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NATO E "LINEA RUSSA". Eccoci dunque al momentum russo: attacchi su tutta la linea del fronte, con gli ucraini a consumare riserve e ripiegare davanti all’offensiva che si annuncia a settimane verso Sumy e […]

La guerra è già più avanti Armi occidentali contro le basi russe - Ap

Eccoci dunque al momentum russo: attacchi su tutta la linea del fronte, con gli ucraini a consumare riserve e ripiegare davanti all’offensiva che si annuncia a settimane verso Sumy e Kharkhiv. Putin esibisce il cambio di passo.
Non più l’autocrate sostenuto coreograficamente da una popolazione resa inerte, ma il leader che mentre minaccia i vicini (‘piccoli e densamente abitati’) e mobilita i russi, incitando ciascuno a vivere ‘come al fronte’.
La difesa ucraina stenta a reclutare i numeri necessari e ancora fatica a stabilizzare l’apporto di aiuti occidentali, mentre l’aggressione russa conta ormai su mezzo milione di combattenti ed una solida capacità di produzione di munizioni, missili e repliche di droni iraniani. Mesi di operazioni di terre e cielo hanno fiaccato le infrastrutture critiche ucraine. I successi di Kyiv sono in questo momento circoscritti ai mari attorno alla Crimea. Gestendo il fuoco dell’artiglieria da una ventina di chilometri di distanza – cioè all’interno del confine russo – le forze di Mosca operano praticamente immuni, fuori dalla gittata delle armi ucraine dispiegate sul fronte. Così le pesanti bombe-aliante russe planano oltre le linee, sbaragliando le difese missilistiche Patriot e Heimat, mentre i barrage di armi termobariche fanno terra bruciata di bunker, fortificazioni e villaggi.

A sguarnire la difesa ucraina c’è un altro fattore spesso omesso: l’efficacia dei sistemi d’arma occidentali sta diminuendo rapidamente, per effetto degli adattamenti tattici russi, soprattutto sul versante della guerra elettronica. Il jamming manda in tilt comunicazioni e puntamento, con il risultato che lo hit rate ucraino oggi e lontano da quello che consentì i successi nel primo anno di guerra.

La nomina di un economista a capo della macchina bellica di Mosca ci dice che in termini strategici siamo davanti a una guerra di attrito e di materiali, orientata sulle risorse prima che sul terreno. L’artiglieria russa martella 10 mila volte al giorno, quella ucraina si ferma a 2 mila. I russi sanno che gli ucraini oggi non risponderanno al fuoco.
Non esiste soluzione militare così come non esistono armi risolutive: le armi più precise in arrivo non ribalteranno gli esiti a breve. Per raggiungere l’effetto di saturazione è necessario un impiego continuativo. È un fatto che la guerra è già più avanti rispetto al dibattito sulla stessa, che sembra sempre inseguire il fatto compiuto delle realtà sul terreno. Da mesi vanno a fuoco obiettivi sin nella Russia profonda, e da qualche settimana questo avviene anche in Europa. Dell’impiego di addestratori e forze speciali hanno parlato le cronache. Da tempo, del resto, gli ucraini colpiscono oltre il confine russo. L’obiettivo Nato sembra essere una gestione più accorta di quanto è già in atto e rischia continuamente di debordare: bilanciare l’equazione delle risorse riportando l’Ucraina in condizione di rimotivare i propri combattenti ed impedire al momentum russo di culminare. In questa prospettiva, arginare l’offensiva russa significa recuperare quantomeno una posizione negoziale.

