DAVANTI AGLI OCCHI. La Casa bianca giustifica Israele: «Utilizza bombe piccole, si sforza di essere discreto». «Unrwa gruppo terroristico», alla Knesset passa in prima lettura la legge anti-Onu
Le macerie lasciate nella tendopoli di al-Mawasi dopo il bombardamento israeliano - Ap/Abed Rahim Khatib
«Com’è possibile che (la strage di Rafah) non violi la linea rossa che il presidente ha tracciato?». Alla domanda, posta martedì da un giornalista in conferenza stampa, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati uniti John Kirby ha risposto che Israele non l’ha mai superata quella linea rossa: «Non vogliamo vedere un’operazione terrestre ampia, e fino a questo punto non l’abbiamo vista».
Il giornalista replica: «Quanti corpi carbonizzati deve ancora vedere il presidente prima di considerare un cambio di politica?». Sulla parola «carbonizzati» si ferma, trattiene il respiro. Le immagini del rogo che ha distrutto le tende di Tel al-Sultan le hanno viste tutti, le fiamme nel buio, le urla, le 45 vittime palestinesi nel Kuwaiti Al-Salam Camp 1.
A Washington sembrano camminare sui pezzi di vetro quando si parla di Palestina. Sotto la pressione della stampa, delle piazze e di mezzo pianeta, la politica dell’amministrazione Biden potrebbe apparire schizofrenica. Non lo è, segue tracce definite. Così capita che il segretario di Stato Antony Blinken ieri si sia sentito in dovere di definire «orrende» le immagini della strage di Rafah e di chiedere a Israele «di indagare e determinare esattamente cosa è successo (…) Non sono in grado di dire che armi siano state usate o come».
POCHE ORE prima a dire cosa è successo era stato il New York Times. Il quotidiano statunitense ha visionato le immagini girate dopo la strage dal giornalista palestinese Alam Sadeq: si vedono i rottami dei missili tra le macerie annerite del campo sfollati. Sono detriti della coda delle bombe Gbu-39 – scrive il Nyt – prodotte negli Usa.
Nello specifico nell’impianto di Woodward, in Colorado: lo si riconosce dal numero di serie, 81873, il codice unico identificativo di quel particolare produttore. Di recente, funzionari statunitensi hanno detto che Washington ha incoraggiato Israele a usare questo tipo di bombe perché sarebbero più precise, «adatte a un ambiente urbano».
Eventualità in qualche modo confermata da Daniel Hagari, portavoce dell’esercito israeliano, secondo cui «l’attacco è stato condotto usando due munizioni con testate piccole, adatte ad attacchi di precisione». Lo ha detto per negare l’uso di grandi bombe e per affermare che questo tipo di arma non avrebbe mai potuto causare un incendio. A causarlo, aggiunge Hagari, sarebbero stati esplosivi di Hamas nascosti nel campo.
Sul Nyt esperti di munizioni mettono in dubbio la versione israeliana: a provocare l’incendio può essere stato qualsiasi liquido infiammabile, lampade a gas diffuse tra gli sfollati, o piccoli generatori di corrente. Comunque sia, armi o meno, se si bombarda un campo sfollati per colpire due membri di Hamas non si può non mettere in conto di ammazzare dei civili, nonostante Kirby ritenga che l’uso di bombe di più piccole dimensioni dimostri «lo sforzo di essere discreti» (sic).
Sulle tende di Rafah bombe da 2 tonnellate. Poi il rogo: 45 uccisi
Ai 45 uccisi di domenica, ne sono seguiti molti altri, tanti a Rafah: 21 martedì nel campo di al-Mawasi, ieri altri 15 (almeno 36.171 i palestinesi uccisi in otto mesi di offensiva). Gli attacchi arrivano sia dal cielo sia da terra, dai carri armati ormai entrati in città. Nel centro molte famiglie, riportano i giornalisti sul posto, sono intrappolate a causa del fuoco dell’artiglieria e dei droni che impedisce a molti di scappare: «I quadricotteri seguono le persone», scrive Hani Mahmoud.
