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Giorgia Meloni scopre i guasti della legge sull’immigrazione. «La sfruttano le mafie», e corre in procura (quella sbagliata). Ma non è una conversione. È campagna elettorale, sulla pelle dei migranti. La Bossi-Fini vuole cambiarla in peggio

IL CASO. Esposto della premier a Melillo (che però non può intervenire): «Infiltrazioni del crimine organizzato». Ma le indagini ci sono già. Annunciati interventi dopo il G7 di Borgo Egnazia. Miraglia (Arci): «Il governo è senza vergogna»

Migranti bengalesi protestano a Napoli nel 2015 contro le condizioni nei laboratori tessili della zona (Ansa) Migranti bengalesi protestano a Napoli nel 2015 contro le condizioni nei laboratori tessili della zona - Ansa

«Voglio parlarvi di immigrazione». Così ieri Giorgia Meloni ha cominciato la sua informativa al consiglio dei ministri in cui ha annunciato di aver consegnato al procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo «un esposto sui flussi di ingresso in Italia di lavoratori stranieri avvenuti negli ultimi anni avvalendosi del cosiddetto decreto flussi». L’incontro era avvenuto in mattinata, con la premier c’era anche l’onnipresente sottosegretario Alfredo Mantovano.

E GIÀ QUI, prima di affrontare il merito della questione, vale la pena fermarsi un attimo: la procura nazionale antimafia non ha poteri investigativi, dunque presentare lì un esposto ha molto poco senso. Esiste infatti il principio del giudice naturale precostituito per legge. Ed è bene tenere a mente che il suo contrario è il tribunale speciale, che in Italia è esistito solo durante il fascismo. Una premier (anche se viene dal partito erede dell’Msi) dovrebbe saperlo. Ma in questa storia, forse, più che la necessità di risolvere un problema, ad essere importante è la propaganda – cioè la possibilità di agitare lo spettro della questione migratoria – a pochi giorni dal voto europeo. «I flussi regolari di immigrati per ragioni di lavoro vengono utilizzati come canale ulteriore di immigrazione irregolare», ha detto Meloni ai suoi ministri con il tono di chi ha fatto una scoperta sensazionale. In realtà, chi si occupa di questioni migratorie, ha ben presente da diverso tempo quanto problematici siano i flussi e quanto questo meccanismo funzioni poco e male. Lo spiega bene Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci: «L’esposto è un’altra dimostrazione della faccia tosta e della mancanza di vergogna di questo governo. Sappiamo, sulla base di quel che è avvenuto dal 2002, anno dell’approvazione della Bossi Fini, che è la principale responsabile delle truffe, che si tratta di un meccanismo impraticabile». In effetti di rapporti e inchieste che dimostrano come il decreto flussi non serva tanto a far entrare lavoratori in Italia quanto a regolarizzare la posizione di chi già si trova nel paese. Oltre, ovviamente, ai casi di palese illegalità, tra sfruttamento e caporalato, dichiarazioni fittizie e mafie interessate assai all’argomento.

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2 GIUGNO. Il leghista esprime «rispetto» per Mattarella, ma insiste: «Non cedo altri pezzi d'Italia all'Europa e al guerrafondaio Macron». E Borghi «straconferma» le accuse al Colle. Meloni: polemiche da evitare. Dopo Vannacci, anche la sottosegretaria Castiello evoca la X Mas. Pd e Avs: si dimetta

Matteo Salvini con Sergio Mattarella Matteo Salvini con Sergio Mattarella - LaPresse

Il caso Salvini-Quirinale, aperto il 2 giugno dal leghista Borghi, non è chiuso, nonostante i tentativi di Meloni di farlo sembrare tale. Pochi minuti prima della parata per la festa della Repubblica, il leghista Claudio Borghi aveva lanciato un siluro per contestare le parole del capo dello Stato sulla «sovranità europea» che verrà consacrate con le elezioni dell’8 e 9 giugno. «Se il presidente pensa davvero che la sovranità sia dell’Ue invece che dell’Italia, per coerenza dovrebbe dimettersi».

IL CASO È ESPLOSO QUANDO il vicepremier Salvini ha sposato le tesi di Borghi: «Oggi è la festa degli italiani, della Repubblica, non della sovranità europea. La sovranità nazionale è fondamentale, non mi arrenderò mai a un super Stato europeo dove comandano quelli che hanno i soldi». Ieri il capo leghista ha provato a smorzare i toni: «Nessuna polemica verso il presidente della Repubblica che ha il mio rispetto, il rispetto della Lega e quello degli italiani», dice ad Agorà. Per poi aggiungere che il capo dello Stato «è garante della Costituzione che ripudia la guerra». E che lo stesso rispetto «non hanno altri leader e presidenti europei che rischiano di trascinare l’Italia nella terza guerra mondiale».

