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Afghanistan. Per Usa e Nato bisognava (e bisogna) esportare la democrazia. Ma i raid aerei non aiutano i civili - migliaia le vittime e più di 5 milioni di profughe/i - ma il mercato delle armi

I talebani «conquistano» Kabul

I talebani «conquistano» Kabul © Ap

Quali altre guerre sbagliate, e che non si possono vincere, ci aspettano, dopo gli inutili bagni di sangue di Afghanistan e Iraq? A Kabul c’è stato “un fallimento epocale finito in maniera umiliante”, titolava il New York Times, quotidiano che ha appoggiato Biden nella campagna elettorale contro Trump. Eppure mai come adesso è vera la frase del grande musicista Frank Zappa: “La politica in Usa è la sezione intrattenimento dell’apparato militar-industriale”. Biden, come in una caricatura hollywoodiana, continuava a sostenere in tv che il potente esercito afghano avrebbe respinto i talebani che stavano già alla periferia di Kabul. Ma il ruolo presidenziale è proprio questo: raccontare bugie, anche insostenibili, e contare gli utili, prima ancora dei morti. Anche le dichiarazioni del segretario di stato Blinken – “abbiamo raggiunto gli obiettivi” – appaiono meno ridicole di quel che sono se viste in questa ottica.

GLI AMERICANI E LA NATO dicono di volere esportare democrazia, in realtà esportano prima di tutto armi: il resto – “nation-building”, diritti umani, diritti delle donne – è un delizioso intrattenimento per far credere che con le cannonate facciamo del bene. Se vuoi aiutare un popolo puoi farlo senza usare i fucili, questo tra l’altro insegnava Gino Strada, vituperato da vivo dagli stessi ipocriti che oggi lo incensano e all’epoca sostenevano le guerre del 2001 e del 2003.

CHI PAGA DAVVERO il prezzo del fallimento e il ritorno dei talebani non sono

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In pace. Non c’è retorica che tenga nel ricordarlo come un protagonista - il protagonista - del pacifismo internazionale, quella «terza potenza mondiale» che alla fine fu ripetutamente sconfitta dalle tante, troppe guerre attivate ormai da scelte bipartisan in nome dell’”umanitario” e/o della “democrazia”.

Gino Strada

 

Gino, il compagno Gino Strada ci ha lasciato. È una morte pesante per il manifesto. Perché ovunque si sia mostrata in questi ultimi trenta anni una scellerata guerra promossa dall’Occidente, o direttamente o indirettamente, con le sue devastanti conseguenze, come la disperazione dei profughi in fuga dalle ultime macerie o la scia di sangue del terrorismo di ritorno, lì abbiamo sempre trovato Gino, perfino prima di noi, impegnato a dire no al nuovo, inutile spargimento di sangue. Come dimenticare poi che per alcuni anni insieme abbiamo promosso, con questo giornale, le nuove iniziative umanitarie da lui attivate nel grande serbatoio delle nostre ricchezze, il continente africano.

Non c’è retorica che tenga nel ricordarlo come un protagonista – il protagonista – del pacifismo internazionale, quella «terza potenza mondiale» che alla fine fu ripetutamente sconfitta dalle tante, troppe guerre attivate ormai da scelte bipartisan in nome dell’”umanitario” e/o della “democrazia”.

Lui l’alternativa alla guerra la costruiva umanitariamente ogni giorno sul campo con la pratica di Emergency, negli ospedali che il suo pacifismo attivo – non a chiacchiere – apriva, dove le armi non entravano e pronti ad accogliere tutte le vittime bisognose di cura e soccorsi, abolendo così la figura del nemico.

È sconvolgente che Gino Strada muoia nel momento in cui muore, un’altra volta, l’Afghanistan dopo venti anni di occupazione militare delle missioni Usa e Nato, rioccupato da quei talebani che la guerra del 2001 voleva sconfiggere e punire, come vendetta dell’11 settembre. Tra meno di un mese è il ventesimo anniversario di quella data che ha cambiato il mondo e gli Stati uniti a guida Biden riconoscono – indirettamente – che quel conflitto, che tanto sangue è costato soprattutto dei civili, è stato insensato. Un comportamento criminale che oscura ancora di più le nebbie già fitte delle Twin Towers distrutte. Ma naturalmente la logica del dominio non può perdere la faccia, tutto sembra preordinato e tutto va sacrificato: basta salvare l’ambasciata americana.