È in questo quadro che arriva dalla Casa Bianca e della principali capitali europee (Italia esclusa), il via libera all’uso di armi occidentali contro le basi di lancio in territorio russo. Di per sé, se circostanziata e modellata sul principio di proporzionalità, la risposta militare ad attacchi dal territorio nemico non infrange il diritto internazionale (ius in bello). Si tratta degli stessi cardini di principio invocati dalle corti internazionali dell’Aia per limitare e sanzionare l’azione di Israele. La stessa Germania di Scholz si è impegnata a rispettare tale quadro normativo, nonostante una posizione marcatamente pro-israeliana. Va ricordato che Putin ha sistematicamente minacciato l’escalation nucleare – sin dalla fornitura, nel 2022, dei primi Javelin anticarro. Lo schema si è ripetuto ad ogni annuncio di nuovi di sistemi d’arma per consentire agli ucraini di reggere l’impatto dell’invasione e cercare di liberare i propri territori.

Stante il deterioramento dei rapporti Zelensky-Biden, Macron cercherà un momento iconico per mettere l’Europa al centro di un risveglio di volontà delle democrazie occidentali, propiziando un incontro sull’ottantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il 6 giugno. Siamo nell’imminenza del voto europeo, e questo schema può essere anche letto come una risposta alla campagna sempre più tetramente militarista della destra che guarda a Ursula Von del Leyen.

Questo ragionamento parte da un assunto ineludibile (la necessità di dissuadere Putin) ma mostra numerosi limiti, a partire dalla controversia su cosa sia proporzionato a cosa; o il fatto che i governi occidentali tendono ad agire in ordine sparso, con i paesi più a est in prima linea nel condizionar l’agenda. Al tempo stesso, non si possono escludere azioni provocatorie, considerate anche le incertezze del corso politico a Kyiv così come a Mosca. Il Cremlino certamente invocherà il diritto a difendersi, includendo le basi in Europa da cui “è partito l’attacco” al proprio territorio. Come ripetiamo da tempo su queste pagine, più che di escalation verticale, dunque, il rischio riguarda l’escalation orizzontale, ovvero il nostro crescente coinvolgimento.

Nel frattempo, di tavolo negoziale non si parla. Americani e cinesi gireranno alla larga dalla conferenza convocata in Svizzera a metà giugno. Tutto sembra appeso alle tornate elettorali attese in occidente, con le sorti di Vladimir Putin che restano legate a doppio filo a quelle delle destre populiste. A riprova che il tornante che ci aspetta è quantomai politico

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GAZA. Secondo il presidente Usa Hamas deve accettarlo. Reazioni tiepide. Intanto la guerra va avanti. Jabaliya in macerie dopo l'operazione israeliana durata due settimane.

 Civili palestinesi fuggono da Rafah - Ap

Israele avrebbe offerto «una nuova proposta globale» per un accordo di cessate il fuoco con Hamas e per il rilascio degli ostaggi. A sostenerlo è Joe Biden. È in tre fasi, ha precisato ieri il presidente Usa. La prima, di sei settimane, prevede «un cessate il fuoco pieno e completo, il ritiro delle forze israeliane dalle aree popolate di Gaza e il rilascio di un certo numero di ostaggi, tra cui donne, anziani, feriti in cambio di centinaia di prigionieri palestinesi». I civili, secondo Biden, potranno tornare alle loro case in tutte le aree di Gaza, compreso il nord. La seconda prevede la cessazione delle ostilità «in base alle trattative che avverranno nella fase uno». Infine, nella fase tre «inizierà un importante piano di ricostruzione di Gaza». «È ora che questa guerra finisca, che inizi il giorno dopo», ha concluso Biden esortando Hamas ad accettare la proposta.

Non è chiaro quanto sia realmente una offerta israeliana e quanto una forzatura degli Usa, dato che il primo ministro israeliano Netanyahu ha ripetutamente promesso di non fermare l’offensiva a Gaza finché Hamas non sarà distrutto. Appena due giorni fa, il suo consigliere Tzachi Hanegbi aveva detto ai parenti degli ostaggi che il governo non è nemmeno disposto ad accettare un accordo che vedrebbe il rilascio di tutti i rimanenti 125 ostaggi se fosse condizionato alla fine della guerra. Da parte sua Hamas ripete che riprenderà le trattative per il rilascio degli ostaggi solo se Netanyahu fermerà l’offensiva in via definitiva.

