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Lavoro. Come già ai tempi di Keynes, oggi la qualità dell’occupazione dipende dalla composizione degli investimenti pubblici e dalla produzione relativa di beni

Un’opera di Jeffrey Smart

 

 Un’opera di Jeffrey Smart

È da apprezzare che il ministro Giorgetti sposi la prospettiva del “lavoro di cittadinanza” richiamandosi alla nostra Costituzione che colloca nel nesso con il lavoro il fondamento del valore dell’essere “cittadini”. Ma l’espressione ”lavoro di cittadinanza” va maneggiata con molta cura. Perché carica di significati che, a loro volta, racchiudono implicazioni dalle quali non si può prescindere, e la più riguarda l’impegno dei governi che la fanno propria a contrastare in tutti i modi la disoccupazione e a realizzare la “piena e buona occupazione”.

Dunque, tornare ad attingere alla riflessione keynesiana sulla “piena e buona occupazione” non può avere né un carattere strumentale (magari in semplicistica polemica con il “reddito di cittadinanza”), né un carattere retorico-irenico. Deve avvenire, anzi, nella consapevolezza che il modello economico ancora dominante – da cui è nata anche la pandemia – non crea naturalmente e spontaneamente occupazione e sviluppo nell’entità e nella qualità che sarebbero auspicabili. C’è bisogno di un rovesciamento di paradigma: non “alimentare la crescita sperando che ne scaturisca lavoro”, ma “creare lavoro per attivare la crescita, cambiandone al tempo stesso qualità e natura”. Tutto ciò implica la disponibilità da parte dell’operatore pubblico, piuttosto che a ricorrere solo a misure incentivanti volte a stimolare indirettamente la generazione di lavoro (come incentivi fiscali, decontribuzioni, bonus, trasferimenti monetari, riduzioni del cuneo fiscale, ecc.), ad adottare “piani diretti di creazione di occupazione” mediante un insieme articolato di progetti, facendo di “programmazione” e ”capacità progettuale” le vere parole chiave.

Keynes, nel considerare le tendenze al sottoutilizzo sistematico dei fattori fondamentali della produzione – lavoro e capitale – che egli riteneva intrinseche al capitalismo e rimediabili soltanto con una “socializzazione dell’investimento” di natura pubblica, reclamava lo Stato come employer of last resort, atto a dare vita a iniziative di “lavoro garantito”, insistendo che “non dovrebbe essere difficile accorgersi che 100.000 case nuove rappresentano un’attività per la nazione mentre un milione di disoccupati sono una passività”.

D’altro canto, la pandemia ha mostrato, una volta di più, che le cose non funzionano nei termini presupposti dai cultori dell’economia main stream convinti che esista un livello “naturale” del reddito e dell’occupazione determinato esclusivamente da tecnologia, risorse e preferenze degli agenti economici: lo testimoniano in modo eclatante le anomalie della condizione occupazionale femminile e gli alti tassi di disoccupazione e di inattività delle donne e dei giovani, anche ad elevata scolarità.

In effetti, produzione e occupazione dipendono in modo persistente dalla domanda di beni, ha mostrato la corda l’idea che esista un tasso di disoccupazione “naturale” che può essere ridotto solo mediante l’incremento della flessibilità del mercato del lavoro e la riduzione dei salari e in molti casi – si pensi a tanti ambiti della “cura”, dei “beni culturali”, dei “beni sociali”, del “risanamento ambientale” – i mercati, semplicemente, “non esistono” o sono altamente “incompleti”.

Il nodo era ai tempi di Keynes, ed è tutt’oggi, la problematicità del processo di investimento capitalistico e la sua relazione con il lavoro, quella problematicità che lo induceva a denunziare “l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni”. Anche oggi la riflessione va ampliata in modo da enfatizzare la connessione investimenti/lavoro e intervenire sulla composizione degli investimenti e della produzione relativa, intrecciando la creazione di lavoro con la soluzione dei problemi aperti: i bisogni sociali insoddisfatti vanno soddisfatti, i beni pubblici di cui vi è carenza vanno prodotti, i beni comuni vanno preservati e coltivati.

Questo, e non altro, è il modo di prendere sul serio il dettato costituzionale restituendo pienamente il loro valore – dopo tanti tentativi di decostituzionalizzazione – alle grandi Costituzioni del secondo dopoguerra. In esse la triplice centralità del lavoro – antropologica (il lavoro tratto tipico della condizione umana), etica (il lavoro espressione primaria della partecipazione al vincolo sociale), economica (il lavoro base del valore che obbliga a politiche di piena occupazione) – segna un “profondo distacco” dalle elitarie concezioni precedenti.

In particolare la Costituzione italiana è consapevolmente volta a costruire una gerarchia assiologica al cui vertice si colloca la “dignità” l’epicentro della quale è il “lavoro”, un lavoro che deve garantire il rispetto della “dignità umana” e il pieno sviluppo della “persona”. Così si spiega, non con banali ricostruzioni sociologiche stigmatizzanti il taglio “lavoristico”, la straordinarietà del suo articolo iniziale, l’articolo 1 – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” – che non è un episodio incidentale, né tanto meno un semplice ornamento.