato 9 novembre. Slogan della manifestazione: Mazón dimettiti. Non aiutano le scelte passate della giunta: appena eletti, i consiglieri della destra abolirono l’Unidad Valenciana de Emergencia, una task-force creata appositamente per crisi di questo genere, e l’agenzia locale per il riscaldamento globale.

PROPRIO LA CRISI CLIMATICA originata dai combustibili fossili è l’altro punto focale della discussione. Sempre Aemet invitava due giorni fa ad aspettare studi di attribuzione specifici prima di dirsi certi del legame tra questo evento estremo e l’aumento delle temperature medie globali. Ma gli indizi ci sono, e molti. Juan José González Alemán è fisico e ricercatore presso l’agenzia meteorologica spagnola. È stato tra i primi a dirsi preoccupato per il vortice in arrivo, con giorni di anticipo, tramite un post su X poi diventato virale. Oggi spiega: «Se già prima era un evento straordinario, la sua persistenza fa acquisire a questa Dana tinte ancora più anomale. Bisogna approfondire, ma i sospetti che ci sia qualcosa dietro questo strano comportamento sono forti». E cosa possa essere quel qualcosa dietro lo spiega lui stesso: «mi riferisco al cambiamento climatico di origine antropica».

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Clima Rinviato di nuovo lo stanziamento di 4,5 miliardi di euro promessi dal governo. Secondo il commissario Figliolo, mancano le coperture finanziarie

Cesena, alluvione del maggio 2023 Cesena, alluvione del maggio 2023 – LaPresse

Il governo Meloni continua a rimandare lo stanziamento dei 4,5 miliardi di euro promessi all’Emilia-Romagna per la ricostruzione post-alluvione. L’ennesimo rinvio è stato comunicato lunedì, nel corso di un incontro tra la struttura commissariale, i ministeri, la regione e i comuni che era stata convocata per l’approvazione definitiva del Piano speciale per la ricostruzione. Invece, a sorpresa il commissario Francesco Figliuolo ha annunciato il rinvio perché mancherebbero le coperture finanziarie da parte del ministero dell’economia e finanze.

L’impegno dei 4,5 miliardi era stato definito in seguito alla diffusa alluvione del 16 e 17 maggio 2023, quando una pioggia molto intensa provocò l’esondazione di 21 fiumi, 17 morti e più di 20 mila sfollati in 37 comuni. Dopo quell’evento in Emilia-Romagna sono avvenute altre due gravi alluvioni, l’ultima il 19 e 20 ottobre scorsi. Il territorio è sempre più fragile e compromesso, e la regione attende l’approvazione del piano e dei sostegni economici per iniziare le opere di ricostruzione e adattamento. Ma il governo continua a nicchiare.

Con le elezioni regionali in programma il 17 e 18 novembre, il clima è di estrema tensione. Più volte gli esponenti dell’esecutivo, col ministro Musumeci e il viceministro Bignami in testa, hanno accusato la regione Emilia-Romagna di inefficienza; mentre gli amministratori locali – compresi quelli di centrodestra, come il sindaco di Brisighella Massimiliano Pederzoli – denunciano che non è stato stanziato ancora un centesimo. Un’altra critica riguarda la decisione del governo di accentrare la struttura commissariale a Roma anziché sul territorio, accentuando così le lungaggini burocratiche.

Per ora, gli unici soldi arrivati hanno riguardato le opere di somma urgenza subito dopo l’alluvione, mentre per gli interventi strutturali non si è visto ancora nulla. In Emilia-Romagna sono necessari profondi riassetti degli insediamenti urbani e dei fiumi: questo territorio sta infatti subendo più di altri le conseguenze degli eventi estremi provocati dalla crisi climatica, aggravati dall’eccessiva cementificazione favorita dalle politiche degli ultimi decenni.

Il sindaco di Faenza Massimo Isola ha parlato di «sconcerto generale» per il rinvio. «Ma non si era sempre stato detto che “i soldi ci sono”?», si è chiesto il primo cittadino della città più colpita dalle alluvioni degli ultimi 18 mesi.

Tentando una mediazione, la regione Emilia-Romagna ha chiesto che vengano stanziati almeno 877 milioni per le opere più urgenti.

«Nessuno si aspetta di avere subito a disposizione i 4,5 miliardi di euro previsti dal piano, perché parliamo di una mole di opere strutturali che richiederanno diversi anni per essere completate», ha detto la presidente regionale facente funzioni Irene Priolo. Ma «al contrario, non si può nemmeno pensare che la prossima legge di bilancio non metta nulla sul 2025 e 2026, perché c’è assoluta urgenza di partire. Per questo abbiamo avanzato una proposta: si approvi il piano e contestualmente si dia avvio a un primo stralcio di interventi che comprende le opere più urgenti. Questo primo stralcio richiederebbe nel triennio 2025-2027 circa 877 milioni, una cifra importante ma ragionevole per avviare gli interventi decisivi».