In serata Netanyahu ha chiarito che pur avendo autorizzato la squadra negoziale a presentare uno schema per raggiungere la liberazione degli ostaggi, allo stesso tempo «la guerra non finirà finché non saranno raggiunti tutti gli obiettivi prefissati, compreso il ritorno degli ostaggi e l’eliminazione dei miliziani e del governo di Hamas».

Netanyahu si sente più forte ora che un sondaggio lo pone, per la prima volta in un anno, davanti al suo principale rivale Benny Gantz nel gradimento degli israeliani. E riguardo la guerra a Gaza fa capire di sentirsi come Churchill, Roosevelt e De Gaulle. L’altra sera ha paragonato l’offensiva a Gaza allo sbarco degli alleati in Normandia, durante un’intervista alla tv francese TF1. «Quando andiamo a Rafah, è l’equivalente dello sbarco in Normandia, dell’attacco alleato contro la Germania» ha detto, sostenendo che Israele fa il possibile per evitare vittime civili. «Non facciamo quello che facevano gli alleati a Dresda, non facciamo a Gaza un tappeto di bombe». I civili di Gaza sotto le bombe hanno una idea molto diversa. Khan Yunis, larghe porzioni di Gaza city, il nord della Striscia e molte altre località sono una distesa di palazzi sventrati e macerie. Così è anche Jabaliya, la città e il campo profughi, che ieri i reparti corazzati israeliani hanno lasciato dopo due settimane di combattimenti violenti e oltre 200 attacchi aerei. Alcuni abitanti hanno riferito che l’esercito uscendo da Jabaliya ha sparato verso una folla di persone.

Israele invece afferma di aver ucciso centinaia di combattenti palestinesi a Jabaliya dove avrebbe scoperto lanciarazzi, depositi di armi e una rete di tunnel lunga 10 km. Comunque sia, la promessa di Netanyahu di sradicare Hamas come forza politica e combattente si scontra con le profonde radici del gruppo islamico nel tessuto sociale di Gaza e con la sua organizzazione militare. Ieri è stata annunciata la morte in combattimento di altri due soldati israeliani, in totale sono 294 dalla fine di ottobre.

Uguale resistenza le truppe israeliane incontrano a Rafah. Dopo aver occupato il Corridoio Filadelfia, l’esercito israeliano continua ad avanzare nel centro della città palestinese. Sarebbero stati uccisi 18 membri di Hamas responsabili da Gaza per le operazioni militari in Cisgiordania. Il Jihad islami afferma di aver sparato una raffica di colpi di mortaio contro soldati e veicoli israeliani nelle vicinanze della Porta Salah Eddin, ai margini meridionali di Rafah. Si registrano morti e feriti anche tra i civili. Giovedì 12 palestinesi erano stati uccisi da un raid aereo sulla città teatro domenica sera di bombardamento che ha innescato un incendio in una tendopoli di sfollati che ha ucciso almeno 45 persone. Nel frattempo, l’afflusso di aiuti umanitari resta limitato per la chiusura del valico di Rafah e a causa delle restrizioni che Israele attua contro l’agenzia dell’Onu per profughi palestinesi Unrwa

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Paese fascista, Biden è uno stupido, il giudice è un diavolo… Lo storico verdetto di condanna fa esplodere Trump, l’ex presidente vuole fare alla giustizia quello che ha già fatto al sistema elettorale, intanto incassa milioni in donazioni. E la rivolta trumpista corre sui social

Dopo il verdetto contro Donald Trump la città trabocca di celebrazioni. E l’ex presidente tiene un comizio nel suo palazzo sulla 5a strada. «Non sono un perdente. Dopo la condanna ho raccolto 34.8 milioni di dollari»

L'ha presa male

Dopo 6 settimane in cui Trump con i giornalisti poteva intrattenere solo brevi incontri a fine udienza illuminati con i neon, la mattina dopo la lettura del verdetto il tycoon ha allestito una conferenza stampa delle sue, all’interno della Trump Tower sulla quinta Avenue, con tante bandiere americane di sfondo e le luci curate ad hoc per risultare bene in televisione. All’interno sono stati ammessi quasi esclusivamente i media Usa del suo entourage a cui Trump ha affidato il messaggio da portare all’esterno: non sono un perdente, ieri notte ho raccolto 34.8 milioni di dollari, il processo è stato truccato e quello che è successo a me potrebbe capitare anche a voi.