In serata, dopo un forte pressing delle opposizioni che contestavano il silenzio di Palazzo Chigi (che si è protratto per oltre 24 ore), Meloni su Rete 4 ha detto la sua: «Sono stata molto contenta che Salvini abbia chiarito: nella giornata del 2 giugno bisogna evitare il più possibile le polemiche».

BORGHI PERÒ NON FA PASSI indietro: «Ho detto una banalità che straconfermo: nella Costituzione non si parla di cessione di sovranità. Semmai finora abbiamo ceduto male pezzi di sovranità». Conte bastona i leghisti: «Da loro un attacco indegno, scomposto e sconclusionato al Quirinale». E Schlein: «Salvini si arrampica sugli specchi, ma rincara la dose rivendicando il principio di quell’attacco». «Attaccare il presidente Mattarella il giorno della festa della Repubblica ha indubbiamente un sapore eversivo», dice riccardo Magi di +Europa.

IN REALTÀ, AL NETTO DELLA folle richiesta di dimissioni di Mattarella da cui Salvini ha preso le distanze, ieri sera il vicepremier ha ribadito con forza il suo anti-europeismo: «Io difendo l’interesse nazionale e la sovranità nazionale. Non cedo altri pezzi di Italia all’Ue. Se noi dovessimo cedere all’Europa la sovranità militare, se avessimo la difesa unica in Europa, domani Macron manderebbe i nostri figli al macello, a combattere e morire in Ucraina oppure a usare le armi per bombardare e uccidere in Russia. Quindi teniamoci ben stretta la nostra Italia», ha detto in un comizio a Bari. Per poi lanciare un poco diplomatico affondo al presidente francese: «Vai tu in Ucraina a combattere, mettiti l’elmetto e non rompere le palle agli italian».

DOPO IL FLOP DEL COMIZIO di sabato a Milano con Vannacci (poco più di 500 persone), il capo leghista le sta provando tutte per recuperare voti di estrema destra e non farsi superare da Forza Italia alle europee. Il generale non si lascia sfuggire l’occasione: «La sovranità è nazionale e non si cede. È un principio esistenziale e imprescindibile di ogni nazione. Ne abbiamo già ceduta troppa ad enti sovranazionali: ad esempio quella monetaria e non ha fatto bene alla nostra economia».

SULLE ORME DI VANNACCI, la sottosegretaria leghista Pina Castiello (rapporti con il Parlamento) ieri è finita nella bufera per un video in cui taglia una torta evocando la Decima Mas, scelta poi rivendicata in un tweet. Il Pd chiede le sue dimissioni, così anche Sinistra-Verdi e Iv. Lei parla di «goliardia». Bonaccini attacca: «Vannacci e Borghi rappresentano al meglio la Lega di oggi: esaltazione della X Mas e di Mussolini, proposta di classi separate per i bambini disabili, richiesta di dimissioni del Presidente Mattarella, proposta di uscire dall’euro. Estrema destra, come Afd in Germania». L’Anpi parla di «un video ignobile»

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OPERAI E AMBIENTALISTI. «Produrre bus verdi e pubblici aiuta tutti». Alla ex Bredamenarini di Bologna in crisi l’incontro voluto dai sindacati con i Fridays: «La transizione verde è la salvezza»

L’assemblea fra operai e associazioni ecologiste ai cancelli dell’Iia di Bologna, ex Bredamenarini L’assemblea fra operai e associazioni ecologiste ai cancelli dell’Iia di Bologna, ex Bredamenarini

Bandiere rosse sindacato e verde ecologista, metalmeccanici in polo grigia e studenti fuorisede con piercing e camicie sgargianti. È una platea anomala quella che ha animato l’assemblea svolta ieri di fronte ai cancelli dell’Azienda Italiana Autobus di Bologna, l’ex Breda-Menarinibus. Anomala, ma non inedita.