Ma dal governo, per ora, il silenzio continua.

 

 

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Immigrazione Nuovo strappo. Il testo per blindare le deportazioni ora è un emendamento

Il centro di Gjader in Albania foto Ansa Il centro di Gjader in Albania – Ansa

Il governo ha deciso ieri di non far convertire dal parlamento il decreto Paesi sicuri, ma di trasformarlo in un emendamento al decreto flussi il cui iter è più avanzato. L’annuncio è stato dato alle due riunioni delle conferenze dei capogruppo di Camera e Senato, dopo che nei giorni scorsi il decreto era stato presentato prima a Montecitorio per la sua conversione, e poi ritirato e ripresentato a palazzo Madama. Sarebbe sbagliato commentare in tono irridente la decisione di ieri del governo – che ha suscitato l’indignazione delle opposizioni – perché quella in gioco non è inettitudine, bensì spregiudicatezza.

Il nostro giornale ha raccontato ieri come il governo ha presentato il 23 ottobre il decreto Paesi sicuri alla Camera, solo perché in quei giorni non erano previste sedute del Senato, necessarie per la trasmissione del provvedimento; poi, con disinvoltura, lunedì sera il testo era stato ritirato da Montecitorio e ripresentato a palazzo Madama nella seduta di martedì. Era stato infatti promesso ai senatori della maggioranza di permettere l’esame da parte loro in prima lettura.

Improvvisamente ieri il ministro Luca Ciriani ha annunciato che il governo chiede che il decreto non venga esaminato e convertito nemmeno dal Senato, perché sarà trasformato in un emendamento al decreto flussi, che la commissione Affari costituzionali della Camera sta già esaminando (martedì sera sono giunti 300 emendamenti) e che sarà convertito prima. Immediata la reazione delle opposizioni, con i capigruppo di Pd e Avs, Francesco Boccia e Peppe De Cristofaro, che hanno parlato di «umiliazione del parlamento», mentre per Dario Parrini, Pd, si è trattato di una «violenza procedurale». Infatti con questo trucco a cui l’esecutivo è già ricorso, ha evidenziato Parrini, al parlamento non vengono concessi i 60 giorni di tempo per convertire il decreto previsti dalla Costituzione. Dunque, già esiste ormai di fatto un monocameralismo alternato per l’esame dei decreti; in più alcuni di questi hanno un esame accelerato e privo di controllo parlamentare.

Questo secondo aspetto è quello che spinge a parlare di spregiudicatezza istituzionale del governo. Quando l’esecutivo presenta un provvedimento in parlamento, la commissione di merito svolge delle audizioni che possono mettere in evidenza criticità; ed è questa fase imbarazzante che il governo ha deciso di evitare per il decreto Paesi sicuri, per il quale i giuristi chiamati in audizione avrebbero potuto sottolineato l’incongruenza con le norme e la giurisprudenza Europea, e quindi la sua sostanziale inutilità e inapplicabilità. La trasformazione in emendamento evita anche il vaglio da parte del Servizio studi di Montecitorio o di palazzo Madama, che per gli atti del governo prepara un dossier di lettura in cui si segnalano eventuali punti dubbi (con eleganza i funzionari esortano «si valuti l’opportunità di modificare…»). I dossier e le audizioni sono strumenti utili ai parlamentari per il controllo dei provvedimenti del governo, che con questo escamotage impedire l’attività di controllo del parlamento, dopo che quella legislativa gli è stata sottratta da tempo.

Ci sono poi i precedenti di altri decreti di dubbia legittimità, che ci fanno cogliere la disinvoltura istituzionale, specie dei ministeri dell’Interno e della Giustizia. Nel decreto Cutro, l’articolo che impedisce alle navi delle Ong di salvare i naufraghi, è stato riformulato cinque volte con altrettanti emendamenti del governo in Senato, per la difficoltà a giungere a un testo promulgabile dal Quirinale; il decreto rave party è stato riscritto tre volte, e altrettante il decreto Caivano. Trasformato in emendamento, il decreto Paesi sicuri potrà essere scritto e riscritto senza tante disinibizioni dai due ministeri, lasciando il parlamento davanti a un prendere o lasciare

 

 

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- 5 al voto americano In Virginia la Corte suprema esclude sospetti stranieri, in Florida un trumpiano si presenta armato... Ma hanno già votato in 52 milioni

La polizia durante un comizio del candidato repubblicano Donald Trump al Madison Square Garden di New York foto Getty Images La polizia durante un comizio del candidato repubblicano Donald Trump al Madison Square Garden di New York – Getty Images

1.600 voti: all’apparenza una goccia nell’oceano dell’elettorato statunitense. Ma che assumono proporzioni giganti nella battaglia non più sotterranea per sopprimere, o contestare ex post, i voti non graditi ai repubblicani. Parliamo dei 1600 iscritti alle liste elettorali della Virginia fatti rimuovere d’autorità dal governatore Glen Youngkin con l’accusa di essere noncitizen, con il benestare, arrivato ieri, della Corte suprema.