Sembra un film ma non lo è. Regna il caos ora in terra afghana, tra rovine, disperazione dei civili in fuga e massacri che si annunciano. Così l’addio di Gino appare come una nemesi: se ne va, dalla parte del torto proprio quando aveva ragione, proprio mentre la scena del disastro che ha denunciato mille e mille volte è illuminata nei suoi recessi più nascosti e mentre trionfano le sue parole di pace e di critica all’intervento armato.
Ora la morte di un uomo buono, giusto ma irriducibile, figlio di una generazione tutt’altro che sottomessa, ci lascia un testimone prezioso: quello di essere all’opposizione di ogni avventura militare.

Gino Strada lascia eredi non solo nelle nostre convinzioni profonde ma nel comportamento di tanti giovani ancorché nascosti nelle pieghe quotidiane della cronaca.

Chissà cosa pensa, mi sono chiesto, quando solo due settimane fa – mentre l’Amministrazione Usa avviava il ritiro delle truppe sul terreno – un tribunale americano si affrettava a condannare per tradimento a quattro anni di prigione Daniel Hale, giovane analista dell’intelligence dell’aviazione Usa che, contro tutto e tutti, ha avuto il coraggio di denunciare i crimini a distanza sui civili afghani dei bombardamenti fatti con i droni. Un fatto è certo, la missione di Gino Strada costruttore di pace non finirà con lui. E ci chiama a ruolo e a responsabilità.

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Dal sito de il manifesto      

https://ilmanifesto.it/

 

È scomparso oggi Gino Strada, medico e fondatore di Emergency. Al momento del decesso, avvenuto per un problema cardiaco, si trovava in Normandia. Aveva 73 anni.

 

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L'analisi. Le ipotesi di restyling della misura chiamata "reddito di cittadinanza" non risolveranno i problemi di una misura creati dai limiti fiscali e patrimoniali che impediscono di rispondere alla gravissima crisi sociale in corso. I ritocchi più significativi, ma tutti da verificare arriveranno dall'ennesima riforma delle "politiche attive del lavoro". Con i soldi del «Recovery» il governo vuole rafforzare la trasformazione del Welfare in Workfare, formalizzando il cambiamento della natura della cittadinanza sociale

In fila per il "reddito di cittadinanza"  © Ansa

Tra settembre e ottobre il comitato di valutazione del reddito di cittadinanza presieduto da Chiara Saraceno potrebbe consegnare al ministro del lavoro Andrea Orlando alcune proposte di riforma del cosiddetto «reddito di cittadinanza». Vediamo le ipotesi in campo. Quella più certa sembra la modifica della scala di equivalenza che penalizza le famiglie numerose con i figli minorenni nella distribuzione del “reddito” (sostegno medio di 581,39 euro al mese per due milioni e 860 mila individui, in totale oltre 7 miliardi di euro all’anno). Si parla anche di dimezzare i dieci anni di residenza imposti ai cittadini stranieri extracomunitari (ma non ai comunitari) per accedere alla misura, queste famiglie va ricordato sono più povere di quelle già povere italiane. Ma sono state prese a bersaglio da una norma razzista dei cinque stelle e della Lega. Invece di cinque, ne basterebbero due.

Il problema che rende il «reddito di cittadinanza» tutt’altro che una diga contro l’impoverimento generalizzato – per l’Istat solo negli ultimi 12 mesi i «poveri assoluti» sono aumentati di un milione (5,6 in totale) – sono i limiti fiscali, patrimoniali e reddituali pensati per escludere e non per includere. Secondo la Caritas il 56% dei potenziali beneficiari già oggi non possono accedere alla misura a causa delle norme fiscali, reddituali e patrimoniali pensate per escluderli. Oltre a loro ci sono i «nuovi poveri», quelli che lavorano e che hanno perso il lavoro durante la crisi sociale innescata dalla pandemia. Anche per loro, si dice, andrebbe previsto una modifica delle norme che estenderebbe il «reddito» perché oggi la norma impedisce di dimostrare che nei due anni precedenti alla domanda c’è stata una perdita di reddito o fatturato. Si dice anche che il «reddito di emergenza», pensato a metà 2020 per evitare di estendere il «reddito di cittadinanza» sarà riassorbito dalla misura di cui rappresenta un doppione. Ma è anche possibile che sarà lasciato decadere.