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A RISPONDERE all’affermazione sul processo truccato ci ha pensato direttamente Joe Biden: «Il processo è stato aggiudicato da una giuria di 12 cittadini . Insinuarne l’iniquità è distruttivo e pericoloso, la legalità è un valore americano che va protetto da tutti. È irresponsabile parlare di corte corrotta solo perché l’esito non è stato quello sperato».
Che lo abbia giudicato una giuria popolare per Trump è un dettaglio senza valore, e durante la conferenza stampa terminata senza accettare domande, ha ripetuto, senza nessuna prova, una serie di affermazioni completamente false, come il fatto che le prigioni Venezuelane si stiano svuotando in quanto tutti i criminali locali starebbero arrivando in Usa, oppure che i cittadini statunitensi dormono per strada, mentre gli immigrati hanno a disposizione camere lussuose in hotel a 5 stelle.

«Nonostante i suoi sforzi per distrarre, ritardare e negare, la giustizia è arrivata lo stesso per Donald Trump», ha dichiarato il deputato dem Adam Schiff, in un post su X, ma l’affermazione che viene ripetuta più spesso dai rappresentanti del partito democratico è «Nessuno è al di sopra della legge», e la stessa frase continua a comparire, scritta con i gessetti, su i marciapiedi newyorkesi, e soprattutto di fronte alla Trump Tower dove, mentre il tycoon teneva la conferenza stampa, per strada si è radunata una folla sempre più imponente composta da supporter dell’ex presidente arrabbiati e tristi, e da molti cittadini in festa.
Un effetto di sicuro questo verdetto lo ha evocato, ed è l’orgoglio dei newyorkesi di avere, ancora

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I CONTI NON TORNANO. L’agenda del governatore Fabio Panetta: un bilancio comune Ue, produttività e «capitale umano». In arrivo la riduzione dei tassi. "I guadagni orari dei lavoratori sono inferiori di un quarto rispetto a Francia e Germania. Quelli familiari fermi da 24 anni, altrove aumento di oltre un quinto". Ed è subito scontro: per il Pd «bisogna cestinare la Bossi-Fini». Fdl: «La sinistra strumentalizza», Landini (Cgil): «Alzare i salari»

Bankitalia: «L’Italia ha  bisogno di immigrati, redditi fermi al 2000» Roma, via Nazionale: le considerazioni finali 2023 del governatore della Banca d'Italia Fabio Panetta - LaPresse

Le considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia sono come il messaggio di fine anno del presidente della Repubblica: ciascuno le interpreta a partire dai propri interessi, e posizionamenti. Così è stato anche ieri quando Fabio Panetta, il neo-governatore di Bankitalia, ha svolto le prime considerazioni del suo mandato iniziato lo scorso novembre.

L’APPUNTAMENTO annuale ha radunato nelle maestose stanze di via Nazionale a Roma oltre 500 ospiti, una piccola rappresentazione dei poteri nella società attuale. Dal gotha delle banche italiane (Unicredit con l’a.d. Andrea Orcel al presidente e ex ministro Padoan, Intesa con Gros Pietro) agli ex ministri dell’economia Daniele Franco (già in Bankitalia) e Vittorio Grilli oggi in J.P. Morgan. C’era il presidente di Stellantis John Elkann e il presidente di Cassa Depositi e prestiti Giovanni Gorno Temprini. Poi il sindaco di Roma Roberto Gualteri. Il neopresidente di Confindustria Emanuele Orsini. E qualche esponente politico da Antonio Misiani (Pd) a Giulio Tremonti, presidente della commissione Esteri alla Camera. E poi c’era Mario Draghi. Ex un po’ di tutto, e già governatore di Bankitalia, ora impegnato a immaginare il futuro della «competitività» dell’Unione Europea. E domani, chissà, candidato a guidarla.