QUELLA DELLO STABILIMENTO di via San Donato, alla periferia del capoluogo emiliano, è una storia di ordinaria de-industrializzazione. Storicamente di proprietà Finmeccanica, nel 2014 Breda-Menarinibus confluisce in Industria Italiana Autobus (Iia) assieme alla campana Irisbus. Le quote di maggioranza della società sono pubbliche, ripartite tra Invitalia e Leonardo. Ma lo stato non ha intenzione di impegnarsi nel settore, e cerca un compratore. Il gruppo Seri – compagnia estranea al settore automotive e con alcuni fallimenti alle spalle – ha dato la sua disponibilità. I sindacati però non si fidano della prima privatizzazione dell’era Meloni, e chiedono che il pubblico rimanga in partita.

Fiom: uniti per l’ambiente I ragazzi: «Non esiste lotta climatica senza di voi» I prof di Climate jobs: se Iia producesse un terzo di ciò che serve all’Italia, ci sarebbero mille posti in più

In questo contesto si inserisce il movimento per il clima. Già lo scorso anno nella vertenza della Marelli di Crevalcore, a pochi chilometri da Bologna, si era consumata quest’alleanza: studenti ecologisti e operai metalmeccanici assieme. L’assemblea di ieri – più di cento i partecipanti – è stata convocata da Fridays For Future e Fiom Cgil, ma di fronte ai cancelli è intervenuta anche Cisl, Extinction Rebellion, l’Arci, i comitati contro la cementificazione. Un pezzo di città che si schiera con gli operai in vertenza. I lavoratori hanno risposto con lo sciopero: due ore proclamate appositamente per rendere possibile l’assemblea.

«COME FIOM CREDIAMO che la transizione ecologica non sia una minaccia, ma una possibilità», dice il sindacato. «In un’economia votata al profitto a discapito dell’ambiente, aziende come Industria Italiana Autobus sono asset essenziali per la trasformazione della società. Per questo crediamo che la vertenza in atto sia d’interesse della collettività nella sua interezza». Dello stesso tenore l’intervento di Fridays For Future. «Non esiste lotta alla crisi climatica senza di voi. Questa è una fabbrica che produce soluzioni: la mobilità pubblica ed elettrica è la strada per ridurre l’inquinamento atmosferico che avvelena le persone e il riscaldamento globale che ci mette in crisi a furia di eventi meteorologici estremi».

IL RIFERIMENTO È ALL’ALLUVIONE di un anno fa: diciassette morti e oltre dieci miliardi di danni ben ancorati nella memoria collettiva emiliano-romagnola. Molto applauditi gli interventi del comitato tecnico di supporto alla campagna Climate Jobs, un gruppo di ricercatori del Sant’Anna di Pisa e delle università di Roma, Bologna e altre che assieme ai movimenti ecologisti sta lavorando ad una proposta di rilancio industriale verde dell’automotive italiano. «Nel 1980 producevamo quasi 7000 autobus, oggi sul suolo italiano ne vengono prodotti meno di 300. Il vuoto di politiche industriali di questo paese ci porta al paradosso di spendere più di 400 milioni di euro per importare autobus (quasi tutti a diesel) dall’estero, mentre Iia potrebbe essere trasformata in una azienda leader del settore» spiegano. «Secondo i nostri calcoli, con l’aumento di produzione di Iia a un terzo degli autobus immatricolati in Italia ogni anno si potrebbero creare più di 1.000 posti di lavoro».

VISTA DA FUORI, LA VICENDA di Iia è paradigmatica dell’assenza di politica industriale che affligge l’Italia tutta. Quello degli autobus è un settore in espansione, strategico per la transizione ecologica, la cui domanda è trainata dalle commesse pubbliche. Ciò nonostante l’ultima impresa italiana del settore langue, e lo Stato ha deciso di lasciarne le redini al privato. Il rischio è che i comuni siano costretti a rinnovare le flotte con bus esteri, e che l’Italia perda così un altro pezzo di industria.

«Siamo per la giustizia climatica», ha detto uno dei rappresentanti sindacali concludendo il suo intervento «significa che la transizione deve essere un’opportunità per noi e un costo solo per chi il riscaldamento globale lo ha causato». Parole alle quali ecologisti e operai hanno risposto, assieme, con un lungo applauso

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Non ci sono soldi e non c’è personale medico. Ma per fare propaganda elettorale sulle liste d’attesa il governo annuncia un decreto, vuoto, e un disegno di legge che avrà tempi lunghi. Solo una cosa è chiara: le poche risorse vanno ai privati. Le regioni denunciano il bluff

TEMPO E DENARO. Il governo non ha i fondi così prova con una misura elettorale e rimanda a un disegno di legge

Infermiere trasportano una barella lungo il corridoio di un ospedale Ap Infermiere trasportano una barella lungo il corridoio di un ospedale - Ap