LA MAGGIOR parte della popolazione – quella originaria e quella sfollata – è stata già spinta a ovest o verso il centro, nell’ennesima fuga. Di spazio a disposizione ce n’è sempre meno sia per la magnitudo della distruzione sia per la «zona cuscinetto» israeliana che si è allargata in questi ultimi mesi.
Prima del 7 ottobre l’area assorbita da Israele era larga tra i due e i tre chilometri (su dieci di ampiezza della Striscia) privando i palestinesi della terra coltivabile che tradizionalmente si trovano nella fascia orientale di Gaza. Ora, secondo l’analisi condotta da Sanad visionando le immagini satellitari e i video girati dall’esercito israeliano sul posto, la zona cuscinetto è arrivata a occupare il 33% dell’enclave, circa 120 chilometri quadrati su un totale di 360.
Intanto, mentre i valichi di terra restano chiusi agli aiuti (lo sono dal 6 maggio), a Gerusalemme il parlamento israeliano ha votato in prima lettura (42 sì, sei no) il disegno di legge che chiede di definire l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi Unrwa «organizzazione terroristica». Se il disegno di legge dovesse passare le prossime votazioni, Israele potrebbe «legalmente» tagliare tutti i rapporti con l’Unrwa, cacciarla dal proprio territorio, chiudere uffici e conti bancari. E «istituzionalizzare» la sua accusa alle Nazioni unite di promuovere il terrorismo. La prima volta nella storia
Commenta (0 Commenti)Giusto in tempo per le europee, il governo approva una sgangherata modifica costituzionale sulla giustizia che separerebbe definitivamente le carriere di giudici e pm. Il sogno proibito di Berlusconi è un santino elettorale per Forza Italia e spinge i magistrati alla battaglia
GIUSTIZIA. Il consiglio dei ministri stravolge la giustizia: «Evento epocale». Csm sdoppiato (con membri sorteggiati) e Alta corte. È l’antipasto alla separazione delle carriere. L’Anm verso lo sciopero
Venti minuti è il tempo che ci vuole, a passo lento, per raggiungere il Quirinale da palazzo Chigi. È anche lo stesso tempo che ieri, all’ora di pranzo, il consiglio dei ministri ci ha messo a licenziare la sua riforma della giustizia, preludio a quella separazione delle carriere che per Silvio Berlusconi è sempre stata un sogno proibito nei suoi pur lunghi anni di governo.
Una riforma «epocale» per Nordio. «Giusta, necessaria e storica» per Meloni. Tre pagine e una riga di testo, otto articoli (compresa le disposizioni transitorie). E dentro un po’ meno di quello che ci si aspettava: l’ultima riunione per limare i dettagli la maggioranza l’ha fatta nella notte tra martedì e mercoledì, dopo l’incontro di Mantovano e Nordio con Mattarella. È scomparsa l’idea di inserire gli avvocati nella Costituzione, né c’è l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. C’è però l’annuncio della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura requirente.
Ancora non lo si dice esplicitamente, ma il senso è quello: sorgeranno due Csm, entrambi guidati dal presidente della Repubblica, ma comunque con funzioni distinte. E i suoi membri saranno sorteggiati: in maniera integrale per i togati, in maniera parziale (cioè scelti da una lista di eletti dal parlamento) per i laici. Poi ci sarà un’Alta corte per dirimere le questioni disciplinari, con giudici nominati dal Quirinale e gli altri sorteggiati. Nessuna possibilità di ricorso in Cassazione: l’impugnazione andrà fatta davanti alla stessa Alta corte, che poi affiderà la valutazione a giudici diversi da quelli del primo pronunciamento. E questo è quanto, in attesa delle leggi attuative che seguiranno.