UN DISCORSO, quello di Panetta, ancorato a una visione neoliberale che può mettere d’accordo tutti in un mondo piombato in un nuovo regime di guerra. Lo abbiamo visto, ad esempio, su uno dei temi principali dell’intervento del governatore: la questione demografica, il sostengo all’occupazione e la necessità di «un flusso di immigrati superiore a quello ipotizzato dall’Istat». «Occorrerà gestirlo – ha detto Panetta – in coordinamento con gli altri paesi europei, bilanciando le esigenze della produzione con gli equilibri sociali e rafforzando le misure di integrazione dei cittadini stranieri nel sistema di istruzione e nel mercato del lavoro».

L’OSSERVAZIONE DI PANETTA, ispirata a una visione funzionalistica dell’immigrazione come «capitale umano», è legata all’idea di «produttività del lavoro». In sé, ha detto il governatore, «l’apporto dei flussi migratori non potrà che essere modesto» se non cambierà la «produttività» che assicura «sviluppo, lavoro e redditi più elevati». Ebbene, in Italia questa «produttività» è stagnante. Lo si vede dai redditi orari dei lavoratori dipendenti che “sono oggi inferiori di un quarto a quelli di Francia e Germania. In termini pro capite, il reddito reale disponibile delle famiglie è fermo al 2000, mentre in Francia e in Germania da allora è aumentato di oltre un quinto». Nonostante i facili entusiasmi governativi sull’aumento dell’occupazione in questi mesi, il tasso di partecipazione al mercato del lavoro resta tra i più bassi d’Europa: 66,7%, otto punti sotto la media dell’Eurozona.

QUINDI PIÙ BRACCIA da lavoro, se è possibile trattate in maniera più dignitosa di quanto accade oggi a causa di politiche imbarbarite e razziste. Si intuisce nelle parole di Panetta la necessità di un cambio per «affrontare le conseguenze del calo e dell’invecchiamento della popolazione» e per sostenere un rilancio della produttività che, in effetti, è difficile da intravvedere. Ci penserà il Pnrr, forse (si veda l’articolo qui).

SU TUTTO QUESTO LA POLITICA, in campagna elettorale per le europee, ieri si è dilaniata. Ciascuno ha interpretato diversamente quanto ha detto Panetta. Il vicepremier leghista Matteo Salvini, per esempio, ha detto che «gli immigrati regolare sono un valore, il problema sono i clandestini». Cecilia Strada, capolista Pd per la circoscrizione Nord-ovest, ha detto invece che «se si vuole sostenere l’occupazione è necessario un flusso regolare d’ingresso di persone migranti e bisogna gettare nel cestino una volta per tutte la legge Bossi-Fini».

LO STESSO È AVVENUTO sul problema dei salari. Landini ha «tradotto» il «capitale umano» usato da Panetta «in maniera più comprensibile come lavoratrici e lavoratori che devono potere vivere dignitosamente. Non avviene se si lavora e si è poveri, vuol dire che il sistema non funziona e va cambiato, aumentando i salari, con investimenti e riforme». Si intuisce che l’interpretazione di «capitale umano» di Landini non è quella di Tommaso Foti (Fratelli d’Italia) secondo il quale gli ultimi dati «sulla crescita del lavoro a tempo indeterminato danno prova dell’efficacia dell’azione del governo». La diversità delle interpretazione sta nel nel concetto di capitale umano, un pilastro delle teorie neoliberali. Chi lo usa invita la forza lavoro a identificarsi con il principio del suo sfruttamento (il capitale).