IN UN ORDINE senza argomentazioni né firme (se non quelle delle tre giudici liberal per segnalare il proprio dissenso), la Corte ha infatti sollevato il divieto a “purgare” i 1600 elettori dalle liste, deciso da una corte federale dopo un ricorso del dipartimento di giustizia e di varie associazioni per i diritti civili. È già stato provato infatti che nella corsa di Youngkin a alimentare le fiamme del sospetto (infondato) di voti espressi da migranti illegali sono rimasti coinvolti svariati cittadini americani. Oltretutto, l’ordine è in violazione del National Voter Registration Act, che impedisce di mettere mano alle liste elettorali nel periodo immediatamente precedente alle elezioni.

La Corte suprema reagisce con una simbolica alzata di spalle, chiarendo ancora una volta come si sia ritagliata un ruolo da protagonista per indirizzare il risultato nella direzione più gradita. Ed è significativo, all’indomani dei letterali roghi dei ballot box negli stati di Washington e dell’Oregon, che un sondaggio pubblicato dal Washinton Post indichi che il 57% degli elettori di 6 swing state temano la violenza dei supporter di Trump in caso quest’ultimo non vinca le elezioni. Violenza che è continuata anche ieri: un 18enne – accompagnato da un gruppo di altri ragazzi con bandiere di Donald Trump – è stato arrestato in Florida per aver brandito un machete contro due elettori democratici fuori da un seggio elettorale, dove era in corso il voto anticipato.

«SONO PRONTO a difendere il risultato elettorale, faremo il nostro lavoro» ha affermato intanto, dalla Georgia, il segretario di Stato repubblicano Brad Raffensperger, già protagonista suo malgrado del tentativo di Trump di rovesciare il risultato nello stato: in quello che è uno degli swing state più importanti, il voto anticipato ha infatti infranto ogni record, superando già i 3 milioni di preferenze espresse. Record di voti si sono registrati anche in North Carolina e New York, e in generale in tutto il Paese. In tutto il paese hanno già votato 52 milioni di persone.

IN QUESTO CLIMA teso, i media Usa ricordano che per l’ottavo anno consecutivo gli Stati Uniti sono stati giudicati una “democrazia imperfetta” dalla società di analisi e ricerca Economist Intelligence Unit. Molti studiosi stanno mettendo in guardia dalle tendenze verso l’autoritarismo, sottolineando, come hanno fatto sia Politico che The Nation, che durante il comizio al Madison Square Garden Trump ha parlato di un “piano segreto” elaborato con il presidente della Camera Mike Johnson. Alla Cnn, Johnson ne ha confermato l’esistenza ma senza scendere in dettagli. L’ipotesi più plausibile è che Trump e Johnson stiano “segretamente” parlando di insediare Trump attraverso una “elezione contingente”, in cui la Camera, e non il Collegio Elettorale, determina il presidente.

Mentre questo accade più o meno dietro le quinte, i comizi continuano ad essere sotto i riflettori. Kamala Harris a Washington ha attirato 75mila persone scegliendo di parlare proprio dove Trump, nel 2021, aveva incitato i rivoltosi il giorno dell’assalto al Congresso. «Donald Trump ha trascorso un decennio cercando di tenere il popolo americano diviso, e le persone timorose l’una dell’altra. Ecco chi è lui. Ma sono qui stasera per dire: non è questo ciò che siamo».

POI È RIPARTITA per una serie di comizi in Pennsylvania, North Carolina e Wisconsin, “incrociando” Trump in questi ultimi due stati. In North Carolina Trump si è rivolto alla comunità portoricana dicendo che «non è colpa di nessuno», ma sono state dette «alcune cose brutte» al suo comizio del Madison Square Garden, riferendosi all’appellativo di “spazzatura” affibbiato a Portorico.

L’ARGOMENTO è stato malamente affrontato anche da Joe Biden, che ha scatenato una tempesta dicendo che «l’unica spazzatura che vedo fluttuare là fuori sono i suoi sostenitori»: si riferiva al “comico” che ha fatto la battuta, ma è sembrato parlasse della base di Trump, al punto che Harris per la prima volta ha tenuto a distanziarsi dal presidente, dicendosi «fortemente» in disaccordo.

Le elezioni pervadono ormai ogni aspetto della società americana, tanto che anche la parata di Halloween di New York, la più importante a livello nazionale, oggi avrà come tema “Meow, gatti”, un chiaro riferimento al ruolo giocato da questi felini nella campagna elettorale, a partire dalle “gattare senza figli” disprezzate da JD Vance, per arrivare alle menzogne contro i migranti haitiani che si sarebbero mangiati i felini domestici.

 

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