Quando? Difficile a dirsi: l’iter di un disegno di legge costituzionale è lungo e il passaggio fatto ieri, per quanto importante, è soprattutto lo scalpo che Forza Italia porta a casa alla vigilia delle elezioni europee. Una prova di esistenza e una dimostrazione di peso politico, decisamente maggiore rispetto all’inizio della legislatura, quando gli azzurri erano il vaso di coccio della coalizione di destra. Un trofeo alla memoria di Berlusconi, che ha sempre accarezzato, ma mai realizzato, il sogno proibito della separazione
Leggi tutto: Venti minuti per una riforma, tributo postumo a Berlusconi - di Mario Di Vito, Roma
Commenta (0 Commenti)GIORNATA STORICA. Il Paese trasformerà il suo ufficio di rappresentanza in Cisgiordania in un’ambasciata
Bruxelles, Mohammed Mustafa stringe la mano al ministro degli Esteri norvegese Espen Barth Eide - Ap
«Riconoscere ufficialmente la Palestina come Stato, è una pietra miliare nel rapporto tra i due stati», così il ministro degli Esteri norvegese Espen Barth Eide ha celebrato lo storico riconoscimento annunciando che la Norvegia trasformerà il suo ufficio di rappresentanza in Cisgiordania in un’ambasciata. Per alcuni però la svolta del governo labourista è più importante per le sorti diplomatiche della Norvegia e per l’opinione pubblica che per raggiungere una soluzione in Medio Oriente.
In Norvegia la decisione ha raccolto più consensi che critiche, dopo che per mesi, decine di manifestazioni si sono tenute quasi settimanalmente nelle più grandi città del paese.
Il primo ministro Jonas Gahr Støre e Eide avevano annunciato mercoledì scorso (insieme alla Spagna e all’Irlanda) l’intenzione di riconoscere la Palestina, decisione poi condivisa e adottata nell’incontro settimanale dell’esecutivo con il Re Harald V di Norvegia.
Domenica, Eide ha consegnato personalmente la lettera di riconoscimento al primo ministro Mohammed Mustafa spiegando che si tratta di «una forte espressione di sostegno alle forze moderate in entrambi i paesi» e facendo riferimento al continuo impegno della Norvegia per raggiungere la soluzione dei due stati.
La Norvegia ha svolto un ruolo importante nei colloqui di pace negli anni ’90, che hanno portato agli Accordi di Oslo tra Israele e l’Olp nel 1993 e all’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Il paese, si sente ancora in dovere di svolgere un ruolo fondamentale nel processo di pace, sia perché consapevole del fallimento diplomatico di 30 anni fa, sia perché è lo Stato che presiede il Comitato di Liaison ad hoc (Ahlc) per la Palestina, un organismo composto da 30 paesi e organizzazioni la cui funzione primaria è coordinare la fornitura di aiuti internazionali ai palestinesi e all’Autorità Palestinese.
Non è difficile comprendere l’azione simbolica che sta nel riconoscimento da parte della Norvegia in questo preciso momento storico.
Per il primo ministro Støre la decisione è stata dettata dalla necessità di «mantenere viva l’unica alternativa che offre una soluzione politica sia per gli israeliani che per i palestinesi: due stati, che vivono fianco a fianco, in pace e sicurezza».
Jan Egeland, segretario generale del Consiglio norvegese per i rifugiati ha affermato che «il riconoscimento della Palestina è sicuramente un atto simbolico, ma è anche un segnale alle parti più forti che la situazione attuale non può continuare». Egeland, segretario del ministro degli Esteri al tempo degli Accordi di Oslo, ha anche detto che il riconoscimento dovrà essere seguito da maggiori sforzi da parte della Norvegia e della più ampia comunità internazionale per riunire le parti attorno al tavolo dei negoziati.
Insieme alla Svizzera, la Norvegia rimane uno dei due paesi in Europa che non riconosce Hamas come gruppo terroristico. Questa è una scelta strategica che ha reso il paese in grado di interloquire con tutte le parti coinvolte, e partecipare attivamente ai negoziati.
Ma finora l’unico effetto registrato all’indomani del riconoscimento della Palestina, a parte una forte approvazione dell’opinione pubblica, è l’incrinatura dei rapporti con Israele. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha richiamato l’ambasciatore in Israele, è ora restio al paese scandinavo e non vuole che esso abbia alcun ruolo nei colloqui di pace in Medio Oriente.