«Il governo che ha messo più soldi sulla sanità» (cit. Meloni) è senza risorse sulla sanità. La «grande riforma» annunciata dalla presidente del Consiglio in campagna elettorale, per mancanza di coperture, si è tramutata in un decreto monco e in un disegno di legge che comincerà il suo iter dopo le europee. Il decreto legge che passerà oggi in Cdm prevede la creazione di una Piattaforma nazionale di monitoraggio, il via libera alle visite anche nel fine settimana, l’istituzione di un ispettorato presso il ministero per verificare il rispetto delle norme e il Cup unico regionale o infraregionale con tutte le prestazioni disponibili del pubblico e del privato convenzionato. Tutto il resto, cioè le misure economicamente onerose, sarà rinviato al disegno di legge e quindi a data da destinarsi.

UN BLUFF ELETTORALE sull’annosa questione delle liste d’attesa che evidenzia le difficoltà del governo a dare copertura alle sue proposte. Non manca l’intenzione di trasferire alle farmacie (settore caro al sottosegretario Fdi Gemmato, molto vicino alla premier) anche la diagnostica ma non ci sono i soldi. «Alcune misure saranno operative subito dopo il Cdm di domani (oggi ndr): penso all’aumento del tetto di spesa per l’assunzione di personale sanitario che passerà dal 10 al 15%. Altre, spero, con l’inizio dell’anno nuovo: dal 1 gennaio 2025 vorremmo abolire questo tetto di spesa e ciò rappresenta un fatto epocale, dopo 20 anni», ha spiegato il ministro Schillaci ospite da Vespa. «Finalmente ci sarà un’agenda unica di prenotazione che metterà insieme tutte le prestazioni disponibili nel sistema pubblico e privato, implementeremo un monitoraggio e una piattaforma in cui sapremo regione per regione quali prestazioni mancano in modo da intervenire tempestivamente», ha aggiunto Schillaci.

Il ministro ieri ha convocato in fretta e furia le regioni, in un incontro definito «imbarazzante» da Raffaele Donini, assessore alla Sanità dell’Emilia Romagna e

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Il Presidente alla cerimonia davanti al Milite ignoto apre il programma delle celebrazioni per il 2 Giugno. Poi la parata sotto la pioggia. Baglioni canta l’Inno. Salvini: “Oggi non si celebra la sovranità dell’Ue” poi la parziale precisazione: “Non chiediamo dimissioni di nessuno”. Fermati 15 attivisti di Ultima Generazione: “Volevano bloccare la sfilata”

2 giugno, Festa della Repubblica. Mattarella: "La nostra Costituzione lungimirante e saggia"

Le cerimonie solenni davanti ai simboli del Paese, la parata in via dei Fori Imperiali, l'inno cantato da Claudio Baglioni, la facciata di Palazzo Chigi e il Torrino del Quirinale illuminati dal tricolore per diverse ore. Il 2 Giugno celebra i suoi rituali per ricordare il referendum del 1946, con il referendum a suffragio universale che segnò la nascita della Repubblica. "A difesa della Repubblica. Al servizio del Paese", è il titolo del tema scelto per le celebrazioni del 2024. Occhi puntati su Roma e sul presidente Sergio Mattarella, presente a tutti gli appuntamenti, a partire dall’alzabandiera solenne davanti all'Altare della Patria.

Nel pomeriggio l’attacco della Lega contro il Capo dello Stato che in un messaggio ai Prefetti aveva parlato di “sovranità europea”: “Oggi si consacra la sovranità dell’Italia, coerentemente dovrebbe dimettersi”. La segretaria dem Elly Schlein: “Gravissimo, Meloni chiarisca”. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani dà solidarietà al capo dello Stato. Il leader M5S Giuseppe Conte: “Attacco grave e indegno”. In serata interviene di nuovo Salvini che ma non smentisce: “Non chiediamo le dimissioni di nessuno, ma oggi è festa degli italiani”.

Guarda il video e  l'intero articolo su sito della Repubblica

Video Ultima generazione

 

 

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UCRAINA. Mobilitazione impopolare, unica via l'espatrio. Il 54% degli ucraini capisce e approva. Sotto accusa il leader pacifista Sheliazenko

Militari

 

La legge marziale e la legge sulla mobilitazione sono in vigore fino alla metà di agosto. Vengono rinnovate ogni 90 giorni. Accade così dal febbraio del 2022, ma ogni volta c’è un giro di vite in più.