PANETTA HA AUSPICATO l’unione bancaria e quella del mercato dei capitali a livello europeo. Sulla politica monetaria, ha detto che l’aumento dell’inflazione nell’Eurozona al 2,6% «è una notizia non cattiva e non buona: ce l’aspettavamo». Il governatore ha usato toni da «colomba» e, in vista del taglio dei tassi di interesse da parte della Bce previsto a giugno. Ha sollecitato un’«azione tempestiva e graduale». Rinviare il taglio implicherebbe una rincorsa precipitosa. Una politica monetaria espansiva potrebbe alleviare un «fardello»: il debito pubblico italiano. La sua riduzione» potrebbe arrivare dal contrasto all’evasione fiscale, da una crescita non scontata, oltre che dalla «prudenza fiscale», cioè da una stretta sulle finanze pubbliche che è già in corso. Con la prossima legge di bilancio potrebbe essere più evidente

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Per Mosca un simile attacco giustifica l’uso dell'arma nucleare. In arrivo i primi istruttori militari francesi: la notizia alimenti i timori di uno scontro diretto tra la Nato e Russia

L'attacco di Kiev a una stazione radar russa aumenta il rischio di escalation nucleare

Iprimi militari francesi metteranno ufficialmente piede in Ucraina in tempi brevi. Ad annunciarlo è stato il capo delle forze armate di Kiev, Alexander Syrsky, che ha reso noto un accordo con Parigi per l'invio di "istruttori". Ma è inevitabile che, dopo gli scenari per uno schieramento di truppe occidentali più volte evocato dal presidente Emmanuel Macron, la notizia alimenti i timori di uno scontro diretto tra la Nato e Mosca, accompagnandosi all'invito insistentemente rivolto dal segretario generale Jens Stoltenberg ai Paesi membri di dare il via libera all'Ucraina per colpire il territorio russo con i missili da loro forniti.   Sono "già stati firmati i documenti che consentiranno presto ai primi istruttori francesi di visitare i nostri centri di formazione e di familiarizzare con le infrastrutture e il personale", ha scritto su Telegram Syrsky, riferendo di un incontro in video collegamento tra i ministri della Difesa dei due Paesi. "Difenderemo l'Ucraina quanto a lungo sarà necessario e con l'intensità che sarà necessaria, la pace non può essere la capitolazione di Kiev", ha affermato Macron, senza fare riferimento all'annuncio ucraino. 

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DAVANTI AGLI OCCHI. Raid dal nord al sud di Gaza, altri 32mila palestinesi in fuga da Rafah. Attacchi a Ramallah e Jenin. Gli esperti e i relatori speciali dell'Onu lanciano un nuovo appello: «Basta armi a Tel Aviv»

 Il campo sfollati di Tel al Sultan prima e dopo il raid israeliano di domenica scorsa - Maxar Technologies

Del campo di Tel al-Sultan, colpito domenica sera da un raid israeliano, non resta quasi nulla. Le tende che erano sopravvissute alle bombe e al rogo le hanno smontate gli sfollati stessi, quando se ne sono andati. Le immagini satellitari del prima e del dopo le ha catturate Maxar Technologies.

A spiegare le ragioni della fuga di altre 32mila persone sono i numeri resi noti ieri da Save the Children: in quattro giorni di attacchi sulle «zone sicure» di Rafah (così identificate dall’esercito israeliano) sono stati uccisi almeno 66 palestinesi. «Di quali altre prove i leader hanno bisogno per capire che non ci sono assolutamente luoghi sicuri a Gaza? – chiede Xavier Joubert, responsabile della ong per i Territori occupati palestinesi – Sono costantemente in fuga per la loro vita, da una zona pericolosa a un’altra. Non scappano a caso, vanno nelle zone dove Israele ha detto di andare “per la loro sicurezza”. Poi, vengono attaccate».