La Norvegia però è da mesi che collabora e condivide il piano di pace che un gruppo di paesi arabi – guidati dall’Arabia Saudita – sta elaborando, e adesso punta a mobilitare il sostegno europeo per la ‘visione araba’ della pace. Quale sarà però la sfera di influenza norvegese sul resto dell’Europa è ancora da determinare.
Nel mentre un’altra manifestazione nel centro di Oslo partita dal parlamento e arrivata davanti all’ambasciata di Israele vuota, ha marcato il finire della storica giornata di ieri
Irlanda, Norvegia e Spagna riconoscono lo Stato di Palestina mentre i carri armati israeliani entrano a Rafah. Nuovi raid sulle tende degli sfollati palestinesi ad al-Mawasi, dopo le bombe sul campo di Tel al-Sultan. Ma le sanzioni a Israele sono ancora tabù
INTERVISTA. Tommaso Fabbri, capomissione Msf in Palestina: «Con 36mila uccisi in pochi mesi è difficile pensare che siano solo effetti collaterali. Lavoro da anni nell’umanitario e non ho mai visto attacchi così indiscriminati»
Feriti nell’ospedale Al Aqsa di Deir al Balah - Ap/Abdel Kareem Hana
Cessate il fuoco, protezione dei civili, assistenza umanitaria e fine degli attacchi sulle strutture sanitarie: sono alcune delle richieste mosse da 18 operatori e operatrici di Medici senza Frontiere Italia in una lettera aperta al governo italiano. Ne abbiamo parlato con Tommaso Fabbri, capomissione della ong in Palestina.
Come nasce l’iniziativa?
Nasce da una situazione catastrofica che non sappiamo più come descrivere. Nasce per sensibilizzare chi in maniera diretta e indiretta ne è responsabile. A Gaza da mesi vediamo morte, attacchi indiscriminati sulla popolazione civile, ospedali distrutti. Non c’è più un posto sicuro, non c’è alcun rispetto dello spazio umanitario. Il nostro è un grido disperato al governo Meloni: serve una pressione efficace per il cessate il fuoco e la protezione dei civili. Non chiediamo cose politicamente inaccettabili, è il minimo per uno stato democratico.
Perché chiederlo ora?
Lo chiediamo da tanto, il nostro segretario generale ha parlato anche al Consiglio di Sicurezza Onu. Ma non si è mosso nulla e ora a preoccuparci è Rafah: ogni volta che c’è un ingente spostamento di popolazione il rischio sanitario è enorme.
Alcuni stati lanciano aiuti dal cielo, gli Stati uniti hanno promosso un porto temporaneo appoggiandosi a ong come World Central Kitchen e Open Arms. Molti criticano tali iniziative: è un modo per bypassare gli obblighi di Israele ad aprire i valichi di terra. Qual è la vostra posizione?
Uno degli sforzi maggiori del mio team riguarda l’accesso agli aiuti umanitari. È un problema cronico, esasperato dalla guerra: è Israele che ha sempre deciso quando aprire o meno l’ossigeno a Gaza. Il lancio di aiuti dal cielo è una modalità estremamente costosa, pericolosa e poco efficiente. Ben vengano le iniziative come il porto ma non devono essere messe in competizione con il resto, non si deve deresponsabilizzare Israele dal suo obbligo primario di fare entrare gli aiuti dai valichi di terra.
Nelle scorse settimane Msf è stata costretta a sospendere le attività in alcuni ospedali di Gaza. Per quali ragioni?
Commenta (0 Commenti)VERTICE DEI MINISTRI DEGLI ESTERI . «Il diritto internazionale umanitario si applica a tutti, anche alla condotta di guerra di Israele». Crosetto: Tel Aviv «Non più giustificabile». Tajani: «Sì allo stato di Palestina»
Condanna per l’attacco israeliano su Rafah, richiesta a Tel Aviv di dare seguito all’ordine della Corte internazionale di Giustizia dell’Aja fermando l’offensiva su Rafah, intesa politica per il ripristino di EuBam, la missione di assistenza per la gestione del valico di Rafah. Queste le conclusioni raggiunte dal Consiglio Ue dei ministri degli Esteri riunito ieri a Palazzo Europa di Bruxelles. In aggiunta, il Consiglio ha chiesto a Israele di non smettere di finanziare l’autorità palestinese, che senza fondi potrebbe dissolversi, come anche di evitare di definire l’Unrwa un’organizzazione terroristica, impedendole così di lavorare a Gaza come anche in Cisgiordania.