Si ripete inoltre da mesi l’ipotesi tutta da dimostrare, ma sostenuta da più parti, di uno sdoppiamento del reddito come misura di ultima istanza per il sostegno dei poveri dal reddito come sussidio di disoccupazione e di inserimento al lavoro, magari trattandolo come un voucher o un assegno di ricollocazione che il beneficiario può «spendere» presso un centro per l’impiego o un’agenzia interinale. Questo è il cuore di tutte le polemiche tra chi ha presentato in maniera truffaldina una misura che non è un «reddito di cittadinanza» come tale e chi invece ritiene in maniera infondata che tale misura avrebbe da sola prodotta «posti di lavoro», per di più in un paese colpito da una pandemia mondiale. Questo gioco degli equivoci, e della malafede, alimenta le polemiche tra i partiti e colpisce con un stigma sociale i poveri e chi lavora nella loro gestione come i tartassati «navigator».

La realtà, basta volerla vedere, è questa: due terzi degli attuali beneficiari non possono essere ritenuti «occupabili». È tutto da dimostrare che lo sarebbe una parte maggioritaria dei circa 1,1 milioni che invece sono stati definiti «occupabili» prima e durante la pandemia che ha bloccato molte delle attività di collocamento. È il mistero di pulcinella sul quale nessuno intende fare luce. Ed è la base di partenza che di solito trasforma queste politiche in una «trappola della povertà». Qui non si vuole emancipare milioni di persone dalla povertà, ma governare i poveri. La difficile occupazione degli occupabili darà la stura a norme, già previste dalla legge sul «reddito di cittadinanza», come l’ipotesi di mettere in concorrenza i centri per l’impiego e, soprattutto quella di commissariare i centri per l’impiego che non rispondono ai criteri di produttività nel collocamento – in pratica moltissimi tranne qualche eccezione in alcune regioni, in particolare del Centro-Nord del paese.

La vera partita sul «reddito di cittadinanza» si gioca dunque al di fuori di esso e riguarda le politiche attive del lavoro alle quali è stato agganciando secondo la formula misconosciuta in Italia, ma da tutti realmente auspicata, del Workfare, il rovesciamento dello schema del Welfare. Se in quest’ultimo la cittadinanza sociale è la prerogativa per il riconoscimento sia dei sussidi che del reinserimento al lavoro, nel Workfare è l’effetto della volontà di un soggetto che si rende disponibile al lavoro (ad essere cioè «occupabile» che non significa avere un’occupazione, perlomeno «fissa»), alla formazione obbligatoria e a svolgere la corvée dei «progetti utilità alla collettività» (Puc). In alcuni casi potrebbero risultare un’illusoria reinserimento sociale di persone dimenticate dalla società. In realtà, alla lunga, saranno la doppia pena dei poveri: esclusi e poi costretti ai lavori gratuiti pena la perdita del sussidio. Sull’incapacità di riconoscere e criticare modelli già noti in altri paesi si misura la forza dell’egemonia neoliberale sulla sinistra e sui sindacati, fautori in Italia di questo Workfare.

Il «Recovery» a nome della Commissione Europea ha scommesso più di 4 miliardi di euro su questo capitolo. Il sistema non funziona e agiterà lo scontro tra lo Stato e le regioni concorrenti sulla stessa politica.

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Afghanistan. Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Stati uniti negli ultimi vent’anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall’Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell’Isis

 

Il ritiro americano dall’Afghanistan è una vergogna ma anche una mossa calcolata. Il ritorno all’ordine talebano era prevedibile, forse persino auspicato. Fare gli stupiti è ipocrita.

Di mezzo come al solito ci vanno gli afghani che, come scriveva ieri sul manifesto Giuliano Battiston, sono stati scaricati dagli europei che premono per il rimpatrio dei profughi aggrappandosi ad accordi firmati dal governo di Kabul con un ricatto esplicito: dovete riprendervi i rifugiati altrimenti non vi diamo i soldi.
E poi ci facciamo chiamare Paesi «donatori». Insomma la stessa usuale solfa di Bruxelles che spera con i quattrini di fermare gli arrivi alle frontiere, una volta pagando Erdogan, un’altra i libici o i tunisini. I prossimi a libro paga magari saranno proprio i talebani e non ci sarebbe troppo da scandalizzarsi: da anni versiamo soldi ai criminali libici e ai loro complici.