È ANCHE di questo, della gestione mortifera delle zone sicure, che mercoledì hanno scritto i relatori speciali, gli esperti e i gruppi di lavoro delle Nazioni unite in un nuovo appello: «Da Rafah sono arrivate immagini strazianti di distruzione, sfollamento e morte, tra cui neonati fatti a pezzi e persone bruciate vive…Gli attacchi sono stati indiscriminati e sproporzionati».

Nell’indicare in tali attacchi «gravi violazioni del diritto di guerra e un triste promemoria dell’urgente necessità di un’azione internazionale», relatori ed esperti chiedono inchieste indipendenti, ma soprattutto sanzioni ed embargo: «Il flusso di armi verso Israele deve smettere subito. È abbondantemente chiaro che vengono usate per uccidere brutalmente e menomare i civili palestinesi».

Sono almeno 36.244 gli uccisi a Gaza dal 7 ottobre, a cui si aggiungono per lo meno 10mila dispersi e 81.420 feriti. Tra le aree più colpite, ci sono il campo profughi di Jabaliya a nord, Deir al Balah al centro, Rafah a sud.

A Jabaliya l’offensiva recente è stata particolarmente violenta, con il ritorno delle truppe di terra e dei carri armai israeliani. Ieri molti sfollati sono rientrati nei quartieri distrutti dopo 20 giorni di fuoco. «Il campo di Jabaliya non c’è più – racconta ad al Jazeera una donna, Asma al-Masri – Non ci sono più scuole né ospedali, la distruzione è così grande che non si riesce a immaginare».

Tra le vittime di ieri, c’è il figlio di un giornalista, Motasem Dalloul, ucciso a Gaza City. Un altro dei suoi figli era stato ammazzato a maggio. E sono stati recuperati i corpi senza vita di due paramedici, uccisi nella strage di Tel al-Sultan di domenica: Haitham Tubasi e Suhail Hassouna, fa sapere la Mezzaluna rossa palestinese, sono stati «deliberatamente colpiti sulla loro ambulanza».

È degli operatori umanitari palestinesi che ha scritto ieri Philippe Lazzarini, il capo di Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, sul New York Times. Ai 19 della Mezzaluna, si aggiungono 192 impiegati dell’Unrwa uccisi dal 7 ottobre e i 170 centri colpiti e distrutti. Numeri che Lazzarini elenca in risposta al primo voto alla Knesset che intende dichiarare l’agenzia «organizzazione terroristica»: «Stanno creando un pericoloso precedente di attacchi al personale e alle sedi delle Nazioni unite. (…) Se tolleriamo tali attacchi nel contesto di Israele e dei Territori palestinesi occupati, non possiamo sostenere i principi umanitari in altri conflitti nel mondo».

NELLE STESSE ORE la Israel Land Authority ordinava lo sgombero entro 30 giorni della sede di Unrwa a Gerusalemme est occupata, accusandola di un debito di oltre 7 milioni di dollari verso l’autorità occupante per aver utilizzato «terreno di Stato» per sette anni.

Intanto dentro Israele monta lo scontro nel gabinetto di guerra. Ieri il partito di Benny Gantz ha presentato una proposta di legge per sciogliere il parlamento e tenere elezioni anticipate in chiave anti-Netanyahu. Una mossa che probabilmente morirà sul nascere e a cui il Likud ha già risposto («La dissoluzione del governo di unità è una ricompensa per Sinwar»).

Indirettamente rispondono anche gli israeliani: secondo un sondaggio di Channel 12, il 36% preferisce avere come primo ministro Netanyahu. Gantz segue con il 30%. A tenere su Bibi, ci sono anche gli alleati. Come il ministro ultrà di destra Smotrich che ieri ha minacciato la Cisgiordania: «Vi ridurremo in macerie come Gaza se il terrore contro le colonie continuerà», ha scritto su X nelle stesse ore in cui a Jenin l’ennesima invasione israeliana feriva sei palestinesi e a Ramallah il fuoco israeliano provocava un incendio al mercato della frutta e della verdura.

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