ABITUATI come siamo a soppesare sottilissimi slittamenti diplomatici tra un vertice di questo tipo e un altro, frutto di estenuanti trattative tra le 27 capitali dell’Unione, stavolta gli elementi di novità risultano decisamente più marcati. Soprattutto grazie a una diversa postura da parte di Berlino. La responsabile Esteri del principale governo europeo nonché tradizionalmente sostenitore di Israele – tanto da mettere il freno ad ogni iniziativa che possa infastidire il governo Netanyahu -, l’esponente dei Gruenen Annalena Baerbock, ha affermato senza mezzi termini che «la sentenza dell’Aja su Rafah va rispettata», aprendo contestualmente alla possibilità di rilanciare la missione Ue per la protezione del confine a Rafah. «Il diritto internazionale umanitario si applica a tutti, e questo vale anche per la condotta di guerra di Israele».
Parole chiare, anche se non è una novità, dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Josep Borrell, che si è detto «inorridito» degli attacchi israeliani e ha rimarcato come «a Gaza nessun luogo è sicuro». Il capo della diplomazia Ue è reduce, insieme al presidente del Consiglio europeo Charles Michel, dall’incontro di domenica scorsa con il premier palestinese Mohamed Mustafa.
IL RICONOSCIMENTO della Palestina è «la cosa giusta da fare» per arrivare alla pace in Medio Oriente, si è detto convinto Mustafa riferendosi al passo di Norvegia, Irlanda e Spagna, che formalmente si compie oggi, e invitando gli altri paesi Ue a seguirne l’esempio. A margine della riunione del Consiglio Esteri ieri, Borrell non solo ha condannato Tel Aviv per il suo mancato rispetto dell’ordine della Cig dell’Aja di fermare l’offensiva su Rafah, ma ha anche difeso il procuratore Karim Khan dall’accusa di antisemitismo: una «intimidazione inaccettabile», come sempre accade «per chiunque faccia qualcosa che non piace al governo Netanyahu».
Dal vertice di ieri sono emersi altri elementi di novità. Il primo, che rimane più sul versante delle intenzioni diplomatiche, è la richiesta dei paesi arabi ieri presenti a Palazzo Europa di una conferenza internazionale di pace per discutere il piano dei due stati, e va a rafforzare una precedente proposta di Bruxelles. Il secondo ha a che fare con sostanziosi interessi commerciali e riguarda l’accordo di associazione Ue-Israele, in vigore dal 2000, su cui già da marzo pendeva un’iniziativa di Madrid e Dublino favorevoli alla revoca. Ora i ministri del 27 chiedono di discutere con Tel Aviv il rispetto dei diritti umani a Gaza, che sulla carta è una delle principali condizioni perché ci possano essere gli scambi. Per avere un ordine di grandezza, basterebbe menzionare i dati ufficiali forniti dalla Commissione Ue: l’Unione è il maggior partner commerciale di Tel Aviv (quasi 30% del suo commercio di beni) e nel 2022 l’ammontare degli scambi commerciali ha raggiunto 46,8 miliardi di euro.