L’Afghanistan è lontano e vogliamo dimenticare alla svelta Kabul, anche se sono passati vent’anni da quando gli Stati uniti hanno invaso l’Afghanistan con l’obiettivo di eliminare Al Qaeda dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e rovesciare il regime del Mullah Omar. Questa sembra essere l’unica preoccupazione dell’Unione europea: che l’Afghanistan stia sprofondando nel caos e in una nuova guerra civile, con il risorgere dei signori della guerra cooptati in questi anni nella «democrazia» afghana, appare secondario. Dopo avere proclamato, per anni, con gli americani che stare in Afghanistan era cosa giusta e doverosa per «proteggere» la democrazia e i diritti delle donne, adesso gli europei voltano la faccia dall’altra parte e rifiutano asilo a chi teme giustamente di essere ricacciato in un nuovo medioevo.

A stento sono stati salvati un po’ di afghani che lavoravano per le truppe occidentali, giusto per le pressioni sui media che hanno dato spazio alle suppliche di quelli che i talebani considerano «collaborazionisti». Tralasciando di scrivere che questo censimento dei collaborazionisti i talebani nelle provincie lo fanno da sempre e in maniera accurata, con in mano i dati anagrafici di una popolazione che hanno tenuto sotto torchio per anni. I talebani non hanno mai smesso di governare «a distanza» il Paese e tutti lo sapevano benissimo, altrimenti non sarebbero avanzati così velocemente.

L’ipocrisia è tale da nascondere un pensiero neppure troppo remoto, vista la situazione. Un ritorno all’«ordine talebano» potrebbe anche non dispiacere troppo ad americani ed europei.

Per questo ce ne siamo andati via alla chetichella ammainando velocemente la bandiera, come se qui non fossero morti dozzine di soldati italiani dando la caccia ai talebani nel Gulestan, la valle delle rose. Con il ritiro gli americani e la Nato hanno rifilato una pesante eredità all’Armata Rossa, ai cinesi e agli iraniani.

Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Stati uniti negli ultimi vent’anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall’Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell’Isis. Anche lì doveva un esercito nazionale come in Afghanistan a mantenere l’ordine: in tutti e due i casi le forze armate locali si sono sfaldate alla prima offensiva.

E ora l’Armata Rossa organizza manovre militari con Uzbekistan e Tagikistan: i russi dovrebbero tenere quelle frontiere che abbandonarono nell’89 quando si ritirarono dopo l’invasione del dicembre ’79 e una guerra persa contro i mujaheddin, sostenuti dagli Usa e dai loro alleati. Anche la Cina si sta muovendo per proteggere i confini dello Xinjiang musulmano e le concessioni minerarie afghane. L’obiettivo a quanto pare sembra sia stato raggiunto: i talebani hanno assicurato che non interferiranno nelle questioni interne cinesi tra gli uighuri e Pechino, allo stesso tempo la Cina ha definito gli insorti afghani “una forza militare e politica cruciale”. Così come stanno negoziando gli iraniani, che si trovano i talebani a stretto contatto nella provincia di Herat, storicamente legata alla Persia.

Tutti sono seduti al tavolo con i talebani, dagli americani agli altri, si tratta di preparare il terreno a loro riconoscimento internazionale. E vedrete che ci piacerà pure Muhammad Yaqoob, il figlio del Mullah Omar che lancia appelli _ non si sa quanto affidabili e realistici _ alla moderazione dei combattenti. Di democrazia, protezione dei diritti delle donne, sviluppo sociale ed economico di un Paese che l’Occidente diceva di volere cambiare già non parla più nessuno. Siamo tornati a casa, i profughi afghani li cacciamo indietro e abbiamo salvato una manciata di collaborazionisti: che volete di più? Il «ritorno all’ordine» tra un pò di tempo, anche nel caos, sarà completo.

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Scenari. Se la gravità della situazione viene nuovamente certificata sul piano scientifico con nuova analisi e dati, su diverse testate il nuovo negazionismo continua a seminare dubbi sulla gravità della situazione e a suggerire che comunque il cambiamento richiesto è peggio della malattia

Laguna de Suesca, Colombia  © Ap

Il sesto rapporto della Commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici dell’Onu (Ipcc) è stato lanciato mentre le ondate di calore e gli incendi devastano il pianeta dall’Amazzonia alla Siberia, dalla Grecia alla California.