La risposta dell’opinione pubblica ucraina è sempre più scettica. I centri di reclutamento hanno fatto sapere che circa 94.500 uomini recentemente non hanno riposto alla chiamata: un dato ufficiale che evidentemente nasconde una realtà ancora più consistente. Tutti i maschi di età compresa tra i 18 e i 60 anni sono arruolabili, secondo il recente decreto presidenziale sulla mobilitazione che restringe sempre di più i casi di esenzione o differimento previsti dalla legge sul servizio militare. Un decreto fortemente impopolare, che i giovani studenti universitari o lavoratori rifiutano radicalmente, fino a preferire l’espatrio anche se illegale.

Per tentare di arginare il fenomeno, il Ministro degli Esteri Kuleba ha disposto che i consolati esteri ucraini nei paesi europei non forniscano più alcun servizio ai cittadini ucraini espatriati in età di coscrizione: «Il nostro paese è in guerra. Trovarsi all’estero non esonera il cittadino dai suoi doveri verso la patria». Attualmente il personale a disposizione delle forze armate ucraine è stimato in 800.000 unità (di cui 62.000 donne, volontarie). Sono invece 860.000 gli uomini adulti ucraini che si trovano all’estero, di cui si stima 650.000 in età militare per evitare di essere mandati al fronte e che non potranno rinnovare i passaporti in scadenza o ottenerne di nuovi, né ricevere documenti e certificati ufficiali; molti di loro rischiano di perdere la cittadinanza ucraina, ma nonostante questo il provvedimento sembra non essere efficace. Di fatto, siamo di fronte al più grande fenomeno di renitenza alla leva registrato in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Un fenomeno che il 54% degli ucraini, secondo il sondaggio dell’Istituto di Sociologia di Kiev, comprende e approva: «I renitenti alla leva si possono capire: nessuno vuole morire», ma che il vescovo di Odessa, Stanislaw Szyrokoradiuk, condanna, tanto da chiedere ai suoi compatrioti fuggiti all’estero di tornare in Ucraina: «Se amiamo la nostra patria, dovremmo difenderla insieme».

Dopo 27 mesi di guerra, con il rischio di un tracollo militare sul campo, il governo di Zelensky si ritrova con una bassissima disponibilità di uomini da combattimento, ma paradossalmente con una nuova potenza di fuoco tecnologica in arrivo dagli alleati europei e americani. Tante armi, poca truppa. È forse per questo che un recente decreto (motivato anche dall’alto livello di corruzione nel mondo militare) impone ai medici in divisa di non praticare la “rivedibilità” per le reclute: o idonei o non idonei, e tutte le pratiche dei “parzialmente idonei” devono essere riesaminate.

Espatriare sembra essere l’unica soluzione per chi rifiuta la guerra e cerca soluzioni di pace, poiché la strada legale per esercitare il diritto umano all’obiezione di coscienza, in Ucraina non è più contemplata, nonostante sia addirittura prevista dalla Costituzione ucraina e nonostante tutti i tentativi di introdurre il servizio civile alternativo in tempo di guerra, secondo una proposta del Movimento Pacifista Ucraino, come ci spiega Yurii Sheliazenko, il leader del Movimento: «L’esercito ucraino si rifiuta ostinatamente di riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza, in violazione dei trattati internazionali a cui l’Ucraina ha aderito. Se vogliamo essere europei, dobbiamo attuare gli standard europei invece di incarcerare i prigionieri di coscienza». Sheliazenko è assurdamente accusato di giustificare l’aggressione russa per una sua dichiarazione contenuta nell’Agenda di pace per l’Ucraina e il mondo, che invece condanna esplicitamente l’invasione del febbraio 2022. «È un pretesto per reprimere la mia difesa della pace e dei diritti umani. Mi hanno sequestrato il computer e lo smartphone, e vivo da mesi agli arresti domiciliari notturni».

L’11 giugno, dopo una lunga inchiesta, inizierà un processo nel quale Yurii potrebbe essere condannato fino a 5 anni di reclusione. Inoltre, il Servizio di Sicurezza dell’Ucraina ha esercitato pressioni su altri organi governativi per sciogliere il Movimento Pacifista Ucraino e vietarne le attività pubbliche, e ha impedito la registrazione del sito web “Free Civilians. Herald of peace and conscientious objection” (Civili liberi. Araldo di pace e obiezione di coscienza) da parte del Consiglio nazionale per la regolamentazione dei media (l’organismo militare che controlla la stampa ucraina)

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