È VERO che e le dichiarazioni, come spesso accade in occasione questi vertici Ue, sopravanzano di gran lunga decisioni reali e i loro effetti concreti, ma la posizione italiana spicca comunque tra quelle dei paesi Ue. Se da Roma il ministro della Difesa Crosetto definisce le scelte militari di Israele a Gaza «non più giustificabili», la linea del governo la detta il ministro degli Esteri Tajani dal Consiglio a Bruxelles: «Siamo favorevoli alla nascita di uno stato palestinese», precisa Tajani «però deve riconoscere Israele e deve essere riconosciuto da Israele. Lo Stato palestinese non può essere guidato da Hamas, che è un’organizzazione terroristica». Ed è a Bruxelles, più che al governo italiano, che si rivolge la segretaria del Pd Elly Schlein, quando afferma: «L’Unione europea si deve muovere con una voce sola e forte per fermare questa follia, che come abbiamo sempre detto si sta traducendo in un’ecatombe». La voce unica in Europa fatica a prendere corpo, ma la direzione di marcia sembra ormai decisa
Commenta (0 Commenti)A tre giorni dall’ordine dell’Aja di cessare il fuoco, l’esercito israeliano bombarda le tende di Rafah, di notte. Scoppia un incendio, almeno 45 palestinesi uccisi. Netanyahu: «Un tragico errore». Il mondo condanna ma non agisce
DAVANTI AGLI OCCHI. Il bilancio potrebbe salire: sono decine i feriti con gravi ustioni. L’attacco avvenuto di notte. Netanyahu: «Un tragico errore».
Quello che resta delle tende di Rafah colpite domenica notte - foto Ap/Abed Rahim Khatib
Quando le luci del giorno ieri hanno illuminato Rafah, i roghi non erano ancora tutti spenti. La scena davanti agli occhi di tutti è stata raccapricciante. L’accampamento di Tel al Sultan, dove migliaia di sfollati avevano trovato un rifugio per mesi, è apparso come un terreno annerito ricoperto di tende bruciate, lamiere contorte e oggetti carbonizzati. E su di esso madri in lacrime accanto ai corpi senza vita dei figli e uomini impegnati ad avvolgere i morti nei kafan, i teli bianchi diventati il simbolo dei civili innocenti uccisi dai bombardamenti israeliani. Khaled Yazji, uno sfollato, domenica sera ha visto il campo di tende trasformarsi in pochi attimi in un cerchio di fuoco e fiamme. «C’è stata prima un’esplosione» ricordava ieri Yazji parlando con giornalisti locali, «poi è arrivato l’incendio, con fiamme alte. Ero lontano, ma sentivo lo stesso le urla strazianti di chi era rimasto intrappolato». Abed Al-Attar, è rimasto seduto in silenzio per ore accanto ai corpi del fratello, della cognata e di altri parenti uccisi dall’incendio. Intervistato dall’agenzia Reuters, non ha trattenuto la rabbia contro il governo Netanyahu e i comandi militari che per settimane hanno ripetuto che i civili palestinesi non sarebbero stati toccati dall’avanzata su Rafah. «Israele è bugiardo. Non c’è sicurezza a Gaza, né per un bambino, né per un uomo anziano, né per una donna» ha commentato Al-Attar. «Cosa hanno fatto per meritarsi questo? I loro figli sono rimasti orfani», ha aggiunto indicando i corpi intorno a lui nella desolazione di una tendopoli che si è trasformata in un cimitero.
Non era ancora definitivo ieri sera il bilancio dell’attacco aereo israeliano. 45 i morti e circa 250 i feriti, secondo i dati ufficiali del ministero della sanità. 23 delle vittime erano donne, bambini e anziani. Ufficiosamente si parla di almeno 50 morti, un numero destinato a crescere per le condizioni critiche di tanti feriti. Alcuni hanno subito ustioni su gran parte del corpo e nell’unico centro sanitario di Tel el Sultan e nell’ospedale da campo della Croce Rossa non si può fare molto per aiutarli. Alcuni sono stati trasferiti negli ospedali Nasser e Amal di Khan Younis che soffrono ancora dei danni riportati durante il lungo assedio che hanno subito dalle forze israeliane nei mesi scorsi.
«È stato un tragico incidente di cui rammaricarsi». Così Netanyahu alla Knesset ha definito i fatti di Rafah durante un incontro con le famiglie degli ostaggi israeliani a Gaza che lo hanno contestato perché la leadership di Hamas, dopo questo ennesimo massacro, dice di non essere disposta a riprendere le trattative per la
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