Si tratta del primo dei tre volumi del sesto rapporto di valutazione, una sorta di summa delle scienze del clima pubblicata a otto anni dal rapporto precedente e a trentuno dal primo. La temperatura globale media registrata nel periodo 2010-19 risulta 1,07°C superiore a quella del periodo preindustriale mentre le concentrazioni di CO2 del 2020 sono quelle massime raggiunte negli ultimi 2 milioni di anni.

Rispetto al quinto rapporto, le evidenze della correlazione tra crisi climatica innescata dalle emissioni di gas serra e i fenomeni climatici estremi sono più forti così come il possibile crollo della corrente del Golfo giudicata solo otto anni fa «poco probabile» ora invece viene valutata con una probabilità media.

Si confermano i risultati presentati nel 2018 quando l’Ipcc aveva analizzato i diversi impatti tra uno scenario con l’aumento globale della temperatura media a 1,5°C e uno a 2°C e dunque dando un senso preciso alla formulazione degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, di limitare «ben al di sotto dei 2°C e preferibilmente a 1,5°C» la temperatura media globale.

Per riuscirci, e dunque per evitare le conseguenze peggiori, è necessario un dimezzamento delle emissioni globali entro il 2030 e un loro azzeramento entro il 2050: ed è ancora possibile farlo, questa la buona notizia negli scenari presentati dal rapporto.

La difficoltà – e i conflitti – stanno proprio nei tempi stretti per agire. Che la transizione richieda grandi investimenti e non sia una passeggiata è certo. Ma è solo metà della storia. Non c’è infatti solo il «bagno di sangue» evocato a ogni piè sospinto dal ministro Cingolani: i nuovi settori rinnovabili sono infatti a maggior intensità di lavoro e dunque richiederanno più occupati e, semmai, in qualifiche che richiedono politiche di formazione e di riconversione dei lavoratori dei settori fossili.

Questi sono dominati da un oligopolio globale fatto di poche majors (come per petrolio e gas) e di alcuni (importanti) stati proprietari delle risorse. I nuovi settori vedono invece una pluralità di soggetti anche di dimensioni medie e piccole e una concorrenza globale nelle tecnologie che, per alcune di queste, vede avanti la Cina. La cui linea pro-carbone va bloccata offrendo di cooperare sulle tecnologie pulite: una ripresa della collaborazione europea e americana col colosso asiatico, colpito anch’esso da alluvioni distruttive in queste settimane, rimane una condizione necessaria per combattere sul serio la crisi climatica.

Se la gravità della situazione viene nuovamente certificata sul piano scientifico con nuova analisi e dati, su diverse testate il nuovo negazionismo continua a seminare dubbi sulla gravità della situazione e a suggerire che comunque il cambiamento richiesto è peggio della malattia.

Alcuni sono tra quei promotori del nucleare poi bloccato dal referendum nel 2011: i reattori francesi (e quelli nippo-americani) proposti avrebbero creato solo altrettanti «buchi neri finanziari» senza aver prodotto un solo kilowattora. Oggi corrono solerti nel gruppetto dei nuovi negazionisti in soccorso degli interessi dei «padroni del vapore» per bloccare o ritardare i cambiamenti necessari, mentre aziende come Eni cercano di intimidire la stampa con querele temerarie come è successo al Fatto Quotidiano e di recente al Domani.

Eni che insiste con obiettivi largamente inadeguati sulle rinnovabili e a promuovere «soluzioni» incerte e rischiose come stoccare la CO2 nel sottosuolo o vendere il Gpl presentato come «verde» solo perché Eni ha acquistato gli equivalenti crediti di CO2 forestali in Zambia. Operazioni cartacee di assorbimenti forestali di CO2 a copertura di emissioni certe (quelle emesse dal Gpl «verde») che potrebbero andare in fumo al prossimo incendio, come è avvenuto per i crediti di CO2 acquisiti da altre grandi multinazionali proprio con gli incendi di questi giorni. Sarebbe ora di smetterla con l’aria fritta e iniziare a fare sul serio per combattere la crisi climatica.

* Direttore Greenpeace Italia

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